La destra Usa ha voluto dire che non si sente sconfitta con la proclamazione di Biden. Gli USA, che nell’immaginario dei politologi sembravano la patria della pacifica alternanza, si scoprono essere un paese ad altissima polarizzazione politica, sociale e etnica. E le sorprese non finiranno.
Al momento in cui scriviamo tutto fa pensare che la drammatica giornata che hanno vissuto ieri gli Stati Uniti si sia conclusa secondo gli auspici generali e che l’ “insurrezione del presidente” sia rientrata.
Gli edifici di Capitol Hill sono tornati sotto il controllo delle forze dell’ordine, senatori e deputati si sono di nuovo riuniti e hanno regolarmente certificato, seppure con qualche ora di ritardo, i risultati delle elezioni presidenziali del 3 novembre scorso. L’avventura seminsurrezionale, nell’immediato semmai, ha raggiunto i risultati opposti a quelli sperati da Trump che l’aveva prima sollecitata e poi cavalcata: sono numerosissimi gli esponenti repubblicani che hanno preso le distanze, chi più esplicitamente chi meno, dal presidente uscente, le contestazioni dei risultati elettorali e dei presunti brogli sono state completamente archiviate e si delinea perfino l’ipotesi che Trump venga messo formalmente in stato d’accusa e che venga sostituito nelle due settimane residue del suo mandato dal vice Mike Pence.
Ora tutti si affrettano a individuare nel miliardario il responsabile di quanto accaduto, definendolo pazzo, psicopatico, perfino criminale, cercando di dimenticare che a costui, da quattro anni a questa parte, è stato affidato un potere straordinario, rimuovendo il consenso unanime che passaggi importanti della sua politica avevano riscosso, ad esempio nella messa in stato d’accusa di governi di altri paesi (Venezuela, Bolivia, Iran, solo per citarne alcuni), nella contrapposizione non solo commerciale alla Cina.
La sorpresa con cui gran parte dell’informazione ha vissuto gli eventi di ieri si basa sull’aver eluso quanto quegli eventi fossero stati annunciati. L’annuncio era nella pervicacia con cui Trump e il suo staff hanno insistito nel continuare a negare l’evidenza dei risultati elettorali e nell’appello ai suoi a mobilitarsi proprio nel giorno della certificazione formale dei risultati nella capitale.
Questa rimozione si basa sulla radicata convinzione, da parte di tutto il mainstream dell’informazione e della politica, degli Stati Uniti come “patria della democrazia”, come incrollabile fortilizio del rispetto delle regole. Stati Uniti che, invece, lo sappiamo bene, sono un paese nel quale la guerra civile che lo sconvolse militarmente tra il 1861 e il 1865 non si è mai effettivamente conclusa e che continua a riproporsi non più tra un Sud schiavistico e un Nord industriale, ma tra un grande mondo urbano culturalmente e freneticamente moderno e un immenso retroterra rurale ancora immerso in un illusorio far west ottocentesco.
Una contrapposizione che le varie frazioni della classe dominante continuano a cavalcare attraverso un sistema politico che ha ben poco di democratico, basato su di un bipartitismo tetragono, su meccanismi di selezione che consentono di far politica solo a chi detiene fortune economiche colossali, su di un maccartismo endemico che criminalizza a scatola chiusa ogni pulsione classista di sinistra.
Un sistema politico peraltro nel quale molto spesso il ruolo di messa in luce delle malefatte delle politica e delle sue intime interconnessioni con il mondo degli affari e della criminalità è stato lasciato al cinema di denuncia e/o a coraggiosi scrittori. Un sistema politico nel quale grandi sono stati e continuano ad essere i poteri del complesso militar-industriale, nel costruire le infami montature su cui sono state imbastite le peggiori avventure militari della seconda metà del Novecento (le bugie sull’ “incidente del Golfo del Tonchino” per quel che riguarda la guerra del Vietnam e la messinscena delle “armi di distruzione di massa” per quel che riguarda la guerra dell’Iraq). Un sistema che è stato capace per decenni di violentare, spesso in modo esplicito, la voglia di autodeterminazione dei popoli latinoamericani, incoraggiando, sostenendo e proteggendo golpe sanguinari in quasi tutti i paesi del subcontinente. Un sistema politico che non è nuovo all’uso della violenza (basti ricordare i numerosi assassini politici degli anni 60: i due Kennedy, Luther King, Malcom X, solo per citare i più noti…).
Un sistema politico che è stato capace di far eleggere nel 2016 alla poltrona più potente del pianeta, pur con una minoranza di voti, uno psicopatico ultrasciovinista e razzista.
Sorprendersi dunque di quanto è avvenuto ieri manifesta solo ignoranza, superficialità o ipocrisia.
Osservare come quel sistema politico, di fronte ad una seminsurrezione annunciata e armata, sia stato capace di schierare solo una fila di vigili urbani e transenne da processione di paese, mentre di fronte alle manifestazioni dei Black Lives Matter era stata messa in campo la guardia nazionale con i suoi blindati, dovrebbe indurre a riconsiderare la presunta “neutralità” politica delle istituzioni.
Ora tutti sembrano addolorati dalla caduta di credibilità e di autorevolezza che la sollevazione di ieri avrà come ricaduta sull’America, su di un paese che era stato autorizzato dal mondo intero e, sostanzialmente, anche dall’ONU ad “esportare la democrazia” in giro per il pianeta. Ma la crisi degli USA non nasce ieri con l’invasione di Capitol Hill. Essa viene da lontano, affonda le sue radici nella umiliazione della sconfitta del Vietnam, nella fine degli accordi di Bretton Woods, nella fine della “guerra fredda” e della “politica dei blocchi”, nella emersione di nuove e insidiose potenze economiche.
E’ proprio in forza di questa crisi (e promettendo il sogno di poter “fare di nuovo grande l’America”) che Trump è riuscito già quattro anni fa a diventare presidente e a raccogliere anche nelle elezioni di due mesi fa 74 milioni di voti.
In questi quattro anni di gestione del potere è riuscito a dare un’identità politica all’America profonda, a quella revisionista, negazionista e razzista, a quella che 155 anni dopo continua a sfilare con le bandiere confederate.
E il colpo di coda che questa America ha voluto dare ieri non prelude affatto alla sua sparizione. Forse Donald Trump sarà chiamato a rispondere delle sue responsabilità, ma la destra americana ha voluto dire che non si sente affatto sconfitta con la proclamazione dell’elezione di Biden, che ha la forza e la determinazione per far sentire la sua presenza anche nell’immediato futuro, per mettere in guardia la nuova amministrazione da ogni tentazione progressista sul piano sociale e su quello culturale. Gli USA, che nell’immaginario collettivo dei politologi sembravano la patria della stabilità e della pacifica alternanza, sono diventati oggi un paese ad altissima polarizzazione politica, sociale e etnica. E le sorprese non finiranno qui