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È innegabile che le imposte alla fonte delle persone fisiche, alle quali sottostanno i lavoratori stranieri che, senza essere al beneficio di un permesso di domicilio, sono fiscalmente domiciliati o dimoranti in Svizzera (sostanzialmente permessi G e B), costituiscono una vera miniera d’oro per l’erario ticinese. E il principale filone è rappresentato dai lavoratori frontalieri (permesso G). Questi rappresentano circa il 70-75% dei 39’790 contribuenti non domiciliati che mediamente nel corso del periodo 2009-2018 hanno pagato le imposte alla fonte. In media, i “non domiciliati” hanno sborsato 46,385 milioni di franchi all’anno, di cui 33,471 milioni quale imposta sul reddito e 12,912 milioni sulla sostanza. Naturalmente, ai frontalieri è stato prelevato di più, considerato infatti che le cifre richiamate rappresentano il 62% di quanto imposto, poiché il 38% è ristornato ai comuni italiani della fascia di confine.

I frontalieri possono essere considerati i contribuenti ideali perché pagano le imposte ma consumano poco o niente sotto forma di servizi pubblici e sociali. Tolto l’uso delle strade – ma ricordiamoci che ne fanno ricorso per venire ad assicurare i grossi profitti degli imprenditori ticinesi e non per libero svago -, il frontaliere non può usufruire di quasi nessuna prestazione.

Il Cantone Ticino guadagna, però, di più rispetto a quanto fissato dalle leggi tributarie in materia d’imposte alla fonte sui lavoratori stranieri non domiciliati, in particolare sui frontalieri. Per saperlo, è necessario conoscere come funziona la realtà della tassazione alla fonte. L’ammontare di questa imposta dipende dalla fascia reddituale ma anche e molto dallo stato civile, in special modo dalle persone a carico del lavoratore frontaliere (moglie e figli), oppure dal fatto che lo stesso sia separato o divorziato. Con più persone a carico sotto la stessa economia domestica diminuiscono le imposte alla fonte. Viceversa, il lavoratore frontaliere separato o divorziato è trattato come single, ciò che determina un aumento del carico fiscale. Queste condizioni possono generare un “surplus” fiscale non previsto dalla legge, di entità non trascurabile. Se per esempio un datore di lavoro dimentica di annunciare la nascita di un figlio di un proprio dipendente frontaliere o di annunciarne l’avvenuto matrimonio e che la neo-moglie non lavora, l’aliquota fiscale alla quale è assoggettato non è modificata, con la conseguenza che il lavoratore frontaliere in questione continua a pagare più imposte alla fonte di quanto la sua nuova condizione gli imporrebbe. Il frontaliere divorziato o separato può farsi dedurre gli alimenti che paga mensilmente all’ex-coniuge e ai figli. Molti di loro non sanno di questa possibilità, ragione per la quale si vedono aumentare l’aliquota senza compensare parzialmente questo aggravio attraverso la correzione dovuta appunto al versamento degli alimenti citati. E ciò rappresenta una maggior entrata per le finanze ticinesi.

Ci sono altre vie che vanno ad ingrossare il flusso delle imposte prelevate sui frontalieri, a causa della loro ignoranza in materia di diritti fiscali ma anche per la sufficienza con la quale i datori di lavoro verificano, aggiorno i dati dei loro lavoratori contribuenti. Per esempio, l’Ufficio delle Imposte alla fonte tollera una prassi già giudicata abusiva dai tribunali competenti e praticata in particolare dalle agenzie di lavoro interinale. Molte di queste calcolano l’ammontare mensile dell’imposta alla fonte moltiplicando il salario per 12 volte e su questo salario annuo proiettato fittiziamente applicano l’aliquota che sarà naturalmente più elevata rispetto a un calcolo su semplice base mensile. Se l’agenzia alla fine dell’anno procede a un ricalco sulla base del salario annuo realmente percepito e ristorna al lavoratore l’eccesso d’imposte alla fonte versato, la situazione si riequilibra. Però succede che il lavoratore magari lavori solo 6 o 9 mesi per la stessa agenzia e partendo si dimentica di esigere il conguaglio delle imposte alla fonte pagate in eccesso, anche perché le agenzie procedono al ricalcolo solo alla fine dell’anno. In questa maniera, se il lavoratore non si fa vivo presso l’agenzia rivendicando quanto dovutogli, l’eccesso d’imposta alla fonte finisce nelle casse delle finanze cantonali.

Ora, l’Ufficio cantonale delle Imposte alla fonte prevede la possibilità per il contribuente di rivendicare, se del caso, una retroattività di 5 anni per degli errori nell’applicazione dell’aliquota fiscale. Ciò che ha permesso un parziale recupero degli eccessi fiscali percepiti durante questo lasso di tempo. Ebbene, per consolidare ulteriormente questo cespite d’entrate fiscali, il cantone ha deciso che a partire dal periodo fiscale 2022 non si potrà più richiedere la correzione retroattiva fino a 5 anni, indipendentemente se l’errore sia stato generato dal datore di lavoro nel calcolare correttamente l’imposta alla fonte percepita e detratta dalla busta paga. Se entro il 31 marzo di ogni anno, il lavoratore non avrà inoltrato la richiesta formale della correzione dell’imposta alla fonte pagata in eccesso l’anno precedente, perderà qualsiasi possibilità di recuperare quanto pagato di troppo. E ciò significa altri milioni incamerati dallo Stato sulle spalle dei frontalieri.

Evidentemente non esistono dati statistici in grado di misurare la quota delle imposte percepite “indebitamente”. Sappiamo, tuttavia, da nostre verifiche presso il sindacato Unia di Manno, che nel 2019 lo stesso ha proceduto alla “correzione” di 147 casi d’imposte alla fonte, recuperando per conto dei lavoratori la cifra non marginale di 266’000 di franchi. Facendo dei calcoli assolutamente cauti, con questa prassi al limite della legalità, il cantone incassa una cifra supplementare di almeno 5 milioni di franchi. Cifre che, come detto, in futuro saranno destinate ad aumentare…