Lezioni online o in presenza? Non si è parlato d’altro durante gli ultimi consigli di dipartimento della mia università. Riunioni rigorosamente online, ma durante le quali – forse per la prima volta da quando partecipo alle discussioni collegiali sull’organizzazione della didattica – non c’è stato bisogno né di litigare né di contarsi: ricercatori, professori, associati e ordinari, eravamo tutti unanimi sulla necessità di ricominciare a fare lezione in aula, nonostante l’assenza di locali adeguati, l’impossibilità di rispettare le distanze dl sicurezza, l’obbligo, per studenti e insegnanti, di portare sempre la mascherina.
“*Siete sicuri di farcela parlare per ore con la mascherina?”, ha chiesto più volte il direttore amministravo del Campus Saint Germain? “Non vi basta essere riusciti a ottenere una licenza Zoom Pro?”. Ma queste sono obiezioni di chi, gestendo il budget di un’università, non si rende conto di cosa significhi fare lezione, e pensa che mettersi davanti al proprio computer e recitare una serie di nozioni sia più che sufficiente ad assicurare la continuità didattica. Insegnare, però, è tutt’altro. Insegnare significa riuscire a creare un dialogo costante con gli studenti, anche quando sono tanti e non è facile ricordare ogni viso e ogni nome. Insegnare significa non smettere mai di osservare e ascoltare. I silenzi o i brusii di un gruppo di ragazzi e ragazze non sono mai neutri: hanno un significato, un peso, una rilevanza.
All’Université de Paris c’è l’obbligo di frequenza. Sono ormai più di dieci anni che ogni settimana, invece di far passare il foglio delle presenze e lasciare che siano gli studenti a firmare, ho preso l’abitudine di fare l’appello. Li chiamo uno per uno, cercando di associare nome e viso per imparare a conoscerli, e poi rivolgermi loro sapendo con chi sto via via interagendo. “Chi ha idea di come si possano distinguere le norme giuridiche dalle norme morali?” è una delle prime domande che faccio ai ragazzi e alle ragazze quando inizio i miei corsi di etica applicata. Ed è spesso a partire dalle loro risposte che modulo le mie lezioni. Che bisogno ci sarebbe d’altronde di seguire una lezione se un insegnante non fa altro che ripetere cose che si possono leggere su un manuale o un saggio o un articolo? Le letture, i miei studenti potranno farle a casa loro. In aula, c’è bisogno di guidarli, di aiutarli a interpretare un passaggio più complesso dell’opera di un filosofo, di dare loro strumenti critici affinché poi possano essere capaci di mettere insieme i vari concetti che si affrontano nel corso del semestre.
Durante il lockdown, siamo stati in tanti a mettercela tutta per continuare il dialogo con gli studenti da remoto.
Abbiamo imparato a utilizzare software e piattaforme specializzate, a discutere via Skype, talvolta anche al telefono. Abbiamo condiviso power point e video. Abbiamo persino animato chat. Ma più il tempo passava, più la voce diventava fredda, metallica, lontana. Mancavano l’ascolto e il linguaggio del corpo. Mancava la possibilità dl fermarsi, interrogati da quello sbadiglio o da quel sospiro che ti spingono a cercare un esempio o un modo alternativo per spiegare l’imperativo categorico kantiano o il sillogismo pratico aristotelico. Mancavano l’entusiasmo e la forza che comunica l’essere in presenza Mancava soprattutto il confronto, che talvolta è anche scontro e che, però, è l’essenza stessa di una filosofia che, in assenza di dialogo, diventa mera retorica.
Certo, quando sarò di nuovo in aula, gli occhiali mi si appanneranno, dovrò cambiare ogni ora la mascherina, sarò costretta a utilizzare litri di gel, magari mi irrigidirò pure sentendo uno starnuto o un colpo di tosse. Ma sono mesi che aspetto di ritrovarmi davanti ai miei studenti e riprendere il filo di un discorso che, nonostante Moodle o Zoom, si è di fatto interrotto lo scorso marzo. E nonostante gli occhiali appannati, le mascherine madide di saliva e l’assenza di distanza tra banchi e cattedre, non vedo l’ora di ritrovarmi tra i miei ragazzi e le mie ragazze, un gesso in mano, la voce a tratti rotta dall’emozione, e il mio corpo che parla, per insegnare come la filosofia sia forse il modo migliore per raccontare la finitezza e la gioia, gli ossimori e le contraddizioni dell’esistenza.
*La Repubblica, 9 settembre 2020