Ottant’anni fa veniva assassinato nell’esilio messicano il rivoluzionario che insieme a Lenin aveva condotto i bolscevichi alla vittoria. Perseguitato da Stalin, si era sempre opposto all’idea che la rivoluzione potesse essere rinchiusa dentro i confini nazionali e aveva denunciato le degenerazioni burocratiche del sistema sovietico.
Sono da poco passate le sette di sera del 21 agosto 1940 quando, in un ospedale di Città del Messico, si spegne Lev Davidovič Bronštein, noto in tutto il mondo come “Trockij”. Ventiquattr’ore prima Ramón Mercader, un sicario al soldo di Stalin, introdottosi con l’inganno in casa sua, gli ha sfondato il cranio con una piccozza per il ghiaccio.
Il rivoluzionario che un tempo era stato il presidente del Soviet di Pietrogrado lo aveva ricevuto perché lo credeva un giornalista canadese. Frank Jacson – questo il nome con cui gli si era presentato quel giovanotto – si era dichiarato da subito un suo simpatizzante, intenzionato a pubblicare articoli in difesa delle ragioni del marxismo rivoluzionario. E così si era introdotto con facilità nella residenza di Coyoacàn, dove Trockij viveva con la moglie, alcuni fidati amici e le sue guardie del corpo.
Ecco perché, nel tardo pomeriggio di un giorno di agosto, Trockij – terminato di dare da mangiare ai conigli e alle galline – invita Jacson-Mercader nel suo studio. È lì, con Trockij alla scrivania, che si consuma il momento fatale. Quello che si spaccia per giornalista è un agente della Gpu, addestratosi scrupolosamente per questa missione, tanto da parlare, durante il processo a suo carico per l’assassinio, di “una meravigliosa opportunità”:
«il momento in cui Trockij cominciò a leggere l’articolo mi diede la chance, estrassi la piccozza dall’impermeabile, la strinsi in pugno e, con gli occhi chiusi, sferrai un colpo terrificante alla sua testa».
I medici messicani non riescono a fare nulla: la lama della piccozza è penetrata per diversi centimetri nel cranio. L’agonia dura un giorno intero, poi il rivoluzionario che aveva fondato l’Armata Rossa cessa di vivere.
L’ordine partito da lontano è stato eseguito. A Mosca qualcuno potrà dire che la missione è compiuta: Trockij è stato eliminato con un colpo alle spalle.
Trionfi e sconfitte
«Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono stato un rivoluzionario, per quarantadue anni ho combattuto sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi rifare tutto daccapo, cercherei di evitare, come ovvio, questo o quell’errore specifico, ma il corso principale della mia vita non cambierebbe. Intendo morire da sostenitore della rivoluzione proletaria, da marxista, da materalista dialettico, conseguentemente da risoluto ateo. La mia fede nel futuro comunista del genere umano non è certo meno solida ora, anzi è più ferma oggi di quanto non lo fosse negli anni della mia gioventù. […]
La vita è bella. Invito le generazioni future a purificarla da ogni male, oppressione e violenza e a goderla a pieno».
Così suonavano le parole che Trockij aveva scritto in una lettera del febbraio del 1940, alcuni mesi prima che il sedicente Jacson bussasse alla sua porta. Da tempo, anche nei suoi discorsi, fa trapelare ormai la consapevolezza che la fine sia incombente, che la morte gli sia addosso, ma fino all’ultimo Trockij non abbandona la risoluta fiducia nella capacità del movimento dei lavoratori di risollevarsi dall’abisso in cui l’involuzione burocratica e totalitaria dell’Urss staliniana lo ha fatto precipitare.
