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In questi ultimi giorni la catastrofe afgana e la contemporanea dolorosissima scomparsa di un compagno delle qualità e del valore di Gino Strada, hanno spinto non pochi amici e compagni a chiedermi di scrivere qualcosa in merito ad esperienze passate avendo il sottoscritto per due anni vissuto direttamente, da parlamentare, la scelta scellerata di partecipazione alla guerra afgana da parte del governo di centro sinistra di Romano Prodi sostenuto da Rifondazione. Da poco era segretario di questo partito Francesco Giordano che aveva sostituito Fausto Bertinotti eletto alla Presidenza della Camera, mentre Paolo Ferrero presiedeva un ministero ed altri incarichi di governo erano stati dati a sue/suoi esponenti, essendo una delle forze principali della maggioranza parlamentare (il PRC disponeva di 27 senatori e di 41 deputati, numeri che adesso sembrano lunari). Ben presenti erano anche il Pdci che disponeva di 16 deputati e i Verdi, 15 deputati; al Senato queste due formazioni si erano presentate in una lista comune che aveva eletto 11 senatori. Infine, è da rilevare che era attiva anche una significativa pattuglia di parlamentari della sinistra dei DS. Le elezioni politiche che si erano svolte nell’aprile del 2006 avevano però dato una vittoria molto risicata (poche centinaia di migliaia di voti) al centro sinistra; grazie al premio di maggioranza alla Camera la coalizione (l’Unione) di Prodi godeva di un’ampia maggioranza, ma al Senato, dato il diverso meccanismo di elezione, la destra (la cosiddetta Casa delle Libertà) aveva numeri quasi pari e in molti casi risultava decisivo il voto dei senatori a vita; questi in genere sostenevano il nuovo governo.

Questo articolo non si propone di esaminare il conflitto e la tragedia afgana nelle sue dinamiche politiche complessive e internazionali e le tremende responsabilità delle classi dominanti imperialiste, ma solo le implicazioni che quella guerra ha avuto nella crisi della sinistra italiana.

Il nodo politico essenziale

Per semplicità anticipo quello che credo sia il problema di fondo su tale questione e quindi anche le conclusioni del mio pensiero.

La guerra è l’atto fondamentale che il governo di un paese può fare in funzione degli interessi della classe sociale che rappresenta; è la forma estrema con cui le scelte economiche, politiche e sociali possono esprimersi.

Per questo da sempre l’atteggiamento assunto davanti a una scelta di guerra della classe borghese del proprio paese, da parte delle forze della sinistra di classe è decisivo nel determinare la natura, il percorso e la traiettoria di queste ultime. È la cartina di tornasole, la prova del nove di un partito che si dichiara anticapitalista e comunista.

Il governo dell’Unione, al di là di alcune pretese riformiste, per altro non mantenute, nelle sue componenti dominanti era strettamente collegato alla borghesia italiana e alle sue alleanze con le potenze imperialiste americana ed europee.

Appoggiare l’intervento delle forze imperialiste in Afghanistan e la partecipazione delle truppe italiane, significava venir meno al pilastro centrale del programma socialista e pacifista del partito, significava venir meno al concetto stesso di “rifondazione comunista”, significava non solo compiere un atto politico profondamente sbagliato, ma creare le condizioni della propria sconfitta e della propria crisi politica. Il gruppo dirigente del PRC, nel quadro del mantenimento della alleanza con le altre forze dell’Unione, imboccò questa strada, sul tema della guerra, ma anche su varie altre questioni sociali essenziali, che non poteva che avere come conseguenza il naufragio dell’esperienza di Rifondazione così come si era cercato di costruire per oltre 10 anni. La Rifondazione sopravvissuta a quel disastro politico sarà un’esperienza parziale e limitata.

Dall’opposizione alla guerra “senza se e senza ma” al voto sulle missioni militari

L’11 settembre 2001 la riunione della Direzione nazionale del PRC che doveva programmare l’intervento politico e sociale dell’autunno, si interruppe bruscamente e tutte e tutti i presenti si precipitarono nella sala della televisione per vedere le immagini e la tragedia delle torri gemelle abbattute, che aprivano una nuova fase di crisi su scala internazionale e la scelta, forse già programmata della amministrazione Bush, dell’intervento in Afghanistan. Il partito si impegnò subito in una vasta e partecipata campagna pacifista contro la guerra che gli valse non solo un ruolo importante nel movimento per la pace, ma anche una forte crescita di consensi e di credibilità. Appassionati, forti e determinati furono gli interventi dei parlamentari del partito contro la proposta del nuovo governo Berlusconi (le elezioni con la vittoria della centro destra si erano svolte nel maggio del 2001) di sostenere l’intervento occidentale ed anche di parteciparvi direttamente. L’intervento italiano fu votato e approvato non solo dal centro destra ma anche dal centro sinistra e solo una sparuta pattuglia di parlamentari guidati dal PRC votò contro.

