Son finiti i tempi dei segretari a vita (Togliatti, Berlinguer), d’altronde anche i Papi si dimettono prima della scadenza del mandato, ma nel Pd, nato nel 2007, si esagera: otto segretari da allora a oggi (Renzi eletto due volte), di cui tre reggenti. Una durata media d’incarico di poco più di un anno e mezzo. Con Enrico Letta siamo al nono rilancio nella figura del nuovo segretario di un partito difficile da collocare: non di destra, non di sinistra, non di centro, di certo neoliberista e soprattutto di governo comunque e sempre, sia che perda le elezioni (caso frequente), sia che le vinca (caso meno frequente).
Enrico Letta, giunto al “potere”, dopo lunga assenza, per chiamata diretta dai vertici del Pd e acclamato all’unanimità dall’Assemblea nazionale, non ha una sua corrente consolidata, deve quindi navigare a vista tra quelle esistenti: ben sette secondo le cronache giornalistiche. Per far vedere che qualcosa cambia nella struttura di governo del partito e dei suoi gruppi parlamentari, ha voluto riequilibrare le nomine sostenendo l’opzione donna, sostitutiva dell’eguale ruolo di potere maschile. Anche le donne del Pd appartengono alle sette correnti, quindi non le scardina, semplicemente ne impone la femminilizzazione, e si ripropone lo scontro interno, come il caso della nomina della capogruppo alla Camera racconta.
Il nono segretario cerca di tutelarsi da un ingranaggio di partito che conosce bene avendolo sperimentato a proprie spese. A seguito del deludente risultato elettorale del 2013, si ebbero le dimissioni del segretario Bersani e si ripiegò sulla costituzione di un governo presieduto da Letta appoggiato anche da Berlusconi. Poco dopo, le primarie del Pd convocate l’8 dicembre del 2013 incoronarono alla segreteria Renzi. Contemporaneamente una pletora di nuovi delegati al congresso designava una maggioranza tutta renziana ai vertici del partito. Conquistato il partito, l’allora amato leader rottamatore volse lo sguardo a Letta per prendergli il posto, dopo averlo rassicurato: “stai sereno”. Lo fece sfiduciandolo non con un voto in Parlamento, ma con un voto a larghissima maggioranza della Direzione Nazionale del Pd, composta per altro da diversi esponenti che oggi lo hanno chiamato all’incarico di segretario. Il precedente segretario, Zingaretti, dimessosi per ragioni non ben esplicitate, lascia in eredità un partito ridimensionato, ma di governo, che alle elezioni politiche del 2018 aveva riportato circa il 19% dei voti e ora valutato al 17% nei sondaggi. Dei 111 eletti alla Camera ne sono rimasti 93, dei 52 Senatori 35.
Letta ribalta (se la rilancia si vedrà) l’azione politica del partito così come era stata impostata dalla segreteria precedente. Abbandona la vocazione maggioritaria proposta da Walter Veltroni nel 2007, ripropone l’alleanza elettorale centrosinistrosa coi Calenda, Verdi, Sinistra italiana, Leu, Bonino, Casini, Italia Viva, delusi da Berlusconi, così da poter trattare con più forza coi Cinquestelle. In questo modo pensa di riproporre il vecchio e soffocante meccanismo bipolare maggioritario, dei “buoni” contro i “cattivi”, del voto per il meno peggio che va, passo a passo, verso il peggio. Per amor di cronaca è il caso di ricordare che fino a poche settimane fa il Pd era a favore dell’introduzione di un sistema elettorale proporzionale, antidoto all’effetto pericoloso derivante dalla riduzione drastica del numero dei parlamentari, voluta dai grillini e, dopo vari tentennamenti, votata dal Pd. L’intero partito all’unanimità, come si conviene, aveva condiviso quella proposta. Una preoccupazione e una proposta, ora abbandonata all’unanimità, condivisa dal non ancora in carica nuovo Presidente del consiglio Draghi, che aveva inserito l’introduzione del proporzionale tra i punti qualificanti del nuovo governo che stava per varare.