Quando scocca la sua ora, non ha ancora compiuto 61 anni, ma i suoi sostenitori più fedeli è da un pezzo che lo chiamano “il Vecchio”. La vita lo ha consumato in fretta, forse perché le sconfitte divorano gli uomini più di quanto le vittorie li mantengano giovani. Lui che, alla guida dell’Armata Rossa, ha fatto trionfare la rivoluzione, sbaragliando l’uno dopo l’altro i generali delle Armate bianche, non ha potuto – o non ha saputo? – difenderla dopo la morte di Lenin. Aveva scommesso tutto, come molti altri bolscevichi, sull’estendersi del fenomeno rivoluzionario nel resto d’Europa e – perché no – nel mondo intero. Ma dopo la vittoria, impensata e, in certi momenti, impensabile, nella guerra civile, quando le speranze dei lavoratori di tutto il mondo sembravano guardare al paese dei soviet, sono arrivate le battute d’arresto.
All’inizio del 1920, in Germania, gli spartachisti vedono naufragare il sogno di una rivoluzione tedesca: ad assassinare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht sono mani armate dagli ex compagni socialdemocratici. Il proletariato tedesco, diviso e disorientato, accetta la transizione democratica dall’impero guglielmino alla Repubblica di Weimar.
Nell’agosto di quello stesso anno l’esercito dei bolscevichi, che si sta muovendo verso ovest per diffondere la rivoluzione sulla punta delle baionette, conosce la sua prima significativa sconfitta alle porte di Varsavia. Il risorto stato polacco assolve al suo compito: è stato disegnato dai diplomatici delle potenze europee, sulla carta geografica della Conferenza di Versailles, con lo specifico scopo di fare da cordone sanitario contro l’estendersi del virus rivoluzionario. I bolscevichi si aspettavano l’insurrezione della classe operaia di Varsavia, ma il nazionalismo polacco ha scaldato i cuori più di quanto abbia saputo fare l’internazionalismo operaio.
Anche i tentativi rivoluzionari in Ungheria, in Austria, in Italia e altrove naufragano: il capitalismo è sopravvissuto. Quando iniziano gli anni Venti non si tratta più di estendere la rivoluzione, ma di capire come difenderla nell’unico posto in cui si è affermata: l’Unione Sovietica.
Rivolta e repressione a Kronstadt
Mentre Lenin, alla guida di una paese che esce stremato dalla guerra civile, prepara la svolta che condurrà al varo della NEP, il nuovo corso economico, Trockij si trova a gestire l’episodio forse più controverso della propria vita.
È il marzo del 1921 quando a Kronstadt, la base militare che era stata il fiore all’occhiello della rivoluzione, scoppia la rivolta. I marinai e cittadini dell’isola di fronte a Pietrogrado, guidati dagli anarchici, scrivono un programma rivoluzionario riassumibile in poche parole: “soviet senza comunismo”. Tradotto significa che non se ne può più della burocratizzazione e della centralizzazione amministrativa che il paese sta subendo, che sono inaccettabili le requisizioni delle derrate alimentari, che non si è fatta la rivoluzione per mettersi in fila con le tessere annonarie, che la presenza ossessiva dei commissari politici e della Ceka ricorda quella della polizia dello zar.
La politica del “comunismo di guerra” viene duramente attaccata. Così scrivono sul loro giornale gli insorti:
«Noi siamo per il potere dei soviet, ma non dei partiti, siamo per la rappresentanza liberamente eletta dei lavoratori. I soviet che sono stati carpiti e manipolati dal Partito comunista si sono sempre dimostrati sordi alle nostre richieste e ai nostri bisogni. […] Il regime comunista ha ridotto tutta la Russia in uno stato di miseria senza precedenti, di fame, di freddo e di altre privazioni. Le fabbriche e le officine sono chiuse, le ferrovie alla vigilia della catastrofe. La campagna è stata scorticata all’osso. Non abbiamo pane, né bestiame, né attrezzi per lavorare la terra.»
Dopo circa due settimane di autogestione dell’isola, la rivolta di Kronstadt viene repressa nel sangue in modo spietato. L’Armata Rossa, non diversamente da quanto era accaduto in Ucraina nei confronti dell’esperimento libertario guidato dall’anarchico Nestor Makhno, rivolge le proprie armi contro altri rivoluzionari.
