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Pubblichiamo questa interessante intervista con Danièle Linhart, sociologa del lavoro. L’intervista fa riferimento in modo particolare alla Francia, ma le sue considerazioni sul lavoro, sulle condizioni di lavoro e sul tema del telelavoro, sono certamente valide anche alle nostre latitudini. Il testo è la trascrizione di un intervento fatto nel corso una diretta organizzata dal settimanale dell’NPA francese (Nouveau Parti Anticapitaliste) lo scorso 14 aprile.

Come contribuisce la crisi attuale agli sconvolgimenti, già in corso, nell’organizzazione del lavoro, con, tra l’altro, lo sviluppo massiccio del telelavoro?

Quello che è successo recentemente è che abbiamo assistito a una generalizzazione del telelavoro, che non è una cosa da poco. Durante il primo lokdown, molte persone, fino al 40%, si sono trovate confinate nelle loro case, costrette al telelavoro, cioè faccia a faccia con un computer, lontano dalla loro azienda, dai loro colleghi, dai loro dirigenti. E ciò che ha colpito molto la gente è stato il fatto che, in quel periodo, c’era una specie di grande incanto, una grande soddisfazione per questo; la gente pensava che fosse bello stare a casa, i media descrivevano questa situazione e i datori di lavoro erano molto interessati a questa nuova forma di lavoro. Si sono detti che sì, ci sono dei vantaggi, e hanno notato che, anche a casa, i dipendenti rispettano gli obiettivi assegnati, mantengono gli orari, addirittura li superano, ecc. Quindi c’era, in un certo senso, una valorizzazione di questo tipo di attività. E penso che sia interessante chiedersi il perché.

Riflettendo in modo forse un po’ caricaturale, ci rendiamo conto che vi erano due ragioni ovvie che spiegano questa soddisfazione nei confronti del telelavoro; la prima, evidente, è che le lavoratrici e i lavoratori a casa si sentivano al sicuro rispetto al virus che li aspettava a ogni angolo di strada e sui trasporti pubblici; c’era un secondo aspetto, molto importante: il bisogno di fuggire dall’impresa, dal luogo di lavoro, di mettere una certa distanza, in senso fisico ma anche in senso figurato, da un lavoro tutt’altro che soddisfacente, e dalle relazioni sociali all’interno dell’azienda, anch’esse tutt’altro che soddisfacenti.

Tendiamo a dimenticarlo, ma poco prima della pandemia, si parlava molto di sofferenza sui luoghi di lavoro, di burn-out, di rischi psicosociali, di suicidi… C’è stato il processo piuttosto spettacolare di France Telecom, con l’accusa di molestie istituzionali. E così le salariate e i salariati hanno potuto pensare che, lontano dal luogo di lavoro, non fosse poi così male, a casa, nel loro elemento, ecc.

Ma tutto ciò non è durato…

No, in realtà quello che è emerso è che essere soli a casa ha esacerbato le dimensioni più deleterie del lavoro. Certo, il lavoro che appariva, sul posto di lavoro, largamente ispirato ai principi del taylorismo, prescrittivo, con procedure, protocolli, processi, metodologie, rapporti… e quindi con una sorveglianza permanente, non era qualcosa di cui essere molto felici. Ma il telelavoro, ognuno solo a casa propria, è apparso, con il tempo, sempre più formale, astratto, ha cominciato a prevalere un sentimento di impotenza sul proprio lavoro, un sentimento di subordinazione, che è alla base del rapporto salariale, ma in modo personalizzato, senza alcuna prospettiva di poter uscire, ognuno per conto suo nel proprio angolo, da questa stretta, da questa dominazione manageriale che ti controlla nel modo di lavorare ma anche attraverso il reporting, ecc.

