Tempo di lettura: 7 minuti

L’ecosocialismo e il movimento della decrescita sono tra le correnti più importanti della sinistra ecologica. Gli ecosocialisti concordano sul fatto che sono necessarie misure significative di decrescita nella produzione e nel consumo per evitare il collasso ecologico. Ma danno una valutazione critica delle teorie della decrescita perché:
a) il concetto di “decrescita” è insufficiente per definire un programma alternativo;
b) non chiarisce se la decrescita può essere raggiunta o meno nel quadro del capitalismo;
c) non distingue tra le attività che devono essere ridotte e quelle che devono essere sviluppate.

È importante tener conto del fatto che la corrente della decrescita, particolarmente influente in Francia, non è omogenea: ispirata dai critici della società dei consumi, Henri Lefebvre, Guy Debord, Jean Baudrillard, e del “sistema tecnico”, Jacques Ellul, contiene diverse prospettive politiche. Ci sono almeno due poli abbastanza lontani, se non addirittura opposti: da un lato, i critici della cultura occidentale tentati dal relativismo culturale (Serge Latouche), dall’altro, gli ecologisti universalisti di sinistra (Vincent Cheynet, Paul Ariés).

Serge Latouche, intellettuale noto in tutto il mondo, è uno dei più controversi teorici francesi della decrescita. Sicuramente alcuni dei suoi argomenti sono legittimi: la demistificazione dello “sviluppo sostenibile”, la critica alla religione della crescita e del “progresso”, invocano una rivoluzione culturale. Ma il suo rifiuto totale dell’umanesimo occidentale, dell’Illuminismo e della democrazia rappresentativa, così come il suo relativismo culturale (non esiste alcun valore universale) e la sua smodata celebrazione dell’età della pietra aprono molti spazi alle critiche. Ma c’è di peggio. La sua critica alle proposte ecosocialiste di sviluppo per i Paesi del Sud del mondo – più acqua pulita, scuole e ospedali – considerate come “etnocentriche”, “occidentalizzanti” e “distruttive degli stili di vita locali”, è abbastanza insopportabile. Last but not least, la sua argomentazione secondo cui non c’è bisogno di parlare di capitalismo, dato che questa critica “è già stata fatta, e fatta bene, da Marx” non è seria: è come se si dicesse che non c’è bisogno di denunciare la distruzione produttivista del pianeta perché questa è già stata fatta, “e fatta bene”, da André Gorz (o Rachel Carson).

Più vicina alla sinistra è la corrente universalista, rappresentata in Francia dalla rivista La Décroissance (“La Decrescita”), anche se si può criticare il “repubblicanesimo” francese di alcuni suoi teorici (Vincent Cheynet, Paul Ariès).

A differenza del primo, questo secondo polo del movimento della decrescita ha molti punti di convergenza – nonostante occasionali polemiche – con i movimenti della Giustizia Globale (ATTAC), gli ecosocialisti e i partiti della sinistra radicale: estensione della gratuità [beni, servizi o confort offerti gratuitamente], predominanza del valore d’uso sul valore di scambio, riduzione del tempo di lavoro, lotta contro le disuguaglianze sociali, sviluppo di attività “non di mercato”, riorganizzazione della produzione secondo i bisogni sociali e tutela dell’ambiente.

Molti teorici della decrescita sembrano credere che l’unica alternativa al produttivismo sia quella di fermare del tutto la crescita, o di sostituirla con una crescita negativa, cioè di ridurre drasticamente il livello eccessivamente elevato di consumo della popolazione tagliando della metà la spesa energetica, rinunciando alle case individuali, al riscaldamento centralizzato, alle lavatrici, ecc. Poiché queste e simili misure di austerità draconiana rischiano di essere alquanto impopolari, alcuni di essi – tra cui un autore importante come Hans Jonas, nel suo “Principle Responsibility” – giocano con l’idea di una sorta di “dittatura ecologica”.

Contro tali visioni pessimistiche, i socialisti ottimisti ritengono che il progresso tecnico e l’uso di fonti di energia rinnovabili consentiranno una crescita e un’abbondanza illimitata, in modo che ciascuno possa ricevere “secondo le proprie esigenze”.

Mi sembra che queste due scuole condividano una concezione puramente quantitativa della “crescita” – positiva o negativa – o dello sviluppo delle forze produttive.