Anche se Trockij non ha un ruolo diretto nell’ordinare la repressione, come Commissario della Guerra e membro del governo sovietico, accetta la responsabilità politica di quanto accade. Anche negli anni successivi – e fino a poco prima della morte – continuerà a insistere nel definire “controrivoluzionarie” e “piccolo-borghesi” le rivendicazioni degli insorti di Kronstadt. Si tratterà di una lacerazione che lo separerà da alcuni che erano stati suoi sostenitori, come Victor Serge e Boris Souvarine che, con il senno di poi, vedranno nell’episodio di Kronstadt e in altri accadimenti simili i prodromi dell’affermazione del terrore staliniano.
All’opposizione
È in seguito alla morte di Lenin che Trockij, tuttavia, comincia a trovarsi nell’angolo. Sottovaluta inizialmente l’ascesa di Stalin e il potere crescente che il processo di burocratizzazione del partito sta consegnando nelle mani di “Koba” il georgiano. Tutta la vis polemica di Trockij – il cui prestigio, tra i ranghi dell’esercito e tra i militanti della vecchia guardia rivoluzionaria, è ancora forte – sembra indirizzata verso Kamenev e Zinov’ev con i quali si era già scontrato per divergenze tattiche al tempo della Rivoluzione d’Ottobre. La scaltrezza di Stalin sta proprio nel cercare e trovare l’alleanza con loro per isolare Trockij.
L’idea della “rivoluzione permanente” – di certo il contributo teorico più duraturo e noto della riflessione di Trockij – sembra avere il fiato corto nel momento in cui inizia il braccio di ferro con Stalin. Un ennesimo tentativo rivoluzionario in Germania è fallito miseramente nel 1923. Modesti focolai di ribellione in Bulgaria e nei paesi baltici hanno avuto una sorte ancora peggiore. In Italia il movimento operaio è stato piegato dall’ascesa del fascismo. Il vento, che prima spingeva le vele della rivoluzione, sembra essere mutato ovunque: così Stalin ha buon gioco nel contrapporre alla “rivoluzione permanente” la dottrina del “socialismo in un paese solo”. Trockij continua a insistere sulle sua posizioni, quando ormai il potere di Stalin è tale da poter scaricare Zinov’ev e Kamenev, che vanno a costituire l’Opposizione Unificata proprio con Trockij. All’interno degli organi del partito le loro posizioni saranno sconfitte.
È l’autunno del 1927, decimo anniversario della rivoluzione, e i militanti dell’opposizione decidono di dare vita a celebrazioni autonome dell’Ottobre. A migliaia scendono in strada nelle principali città e si scontrano con la forza pubblica sovietica e con i sostenitori di Stalin. Per quest’ultimo la misura è colma: Zinov’ev e Trockij sono espulsi dal partito per attività controrivoluzionaria. La stessa sorte toccherà a Kamenev poche settimane dopo. Trockij viene deportato con la famiglia ad Alma Ata in Kazakistan, ai confini con la Cina. Un anno dopo ha l’occasione di lasciare l’Urss, il paese che aveva contribuito a fondare. Non vi farà ritorno: ospite mai troppo gradito in Turchia, Francia, Norvegia, e infine Messico, non rivedrà più la Russia.
La rivoluzione permanente e gli Stati Uniti sovietici d’Europa
Quando la piccozza di Mercader affonda nel suo cranio, l’esilio di Trockij dura da undici anni. Per lui non è una novità l’esperienza di essere esule politico. Per due volte era fuggito dalla Russia zarista, la terza volta, la più dolorosa, è quella in cui si trova ad essere un reietto per il paese che quasi tutti ritengono il faro del proletariato mondiale. Come nelle altre due occasioni in cui ha dovuto riparare all’estero, è però convinto che ci sarà un’altra rivoluzione e – se sarà ancora vivo – allora tornerà ancora.
