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Dal 2007 i due milioni di abitanti palestinesi della Striscia di Gaza subiscono un assedio terrestre e marittimo israeliano-egiziano. Quando si vuol fare pressione sulla popolazione e sulla sua direzione politica, vengono tagliati gli aiuti cosiddetti umanitari, il mare viene vietato ai pescatori sui quali la marina non esita a sparare se oltrepassano lo spazio marittimo che Israele concede loro. Gaza è il posto al mondo dove la densità di popolazione è più grande e dove la povertà imperante, secondo gli organismi dell’ONU, sfiora la catastrofe umanitaria. L’assedio di Gaza è senza alcun dubbio un crimine contro l’umanità, di cui le autorità israeliane dovranno un giorno rendere conto di fronte alla giustizia internazionale.

Ma Gaza è anche un simbolo di resistenza. Malgrado l’assedio, i bombardamenti, le incursioni militari e l’assenza di risorse (in particolare l’acqua potabile), i gazawi non abbassano né le testa né alzano le mani. La resistenza è prima di tutto il mantenimento di una “normalità” in questa situazione che nulla ha di normale: Gaza non è la giungla che sogna Israele e, a parte qualche crisi rapidamente controllata, la popolazione e i partiti politici hanno fatto la scelta della coesistenza interna. La resistenza è anche armata, quando lo Stato di Israele decide di violare le tregue spesso negoziate con la mediazione egiziana: i razzi sulle località vicine e a volte il tentativo di piccoli commando di penetrare in territorio israeliano.

Da tre settimane la resistenza è passata ad un altro livello e le forze armate di Hamas hanno lanciato dei razzi più efficienti di prima sulla periferia di Tel Aviv, provocando qualche vittima civile, dei danni materiali, ma soprattutto vero e proprio panico in tutto il Paese. La risposta militare israeliana è stata brutale: oltre a un centinaio di militanti di Hamas colpiti, di civili uccisi o feriti – queste vittime definite collaterali! – si contano a centinaia.

Cosa spiega la decisione di Hamas di rispondere, dopo molti anni di moderazione? La risposta è nel concetto stesso di risposta: il mese scorso il governo israeliano ha deciso – contro il parere dei circoli della sicurezza – di scontrarsi con la popolazione palestinese di Gerusalemme, in pieno mese di Ramadan, cosa che generalmente le autorità politiche e militari si erano guardate dal fare nel passato. Peggio: le forze di polizia sono entrate in forze nella moschea di Al Aqsa, simbolo politico e religioso non solo per i palestinesi di ogni confessione, ma anche per oltre un miliardo di musulmani in tutto il mondo. Hamas doveva rispondere, tanto più che il presidente Mahmud Abbas e i suoi sostenitori tacevano e, con il sostegno di Israele, aveva da poco rinviato le elezioni previste per il mese prossimo. Queste elezioni avrebbero sancito la vittoria di Hamas su al Fatah di Mahmud Abbas, tutto questo prima dell’inizio dei lanci di razzi sulla periferia di Tel Aviv.

Provocazione deliberata o stupida arroganza da parte delle autorità israeliane? I pareri restano discordi. Io tendenzialmente condivido il parere dei commentatori che pensano che Benjamin Netanyahu, dopo quattro elezioni in due anni, non riesce comunque a formare un governo e ha scelto la guerra per tentare di riunire intorno a sé una maggioranza parlamentare per fare dei cambiamenti costituzionali importanti (elezione diretta del primo ministro). Questa riforma tra l’altro gli permetterebbe di sfuggire alle conseguenze penali del processo in corso per diversi affari di corruzione.

L’aggressione contro Gaza si salda al fallimento patente di Netanyahu. Malgrado l’uso massiccio della potenza di fuoco israeliana, le distruzioni, la “neutralizzazione” di numerosi militanti di Hamas, il bilancio per il potere israeliano è catastrofico. Non solo, Hamas ha dimostrato di poter colpire il cuore di Israele e paralizzare tutto il Paese, ma gli effetti della guerra hanno destabilizzato gravemente la fragile società israeliana. Netanyahu e il suo ministro della sicurezza interna, il sinistro Amir Ohana hanno seminato vento: dei gruppi fascisti hanno organizzato, nelle città miste arabo-ebraiche come Ramle, Lydda e anche ad Haifa, vere e proprie spedizioni punitive, apertamente sostenute dalla polizia di Ohana. Ma non siamo più nel 2000 e la popolazione palestinese ha risposto attaccando obiettivi ebraici, comprese, in due casi, delle sinagoghe.

La “coesistenza” arabo-ebraica nelle città miste è estremamente fragile, tanto più che la polizia da molto tempo ha favorito la crescita di bande armate, ebraiche, arabe e miste, che fanno regnare il terrore per riempirsi le tasche. Le armi proliferano e i crimini mafiosi sono una realtà permanente contro cui i dirigenti arabi allertano le autorità israeliane da molto tempo, senza alcun effetto.

La provocazione di Gerusalemme e la resistenza di Gaza, oltre alle spedizioni punitive dei gruppi fascisti ebrei, sono serviti da catalizzatori delle violenze intercomunitarie nelle città miste. Di fronte all’olio gettato da Netanyahu e i suoi, la voce del presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, che ha messo in guardia sul rischio dell’implosione della società israeliana, è rimasta inascoltata. Se la polizia ha potuto, dopo qualche giorno, ristabilire l’ordine, tutti sono consapevoli che sotto la cenere cova la brace e che nuovi scontri sono inevitabili. In questo modo le provocazioni a Gerusalemme hanno partorito i razzi di Gaza e questi hanno provocato la destabilizzazione del fronte interno israeliano. Il primo ministro israeliano non avrà la “fotografia della vittoria” che tanto desiderava. Ha seminato vento a Gerusalemme e ha raccolto oggi una tempesta generalizzata. La sopravvivenza del suo potere semi *autoritario è solo il risultato dell’assenza flagrante di un’alternanza, di cui il riallineamento miserabile di Benny Gantz al suo governo non è che l’ultimo episodio.

*Michel Warschawski, tra i primi disertori dell’esercito israeliano, ha fondato l’Aic, agenzia di informazione, ricerca e analisi su Palestina e Israele. Tra i suoi libri tradotti in Italia: La sfida binazionale, Sapere 2000, Roma, 2002, A precipizio, Bollati Boringheri, Torino, 2004. La sua autobiografia Sulla frontiera, Città Aperta Edizioni, Enna-Catania, 2003, è un vero bestseller in Europa, Stati Uniti e Canada. Più volte candidato al Knesset. Di lui la The London Review of Books ha scritto: «Warschawski non è l’unico a correre sulla frontiera, nella sinistra israeliana, ma i suoi compagni di viaggio sono pochi». La traduzione in italiano è stata curata da Cinzia Nachira.