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Fa male vedere la rivolta sociale a Cuba ma non ci coglie di sorpresa. Le scienze sociali non saranno scienze esatte ma non sono cieche. Se coloro che dirigono chiudono gli occhi alla realtà, le donne e gli uomini di scienza non dobbiamo farlo. E’ in gioco la nostra credibilità e, ben più importante, la vita di molte persone e il futuro della Patria.

I segnali

In una intervista a OnCuba, poco più di un anno fa, Alex Fleites mi chiedeva se credevo che nell’isola si stesse incubando un nuovo momento storico e quali avrebbero potuto essere i suoi segnali più visibili. Questa era stata la mia risposta:

“Sì, credo di sì. Una crisi non è tale fino a quando gli attori sociali non se ne rendono conto, e qui è determinante il fattore soggettivo. E’ una specie di malessere epocale, per dirlo in un modo che alcuni critici potrebbero tacciare di metaforico. Quasi sempre è in relazione con l’esaurimento di un modello. E dico un modello, non un sistema (…)

Per arrivare a questo momento di malessere esistono oggi, secondo me, due condizioni. Da un lato l’incapacità dei nostri governanti di dirigere un percorso efficace delle riforme. Son passati più di trent’anni dal crollo del campo socialista e ci sono stati due tentativi di riforma, uno negli anni novanta e un altro a partire dal 2010, quest’ultimo addirittura avviato in modo formale e con una grande quantità di documentazione confermativa. Dall’atro lato, esiste la capacità cittadina di sottoporre a giudizio pubblico questa incapacità, e ciò è qualcosa di nuovo. La rottura del canale di informazione unidirezionale permette di rendere visibili i segnali di allarme. E i dirigenti lo sanno bene ma sono stati incapaci di rispondere adeguatamente.

La mia opinione è che stiamo assistendo all’esaurimento definitivo di un modello economico e politico, quello del socialismo burocratico. I suoi dirigenti non riescono a far progredire la nazione con i vecchi metodi, ma non sono capaci di accettare forme più partecipative, con un peso più grande dei cittadini nella presa delle decisioni”.

Un anno dopo, ho pubblicato su LJC l’articolo Cuba, los árboles y el bosque (Cuba, gli alberi e il bosco), dove affermavo:

“A Cuba sono mature da tempo le condizioni oggettive per una trasformazione. Non c’è dubbio che la nazione ha smesso di progredire: l’economia non cresce da anni, il debito esterno aumenta costantemente, così come i livelli di povertà e, ciononostante, le riforme sono state rallentate in modo inesplicabile. E’ evidente che quelli in alto non possono continuare ad amministrare e governare come prima. Ma cosa succede a quelli in basso?

Senza la maturazione del fattore soggettivo questa trasformazione non era possibile. Ci voleva la volontà di voler cambiare delle persone, un’energia civica che era stata schiacciata da condizionamenti politici, educativi e mediatici. La “impotenza acquisita” esiste anche in un modello socialista, in cui il sistema controlla in certa misura il modo di comportarsi dei suoi cittadini.

Mancando il fattore soggettivo, le condizioni oggettive, di per sé, non determinano nulla. Tuttavia, attualmente esistono segnali chiarissimi della sua esistenza. Questi segnali non sono stati capiti dall’apparato ideologico, che si sbaglia al ridurre le manifestazioni di scontento a “un golpe soft”, a “una manipolazione generalizzata” o a “la creazione di matrici di opinione negativa rispetta al governo”, anche se non nego chiaramente che tutto ciò possa accadere. La direzione del paese non riesce ad orientarsi su:

Il nuovo contesto che ha creato l’accesso massiccio a internet e alle reti sociali, che li ha privati del monopolio assoluto dell’informazione che hanno avuto per decenni, ha democratizzato la loro diffusione e generato la possibilità di campagne e denunce di fronte alle arbitrarietà.

Uno stato di permanente polemica, visibile in rete e favorito dalla stessa direzione del paese dopo la consultazione popolare per la redazione della nuova Costituzione: forse hanno pensato che al concludersi la consultazione e non richiedendo più il nostro punto di vista, avremmo smesso di offrirlo. Un’ingenuità da parte loro; adesso sappiamo come farlo e non abbiamo bisogno delle loro convocazioni.