Dopo essere scappato dalla Siberia in cui lo aveva deportato la polizia dello Zar nel 1902, aveva peregrinato in tutta Europa, ma era riapparso in Russia nel gennaio del 1905 alla guida dell’esperienza rivoluzionaria del soviet di Pietrogrado. Ancora in fuga dopo il fallimento della rivoluzione, era stato dieci anni profugo in Austria, in Francia, infine negli Stati Uniti. Ma da qui si era imbarcato su un piroscafo nell’aprile del 1917, per raggiungere nuovamente Pietrogrado a maggio, con i soviet risorti. Qui era stato protagonista decisivo della presa del potere dei bolscevichi ad ottobre.
Quando inizia il suo ultimo esilio, la sua convinzione che la rivoluzione o sarà mondiale o non sarà è più forte che mai. È appena arrivato a Prinkipo, dove trascorrerà l’esilio in Turchia, quando descrive, nell’introduzione ai testi che compongono La rivoluzione permanente, la perversa combinazione operata da Stalin tra un “messianismo nazionale” che riprende, con nuove declinazioni, la tradizione della Russia zarista e un “internazionalismo burocraticamente astratto” promosso dal Comintern. Per questa ragione non cesserà di ribadire le ragioni di un internazionalismo vero e praticabile, ribadendo in ogni modo che «la rivoluzione socialista non può giungere a compimento entro il quadro nazionale».
È questa convinzione ad aver spinto Trockij a promuovere la tesi – che non abbandonerà mai – della necessità di dare vita agli Stati Uniti Sovietici d’Europa: una federazione che sarebbe dovuta sorgere sul continente europeo una volta che la rivoluzione si fosse diffusa, in modo da evitare che le sirene nazionaliste potessero far presa sulle classi lavoratrici. Era stato Trockij a convincere l’Internazionale comunista a inserire la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa nel proprio programma, è Stalin a farla cancellare.
Nell’ottobre del 1929 Trockij scrive:
«Questa formula viva (gli Stati Uniti sovietici d’Europa, n.d.r), con il suo grande significato storico, è stata cancellata dal programma dell’Internazionale comunista nel solo interesse della lotta contro l’Opposizione. È una ragione di più perché l’Opposizione la riprenda e la proclami con tenacia. Assieme ad essa, l’avanguardia proletaria d’Europa dirà ai padroni di oggi:
“Per unificare l’Europa bisogna anzitutto strapparvi il potere. Lo faremo. Unificheremo l’Europa. La unificheremo contro il nemico e questo nemico è il mondo capitalista.
Ne faremo la piazza d’armi grandiosa del socialismo combattente. Ne faremo la pietra angolare della Federazione socialista mondiale“».
Ma le ragioni per cui il processo rivoluzionario non deve arrestarsi sono numerose. Anche laddove si giunge alla conquista del potere, è la dialettica interna al movimento operaio stesso a promuovere una continua lotta interna: è così che la società procede verso nuove trasformazioni, aprendosi verso orizzonti di possibilità prima inesplorati. Se il processo rivoluzionario invece si cristallizza, si apre la strada alla degenerazione burocratica. La rivoluzione russa è stata tradita dalla convinzione che gli apparati di partito potessero sostituirsi ai processi reali di conflitto tra le classi sociali. La burocrazia smette di interessarsi alla rivoluzione e si occupa solo del consolidamento del proprio potere.
Il fronte unico e la lotta contro il fascismo
I disinvolti cambi di linea politica da parte di Stalin sono la riprova che la burocrazia di partito, così come una casta sacerdotale, non persegue una strategia rivoluzionaria globale ma ambisce tutelare se stessa. Trockij non cessa di ripeterlo, soprattutto quando l’ombra nera del fascismo si stende sull’Europa. Lo dice e lo scrive ancora proprio in quel 1940, quando la morsa di Stalin attorno a lui si sta stringendo. L’inizio della guerra in Europa ha reso evidente la debolezza dell’Unione Sovietica, in quel momento legata – ricordiamolo – alla Germania nazista dal patto di non aggressione dell’anno prima. Anche per questo Stalin deve liberarsi di una presenza la cui voce, seppur flebile e poco ascoltata, continua a essere una spina nel fianco.