C’è una terza posizione, che mi sembra più appropriata: una trasformazione qualitativa dello sviluppo. Ciò significa porre fine al mostruoso spreco di risorse da parte del capitalismo, basato sulla produzione, su larga scala, di prodotti inutili e/o nocivi: l’industria degli armamenti ne è un buon esempio, ma gran parte dei “beni” prodotti nel capitalismo, con la loro obsolescenza intrinseca, non hanno altra utilità se non quella di generare profitto per le grandi imprese. Il problema non è il “consumo eccessivo” in astratto, ma il tipo di consumo prevalente, basato com’è su vistosi acquisti, lo spreco massiccio, l’alienazione mercantile, l’accumulazione ossessiva di beni, e l’acquisto compulsivo di pseudo-novità imposte dalla “moda”.

Una nuova società orienterebbe la produzione verso il soddisfacimento di bisogni autentici, a partire da quelli che si potrebbero definire “biblici” – acqua, cibo, abbigliamento, abitazione – ma includendo anche i servizi di base: salute, istruzione, trasporti, cultura.

Come distinguere l’autentico dalle esigenze artificiali, fittizie (create artificialmente) e improvvisate? Queste ultime sono indotte dalla manipolazione mentale, cioè dalla pubblicità. Il sistema pubblicitario ha invaso tutte le sfere della vita umana nelle società capitalistiche moderne: non solo il cibo e l’abbigliamento, ma anche lo sport, la cultura, la religione e la politica sono modellati secondo le sue regole. Ha invaso le nostre strade, le cassette della posta, gli schermi televisivi, i giornali, i paesaggi, in modo permanente, aggressivo e insidioso, e contribuisce in modo decisivo ad abitudini di consumo vistoso e compulsivo. Inoltre, spreca una quantità astronomica di petrolio, elettricità, tempo di lavoro, carta, prodotti chimici e altre materie prime – tutte pagate dai consumatori – in un ramo della “produzione” che non solo è inutile, dal punto di vista umano, ma è direttamente in contraddizione con le reali esigenze sociali. La pubblicità, pur essendo una dimensione indispensabile dell’economia di mercato capitalista, non avrebbe posto in una società in transizione verso il socialismo, dove sarebbe sostituita da informazioni su beni e servizi forniti dalle associazioni dei consumatori. Il criterio per distinguere un bisogno autentico da uno artificiale è la sua persistenza dopo la soppressione della pubblicità (Coca Cola!). Naturalmente, durante alcuni anni, le vecchie abitudini di consumo persisterebbero, e nessuno ha il diritto di dire alla gente quali siano i suoi bisogni. Il cambiamento dei modelli di consumo è un processo storico, oltre che una sfida educativa.

Alcuni prodotti, come l’auto individuale, sollevano problemi più complessi. Le automobili private sono un fastidio pubblico, uccidendo e mutilando centinaia di migliaia di persone ogni anno su scala mondiale, inquinando l’aria delle grandi città, con conseguenze disastrose per la salute dei bambini e degli anziani, e contribuendo in modo significativo al cambiamento climatico. Tuttavia, essi corrispondono a un bisogno reale, trasportando le persone al lavoro, a casa o nel tempo libero. Le esperienze locali di alcune città europee con amministrazioni ecologiste dimostrano che è possibile, e approvato dalla maggioranza della popolazione, limitare progressivamente il numero di auto in circolazione, a vantaggio di autobus e tram. In un processo di transizione verso l’ecosocialismo, dove il trasporto pubblico, sopra o sottoterra, sarebbe ampiamente esteso e gratuito per gli utenti, e dove i pedoni e i ciclisti avrebbero corsie protette, l’auto privata avrebbe un ruolo molto più piccolo che nella società borghese, dove è diventata una merce feticizzata, promossa da una pubblicità insistente e aggressiva, un simbolo di prestigio, un segno di identità. Negli Stati Uniti, la patente di guida è il documento d’identità riconosciuto – e il centro della vita personale, sociale o erotica. Sarà molto più facile, nella transizione verso una nuova società, ridurre drasticamente il trasporto delle merci con i camion – responsabili di gravi incidenti, e di alti livelli di inquinamento – sostituendolo con l’uso del treno, o con quello che i francesi chiamano “ferroutage” (camion trasportati in treno da una città all’altra): solo l’assurda logica della “competitività” capitalista spiega la pericolosa crescita del sistema di trasporto basato sui camion.