La dichiarazione di Cuba come Stato Socialista di Diritto, che ha reso più visibili le prerogative delle cubane e dei cubani e li ha spinti a richiedere libertà che la stessa Costituzione garantisce.

L’esistenza di giovani generazioni, critiche per se, che hanno trovato una sponda in generazioni più vecchie, ormai stanche di promesse non mantenute e di riforme rallentate o interrotte.

Questa coesistenza di condizioni oggettive e soggettive per una trasformazione sociale è totalmente nuova nello sviluppo del modello socialista cubano. Il problema in ballo adesso non è se bisogna cambiare ma come farlo (…)

Arrivati al punto in cui si trova Cuba oggi, i percorsi per un cambiamento sociale possono essere due: pacifico o violento. Il primo di questi, che sottoscrivo totalmente, significherebbe approfittare gli spazi legali -molti sarebbero prima da creare-, per esercitare pressioni per i cambiamenti economici, politici e giuridici all’interno di un dialogo nazionale in cui non dovrebbe esserci una discriminazione a causa delle idee politiche (…)

Segnalo che viviamo un momento di estrema gravità in questo paese. Si sta riunendo un potenziale conflittuale in uno scenario che si sta analizzando in modo pessimo, non solo da parte del governo ma anche, per disgrazia, da parte di intellettuali e studiosi sociali ai quali la formazione teorica e l’abilità per interpretare gli eventi sociali dovrebbero separarli da una dichiarazione meramente ideologica (…)

Sono le nostre ragazze e i nostri ragazzi, dialoghiamo con loro e con la società civile cubana che vuole percorsi di cambiamento e di pace. Se, da parte del governo, si sceglie lo scontro violento come risposta, può succedere, su una scala più grande, ciò che abbiamo già visto nel Vedado: un gruppo pacifico di giovani attaccati coi lacrimogeni, oppure ciò che è avvenuto nel Parco della Libertà di Matanzas nella serata di sabato: un gruppetto di persone è stato preso a botte da membri della Sicurezza di Stato. Non importa che proibiscano l’accesso a internet per qualche ora. Si viene a sapere tutto e tutto viene giudicato.

La mia coscienza non mi permette tacere.

Il risultato

Gli intellettuali che abbiamo avvisato per mesi il governo della possibilità di una rivolta sociale di grandi dimensioni siamo stati definiti mercenari. L’apparato di partito e governativo ha negligentemente ignorato i segnali di allarme. Questo è il risultato del suo atteggiamento.

Domenica 11 luglio, migliaia di persone sono scese in piazza in molte città e paesi dell’isola. Insieme a coloro che richiedevano cambiamenti, condizioni di vita migliori e libertà politiche -come è comune a qualsiasi conflitto di queste dimensioni- si sono sommati anche quelli che pretendevano solamente delinquere e vandalizzare, ma è stata l’eccezione e non la regola.

Il presidente e primo segretario Miguel Díaz-Canel ha reagito a questi fatti, inediti nella storia recente di Cuba, con la seguente convocazione: “L’ordine di battaglia è stato dato. In piazza tutti i rivoluzionari”.

Nella sua prima apparizione televisiva ha riconosciuto che fra i manifestanti vi erano persone rivoluzionarie ma confuse. Nella seconda apparizione, il giorno 12, ha asserito che tutti erano controrivoluzionari e mercenari e che gli avvenimenti erano il risultato di un piano ordito all’estero. Questa è la narrazione che si è diffusa da quel momento. Per lui, le migliaia di manifestanti non formano parte del popolo. Grave errore.

Le forze dell’ordine -del Ministero degli Interni, le FAR, le Truppe Speciali, i Cadetti delle Accademie militari e addirittura la riserva-, hanno represso con violenza. Anche qualche gruppo di manifestanti ha fatto uso della violenza.