Trockij aveva in precedenza condannato categoricamente la teoria del “socialfascismo”, pericolosissima perché, accomunando i partiti socialdemocratici alle forze fasciste, non permetteva di distinguere le imperfette democrazie parlamentari dalle dittature. Sin dal 1933 però andava ripetendo che Stalin avrebbe cercato prima o poi un accordo con Hitler. Nel 1935 aveva addirittura scritto che la svolta dell’Internazionale comunista che conduceva alla politica dei Fronti popolari altro non era che la “soluzione di ripiego di uno spasimante respinto”.
Insomma aveva previsto l’accordo Molotov-Ribbentrop in tempi non sospetti, prima che i suoi foschi presagi si intravedessero nella liquidazione e repressione dell’esperienza rivoluzionaria spagnola, una triste pagina in cui le responsabilità dello stalinismo erano state evidenti. Poi quando era iniziato il conflitto mondiale in Europa, proprio mentre Hitler e Stalin si spartivano la Polonia, Trockij aveva profetizzato che, di lì a breve stracciando i trattati, l’espansionismo nazista si sarebbe rivolto contro l’Urss. A quel punto però sarebbe toccato al proletariato mondiale – aveva detto Trockij – fermare prima Hitler e poi abbattere Stalin. Certo, l’Unione Sovietica era ormai “uno stato operaio degenerato”, ma non sarebbe dovuto certo toccare alla bestia nazista rovesciare la burocrazia sovietica che aveva tradito la rivoluzione: quello sarebbe stato il compito dei lavoratori. Non a caso, Trockij, sin dal primo affermarsi del nazismo in Germania, e soprattutto dopo le imponenti manifestazioni fasciste in Francia nel 1934, aveva invitato a costruire in Europa un “fronte unico” del proletariato, chiamando all’unità tutta la sinistra di classe. Anche per questo nel 1938 si era deciso a dare vita alla “Quarta Internazionale“, un progetto che era andato definendosi sin dalla prima metà degli anni Trenta. Era stata l’occasione per divulgare il Programma di transizione, che rivendicava – per l’Urss come per ogni futuro paese rivoluzionario – il pluralismo politico, la tutela delle libertà democratiche, l’indipendenza dei sindacati rispetto allo stato. I soviet, insomma, avrebbero dovuto tornare a essere democratici e aperti al pluripartitismo.
Persecuzione
La “meravigliosa occasione” che si presenta a Mercader il 20 agosto del 1940, è, in realtà, per la poderosa rete messa su da Mosca, un secondo tentativo. Il primo colpo, infatti, è andato a vuoto.
Gli agenti sparsi per il mondo da Stalin decidono di passare all’azione e sbarazzarsi di Trockij già il 24 maggio di quel fatidico anno, proprio mentre in Europa la Francia sta per capitolare di fronte all’avanzata nazista.
Il “Vecchio” e sua moglie, Natalia Sedova, si salvano sorprendentemente da un attentato che non doveva lasciare loro scampo, organizzato dal pittore messicano David Alfaro Siquieiros, risoluto seguace di Stalin. Un commando armato, dopo aver neutralizzato il presidio di polizia posto a protezione della residenza di Coyoacàn ed essere penetrato nel cortile, scarica oltre duecento colpi di mitragliatrice e armi pesanti contro le finestre della stanza da letto dove dormono il rivoluzionario russo e la moglie. Scampato senza quasi un graffio, Trockij, da ateo e materialista, comunque pensa al miracolo.
Da tempo gli è ormai chiara la differenza tra vivere e sopravvivere. Negli anni aveva fatto l’abitudine alle notizie sulle persecuzioni sistematiche subite da tutti coloro che potevano essere collegati alla sua cerchia. Nel 1934 era stata arrestata e poi deportata alla Kolyma la sua prima moglie, Aleksandra Solokovskaja. Una fine simile tocca prima al più giovane dei suoi figli, Sergei, che, nonostante fosse estraneo alla politica, era stato più volte arrestato e deportato tra il 1935 e il 1937, fino a che se ne perdono le tracce. Poi è la volta di Lev Sedov, il figlio più grande (costretto a portare il cognome della madre), sostenitore attivo della linea politica del padre e accusato di essere con lui in combutta: la sua morte a Parigi, nel 1938, successiva a complicazioni post-operatorie dopo un banale intervento di appendicite, resta a lungo un mistero. Nel secondo dopoguerra si scoprirà che la clinica parigina dove Lev era stato ricoverato era una struttura controllata dalla Gpu.