Sì, risponderanno i pessimisti, ma gli individui sono mossi da infinite aspirazioni e desideri, che devono essere limitati, controllati, contenuti e, se necessario, repressi, e questo può richiedere alcune limitazioni alla democrazia. Ora, l’ecosocialismo si basa su una scommessa, che era già in Marx: la predominanza, in una società senza classi e liberata dall’alienazione capitalistica, dell’”essere” rispetto all’”avere“, cioè del tempo libero per la realizzazione personale di attività culturali, sportive, ludiche, scientifiche, erotiche, artistiche e politiche, piuttosto che il desiderio di un infinito possesso di prodotti. La pretesa compulsiva a possedere è indotta dal feticismo merceologico insito nel sistema capitalistico, dall’ideologia dominante e dalla pubblicità: nulla prova che faccia parte di una “eterna natura umana”, come vuole farci credere il discorso reazionario.

Come ha sottolineato Ernest Mandel: “Il continuo accumulo di un numero sempre maggiore di beni (con una “utilità marginale” in declino) non è affatto una caratteristica universale e addirittura predominante del comportamento umano. Lo sviluppo dei talenti e delle inclinazioni fine a se stessi; la protezione della salute e della vita; la cura dei bambini; lo sviluppo di ricche relazioni sociali … tutte queste diventano motivazioni importanti una volta soddisfatti i bisogni materiali di base”.

Questo non significa che non sorgeranno conflitti, in particolare durante il processo di transizione, tra le esigenze di protezione dell’ambiente e i bisogni sociali, tra gli imperativi ecologici e la necessità di sviluppare infrastrutture di base, in particolare nei Paesi poveri, tra le abitudini popolari di consumo e la scarsità di risorse. Tali contraddizioni sono inevitabili: sarà compito della pianificazione democratica, in una prospettiva ecosocialista, liberata dagli imperativi del capitale e del profitto, risolverle, con una discussione pluralista e aperta, che porti ad un processo decisionale da parte della società stessa. Una tale democrazia di base e partecipativa è l’unico modo, non per evitare errori, ma per permettere l’autocorrezione, dei propri errori, da parte della società nel suo insieme.

Quali potrebbero essere i rapporti tra gli ecosocialisti e il movimento della decrescita? Nonostante i disaccordi, può esserci un’alleanza attiva intorno ad obiettivi comuni? In un libro pubblicato qualche anno fa, “La décroissance est -elle souhaitable?” (“La decrescita è auspicabile?”), l’ecologista francese Stéphane Lavignotte propone un’alleanza di questo tipo. Egli riconosce che ci sono molte questioni controverse tra i due punti di vista. Bisogna sottolineare le relazioni di classe sociale e la lotta contro le disuguaglianze o la denuncia della crescita illimitata delle forze produttive? Cosa è più importante, le iniziative individuali, le esperienze locali, la semplicità volontaria o il cambiamento dell’apparato produttivo e della “mega-macchina” capitalista?

Lavignotte si rifiuta di scegliere e propone di associare queste due pratiche complementari. La sfida, sostiene, è quella di coniugare la lotta per l’interesse ecologico di classe della maggioranza, cioè dei non proprietari del capitale, e la politica delle minoranze attive per una radicale trasformazione culturale. In altre parole, raggiungere, senza nascondere gli inevitabili disaccordi, una “composizione politica”di tutti coloro che hanno compreso che la sopravvivenza della vita sul pianeta e dell’umanità in particolare sono in contraddizione con il capitalismo e il produttivismo, e quindi cercano la via d’uscita da questo sistema distruttivo e disumano.

Come ecosocialista, e come membro della Quarta Internazionale, condivido questo punto di vista. L’incontro di tutte le tendenze dell’ecologia anticapitalista è un passo importante verso l’urgente e necessario compito di fermare il corso suicida della civiltà attuale – prima che sia troppo tardi…  

* Michael Löwy è un professore marxista franco-brasiliano, autore e attivista. È direttore di ricerca emerito in scienze sociali presso il CNRS (Centro nazionale francese di ricerca scientifica) e tiene conferenze all’École des Hautes Ètudes En Sciences Sociales (EHESS; Parigi, Francia).