Le osservazioni contenute nell’articolo qui sopra non possono non richiamare il recente accordo concluso (dopo anni di trattative) tra Svizzera e Italia in merito alla doppia imposizione dei frontalieri. La soluzione trovata (semplifichiamo) è quella di dividere i frontalieri in due categorie: coloro che continueranno con l’attuale sistema alla fonte basata sulle aliquote fiscali svizzere e i coloro che cominceranno una nuova “carriera” di frontaliere (dal 2023 pare) che invece subiranno la doppia imposizione.
Molti hanno fatto osservare come l’accordo in realtà non porti alcun beneficio dal punto di vista fiscale al Ticino. Anzi, come ha mostrato bene qualcuno, a breve-medio termine il gettito fiscale del Cantone legato ai frontalieri dovrebbe anche (e in modo importante) contarsi; forse, tra una quindicina d’anni, il Ticino potrebbe sperare di accrescere i propri introiti fiscali. Ma tra un quindici d’anni come sarà il mondo? E come il mercato del lavoro? E come la situazione economica e sociale, oltre che politica non solo della Svizzera, ma di tutta l’Europa? È evidente che le previsioni fiscali a medio-lungo termine non hanno nessun senso.
E, allora, visto che l’accordo non porta alcun beneficio fiscale al Ticino, quale sono le ragioni per celebrarlo, come è stato fatto, come un “successo” e la “risoluzione” di un problema tanto importante?
A nostro avviso la ragione è una sola: accreditare sempre di più e rafforzare l’idea che i responsabili del dumping salariale siano i frontalieri, colpevoli non solo di “rubare” il lavoro e di “accettare” salari bassi, ma di praticare una sorta di “dumping fiscale” essendo fiscalmente favoriti dall’accordo in vigore. È una “spiegazione” semplice che trae d’impaccio autorità politica e padronati; questi ultimi i veri colpevoli del dumping salariale, le autorità politica responsabili di connivenza poiché, da anni, rifiutano sistematicamente di adottare strumenti di lotta al dumping salariale e sociale attraverso il controllo del mercato del lavoro.
Non si tratta certo di un’idea nuova. In particolare, sulla spinta della destra xenofoba (Lega e UDC) ci si è già spinti in questa direzione. Tutti ricordano che, da ormai tre anni, il moltiplicatore d’imposta comunale per i lavoratori frontalieri è stato portato al 100% (e non più, come in precedenza, quello della media cantonale dei diversi moltiplicatori). Un aggravio che ha avuto un carattere punitivo (far pagare più imposte ai frontalieri), ma che non ha assolutamente avuto alcun effetto sulla lotta al dumping. A dimostrazione di questo, il fatto che il numero dei frontalieri non solo non è diminuito, ma è aumentato. Tra l’altro, il nuovo accordo, ragionevolmente, abolisce quella misura e ritorna al vecchio modo di applicazione del moltiplicatore.
Naturalmente l’accordo non piace alla destra xenofoba. Essa avrebbe voluto, proprio per dare concretezza alla propria logica propagandistica, che da subito tutti i frontalieri fossero sottoposti al nuovo accordo (e quindi alla doppia imposizione); essa contesta al governo e ai partiti che approvano l’accordo (praticamente tutti) di non sostenere a sufficienza l’idea di una penalizzazione fiscale quale strumento di lotta al dumping salariale.
La realtà è ben diversa. Anche se la pressione fiscale sui nuovi frontalieri dovesse aumentare in modo considerevole, non verrebbero meno le ragioni che spingono questi lavoratori e lavoratrici a cercare legittimamente lavoro in Ticino. E sono ragioni che sicuramente questo accordo non modificherà, né adesso né in futuro. Vediamole brevemente.
La prima è legata al mercato del lavoro. È evidente che i lavoratori e le lavoratrici frontalieri vengono in Ticino poiché vi è una domanda che non trova risposta sul mercato del lavoro interno: dall’edilizia all’industria (nei sui vari segmenti), dal settore sanitario a quello della ristorazione e dell’albergheria.
La seconda è legata alla politica del padronato. È evidente che essa gioca sull’effetto di sostituzione. È stato evidente, in questi ultimi anni, nel settore terziario dove, sistematicamente, si è puntato sull’effetto di sostituzione con l’obiettivo di abbassare i salari. Finché questa politica padronale non verrà imbrigliata, questo effetto continuerà.
Infine, il differenziale salariale tra il Ticino e le ragioni italiane di frontiera, sebbene ridotto in questi anni, resta comunque cospicuo, tale da giustificare un impegno lavorativo in Ticino, anche di fronte a salari sempre più bassi e a una pressione fiscale in aumento. Naturalmente vi è anche un’interpretazione “audace” di questo accordo, sempre nell’ottica della lotta al dumping. Ed è quella che ipotizza che, visto l’aumento della pressione fiscale, i datori di lavoro in Ticino, per garantire lo stesso guadagno netto ai loro dipendenti, sarebbero spinti ad aumentare i salari, rendendoli “attrattivi” anche per i residenti; si tratterebbe quindi di una logica che tende a combattere il dumping.
Ma si tratta più di una elucubrazione intellettuale che di una possibile dinamica in grado di aver ragione degli elementi, che abbiamo qui sopra richiamato, che sono alla base del dumping salariale e sociale nel nostro Cantone.
Infine, non va certo sottovalutata una dinamica potenzialmente devastante dell’accordo rispetto ai “nuovi frontalieri”. Si può ipotizzare che l’aumento del carico fiscale potrà generare, in linea teorica ma piuttosto concreta, il lavoro in nero. Infatti, i padroni ticinesi potranno allettare i nuovi frontalieri offrendo loro un certo numero di ore in nero o i falsi contratti a tempo parziale (50, 60 o 70%) e poi pagare la differenza, rispetto a un tempo pieno, con ore non dichiarate. In questo modo eviteranno di farsi tassare queste ore ma perderanno anche una quota non secondaria di salario indiretto, sotto forma di contributi sociali (AVS, LPP, ecc.). Quindi non solo questa politica fiscale non servirà a combattere il dumping salariale ma addirittura potrà favorire il lavoro in nero.