Si sa di almeno una persona morta e di altre ferite, picchiate ed arrestate. Una parte di queste è stata liberata il giorno dopo. Cosa che non è successa in altri casi, come quello di Leonardo Romero, un giovane studente di Fisica dell’Università della Havana che è stato arrestato due mesi fa per innalzare un cartello che diceva “Socialismo sì, repressione no”. Passava vicino al Campidoglio con un suo alunno del pre-universitario. Il ragazzo aveva cercato di filmare l’enorme manifestazione che si era assemblata lì. Lo hanno aggredito brutalmente. Era minorenne e Leonardo lo ha difeso. Sono stati entrambi arrestati.

E’ impossibile sapere con esattezza quanto è successo perché dalle tre del pomeriggio di quel giorno è stato soppresso il servizio di internet a Cuba. Siamo un popolo al buio, senza diritto all’informazione e senza possibilità di esprimerci. I giornalisti ufficiali dimostrano con il loro atteggiamento di essere solo meri propagandisti del governo. Cada su di loro tutta la vergogna del loro gruppo professionale.

Dichiarazioni giustificative e a volte incoerenti hanno segnato la nota dominante del governo. L’Ufficio Politico si è riunito oggi con la presenza di Raúl Castro ma non è trapelato nulla di ciò che si è discusso. A quanto sembra, non esiste nessun piano d’azione per risolvere una situazione interna come questa rivolta, che viene presentata all’opinione pubblica come una grande cospirazione internazionale che è emersa a partire dall’etichetta SOS Cuba.

Si sono limitati a richiedere l’eliminazione del blocco nordamericano. Neppure una ammissione autocritica sulle riforme rinviate o sulle trasgressioni costituzionali. Neppure un invito al dialogo. Credono, o vogliono far credere, che gli scomodi black-out delle ultime settimane sono i responsabili dell’insofferenza dei cittadini, senza riconoscere l’immenso debito sociale accumulato da decenni.

Bruno Rodríguez Parrilla, ministro degli Esteri, ha detto in una riunione con la stampa estera accreditata che a Cuba “nessuno soffre la fame”. Questa affermazione è un’altra evidenza del livello di disconnessione del governo dalla gente normale. Solo si può paragonare con la critica che ha fatto Raúl (Castro) nella sua “relazione centrale” all’ottavo congresso come segretario generale uscente, alla “confusione” che avevano avuto alcuni quadri nel prendersela con la “presunta disugualità” che ha creato la commercializzazione in dollari a Cuba.

E’ stata la disperazione che ha spinto la gente alla rivolta, alle proteste di massa nel peggior momento della pandemia nell’isola. E’ prevedibile un’enorme aumento dei contagi, sia fra i manifestanti che fra le forze dell’ordine e i gruppi di risposta rapida convocati nei centri di lavoro per dimostrare l’appoggio al governo.

A tutto ciò si unisce l’opportunismo politico di alcune voci dell’esilio che chiedono una soluzione militare per Cuba. Devono sapere che condizionare la sovranità nazionale con la tesi di un intervento umanitario è totalmente inaccettabile per l’enorme maggioranza di questo popolo, anche fra molti di coloro che scendono in piazza oggi contro il governo.

Rivolgendosi alla stampa estera, Rodríguez Parrilla ha affermato con leggerezza che questo non era il peggior momento che si è vissuto a Cuba. E’ vero che negli anni novanta abbiamo avuto una crisi terribile e un maleconazo (storica protesta di massa nel 1994, N.d.T.); ciononostante, gli rammento che in quella tappa avevamo un leader con una visione sufficiente per offrire cambiamenti a breve termine e un popolo con la speranza che, di fronte al crollo del socialismo reale in Europa, il governo avesse la sufficiente intelligenza per dirigere un percorso rapido e continuo di riforme.

Nessuna di queste cose esiste oggi. Ma chiedere al governo cubano che risponda ai segnali è, l’abbiamo visto, come arare il mare.

(tratto dal blog La jóven Cuba, 15 luglio 2021)

*Alina Bárbara López Hernández (Editrice, saggista e storica. Dottoressa in Scienze Filosofiche)