E poi, per quanto riguarda le relazioni sociali, che già non erano molto piacevoli, costruire sull’individualismo, la personalizzazione e con i dipendenti in competizione tra loro, ci siamo resi conto che stare da soli davanti al computer per mesi e mesi era ancora peggio, poiché lavorare significa comunque cooperare con gli altri, per soddisfare un bisogno degli altri.

Il lavoro è qualcosa di eminentemente sociale; abbiamo così assistito a una perdita del suo significato, della sua finalità, più complessivamente a un’esacerbazione, attraverso il telelavoro, di tutte le dimensioni deleterie del lavoro che le telelavoratrici e i telelavoratori avevano cercato di evitare.

Il pericolo che corriamo, con quella che è diventata, dopo il secondo lokdown, una richiesta di ritorno al lavoro in azienda, dove almeno ci sono persone reali, vita reale, dove vediamo i nostri colleghi e le nostre colleghe, dirigenti, fornitori di servizi, clienti, etc., è di assistere a un “reincanto” e di non avere più la forza di rimettere in discussione il lavoro. Perché è il lavoro ad essere dannoso, e negli ultimi 20-30 anni i datori di lavoro hanno fatto di tutto perché il lavoro non diventi un tema centrale, né sociale né politico, riducendolo a questione oggetto di accordi all’interno delle aziende.

Quello che vediamo è anche l’impatto specifico e particolarmente forte della crisi su quelle lavoratrici e quei lavoratori che non godono di uno statuto ben definito, quelli che a volte vengono definiti lavoratrici e lavoratori “uberizzati”…

Da un po’ di tempo siamo consapevoli della tendenza padronale a dire: “Sì, non tutti sono tagliati per un lavoro come dipendenti, il lavoro dipendente può essere molto duro, quindi c’è la possibilità di essere un libero professionista, un lavoratore autonomo, ecc. “. E possiamo vedere con la crisi come lo sviluppo di queste situazioni generalizza un contesto sociale fatto di fragilità, impoverimento, assolutamente terribile.

Tutto ciò genera poi un altro possibile pericolo: quello di dire, in opposizione a queste situazioni, che il lavoro salariato dipendente sia una condizione meravigliosa, che offre protezione, grazie a un codice del lavoro protettivo, con garanzie, ecc. Siamo in una fase in cui c’è una battaglia ideologica da combattere: mostrare che il lavoro salariato dipendente  è certamente una buona cosa, in quanto modalità collettiva di messa al lavoro che permette le lotte sociali, che permette l’azione collettiva e che quindi ci permette di strappare garanzie, diritti e protezioni…; ma allo stesso tempo contestare, criticare il lavoro salariato, che è un lavoro subordinato, taylorizzato, dove si gioca sulla messa in competizione uno contro l’altro, promuovendo una sorta di aspirazione narcisistica ad essere il migliore, il più riconosciuto, a scapito di tutti gli altri.

Dobbiamo essere estremamente attenti perché siamo in un periodo in cui le carte vengono rimescolate, e dobbiamo cercare di indicare ciò che è importante, ciò che vogliamo mantenere e ciò che dobbiamo mettere in discussione. La condizione di salariato è interessante, è importante, e non dobbiamo rinunciarvi, perché, come ho detto, permette lotte collettive, in opposizione all’atomizzazione. Ma l’organizzazione del lavoro e la gestione così come viene praticata costituiscono un dominio assolutamente deleterio, sia per la salute mentale e fisica dei dipendenti che per la soddisfazione dei bisogni reali degli utenti e dei consumatori, oltre ad essere un sistema assolutamente predatorio per le risorse del pianeta. Dobbiamo riuscire a porre la questione di fondo, cioè a chi appartenga il lavoro, se alla società o al capitale.

*Danièle Linhart è sociologa del lavoro. Ha pubblicato numerosi saggi e interventi sul tema. Segnaliamo, appena pubblicato in italiano, “La commedia umana del lavoro. Dal taylorismo al management neoliberale”, Mimesis, 2021. La traduzione di questa intervista è stata curata dal segretariato MPS.

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