Non si salvano gli amici e i compagni più fedeli, come il comunista tedesco Rudolf Klement, rapito e assassinato dagli agenti della Gpu nel corso della guerra civile spagnola, non diversamente da quanto accade al catalano Andreu Nin.
Anche il genero di Trockij, Platon Volkov, marito di Zinova, la più anziana delle figlie avute da Aleksadra Solokovskaja, ugualmente non è risparmiato dalla repressione staliniana: riconosciuto come esponente dell’Opposizione di sinistra era caduto sotto i colpi della campagna persecutoria del 1936, l’anno in cui si aprono a Mosca i grandi processi. Le purghe di Stalin travolgono e vedono soccombere tutti i bolscevichi della vecchia guardia. Degli esponenti di spicco che avevano fatto la rivoluzione nel 1917 non si salva nessuno, ma il capro espiatorio numero uno, accusato dei più turpi complotti ai danni dell’Urss e processato in contumacia, resta lui, Lev Davidovič Bronštein. Da salvatore dell’Urss, quando, a capo dell’Armata Rossa, era riuscito a rompere l’accerchiamento dei generali bianchi e delle forze dell’Intesa che volevano soffocare la rivoluzione, Trockij è diventato per la propaganda di Stalin il doppiogiochista per eccellenza, pronto a vendersi ora alle potenze capitaliste, ora al fascismo: nientemeno che l’esatta proiezione di ciò che ha fatto Stalin con i suoi continui cambiamenti di linea politica.
Per cercare di smascherare le menzogne sul suo conto che venivano ripetute nei tribunali sovietici e amplificate dalla stampa filo-comunista in tutto il mondo, Trockij e i suoi sostenitori si adoperano per mettere in piedi una commissione internazionale per la verità in Urss. Sarebbe divenuta celebre come la “commissione Dewey”, poiché a presiederla c’era il celebre filosofo e pedagogista statunitense. «Ho accettato la responsabilità di questa presidenza perché rifiutandola sarei venuto meno all’opera della mia vita», racconterà Dewey al proposito, senza nascondere la fascinazione per un uomo in cui c’è «questo non so che di incompiuto che la sventura aggiunge alla virtù».
Quando il verdetto della “commissione Dewey”, nel settembre del 1937, come premessa a un dossier di oltre 600 pagine, afferma che i processi di Mosca sono una “farsa”, gli stalinisti stanno ormai da mesi procedendo a stroncare l’esperienza della rivoluzione spagnola.
Laddove erano sorte le comuni agricole in Aragona e in Catalunya, i comunisti filo-staliniani spagnoli si presentano a restaurare la proprietà privata. Si susseguono gli omicidi politici e, da parte degli agenti della GPU, ormai è caccia aperta agli esponenti dei POUM, il Partido Obrero de Unificación Marxista, schieratosi con gli anarchici della CNT e quindi contro gli stalinisti e i repubblicani della sinistra liberale, nella contrapposizione che aveva lacerato, a maggio, il fronte repubblicano.
Ciò che succede in Spagna – e che sarà denunciato da pochi, tra cui vale la pena ricordare George Orwell – non è che il riflesso di quanto accade in Urss, dove la liquidazione dei vecchi bolscevichi procede senza sosta.
Inesorabilmente, giorno dopo giorno, il cerchio attorno a Trockij si fa più stretto. Sino a quel giorno dell’agosto del 1940, quando l’uomo che era sopravvissuto alle prigioni dello zar, agli esili, a tre rivoluzioni soccombe al colpo sferratogli alle spalle da un sicario – che proprio in Spagna ha appreso come si assassinano, a tradimento, i rivoluzionari.
*Articolo apparso su www.lastoriatutta.org il 21 agosto 2020