L’anno dopo, il 9 novembre 2002, l’immensa manifestazione internazionale del movimento alter mondialista e contro la guerra attraversò per tutto il giorno la città di Firenze (500 mila, forse anche un milione di partecipanti). Nelle giornate del Forum sociale che la precedette e poi nel corteo stesso, Rifondazione ebbe un ruolo non solo importante, ma anche polarizzante, un ruolo politico di riferimento mantenuto poi anche negli anni successivi.

Ma l’orientamento strategico di un ruolo di opposizione politica mutò a partire dal 2004 quando la maggioranza del gruppo dirigente intorno a Bertinotti si convinse di avere la forza politica e sociale di trattare un nuovo accordo favorevole con le forze del centro sinistra guidate da Prodi e di poter partecipare alla costituzione de “L’Unione” e quindi anche di rendersi disponibili per una esperienza diretta di governo. Nonostante una forte opposizione interna il congresso del partito, che si svolse a Venezia all’inizio di marzo del 2005, approvò questo orientamento che si concretizzò l’anno successivo nelle elezioni del 2006 e la formazione del secondo governo Prodi con la piena partecipazione del PRC.

Nell’interminabile (270 pagine circa) testo programmatico condiviso da parte delle forze dell’Unione nulla era scritto sull’Afghanistan, mentre veniva confermato l’orientamento, per altro già maturato dal precedente governo, del ritiro delle truppe italiane dall’Iraq.

In una riunione interna degli eletti del partito Salvatore Cannavò della corrente Sinistra Critica pose il problema che a breve in parlamento si sarebbe posta la questione del rinnovo delle missioni militari e che quindi il nodo politico dell’intervento in Afghanistan che il partito aveva sempre contrastato. La risposta di Bertinotti fu quanto mai significativa: “mica vuoi far cadere il governo”. Suonò come una rinuncia a priori di una qualsiasi battaglia politica su una questione che per altro era rimasta aperta.

E il nodo si pose poco dopo, nelle torride giornate di giugno e luglio in cui il governo Prodi si pose in totale continuità col passato nella conferma delle missioni militari in giro per il mondo, a partire dall’Afghanistan (dove pure era ormai da anni palese quale cumulo di tragedie, distruzioni e morti quella guerra stesse producendo) e il PRC del tutto rinunciatario e subalterno a questa impostazione. Otto senatori, tra cui il sottoscritto, presero l’iniziativa di una dichiarazione in cui si esplicitava l’intenzione di non votare il rinnovo delle missioni e quindi di aprire una forte discussione politica interna ed esterna, che si svolse in un clima arroventato e minaccioso. Il 15 giugno si svolse a Roma una grande assemblea con 600 persone dal titolo “Contro la guerra, senza se e senza ma, via dall’Iraq, via dall’Afghanistan”, in cui intervennero, tra i molti, Giorgio Cremaschi, Beppe Grillo, Luca Casarini, Alex Zanotelli, Emilano Brancaccio, Dario Fo e Gino Strada con un appassionato intervento di cui riporto solo pochi passi: “Oggi la politica italiana in modo bipartisan si prepara ancora una volta a sacrificare vite umane, a trasformare anche i nostri soldati in uccisori o vittime…“ E ancora “Rifiutate la guerra umanitaria di centro sinistra e quella per la civiltà del centro destra, rifiutate la guerra bipartisan al terrorismo… Nella anestetizzante babele del linguaggio che chiama democrazia i bombardamenti e libertà le occupazioni militari, anche la parola Pace ha finito per cambiare significato perfino all’interno del movimento. Adesso sappiamo che per molti l’essere pacifisti può spingersi fino a contemplare e giustificare la guerra… È l’occasione giusta per dare vita al movimento contro la guerra perché non vi sia possibilità di equivoco…”

Nella introduzione Salvatore Cannavò aveva posto il nodo politico per la sinistra:” Oggi questa assemblea è un fatto molto importante, ma se questa iniziativa l’avessero promossa non 8-10 parlamentari, ma tutte le forze della sinistra radicale, il Prc, il Pdci, i Verdi, la sinistra DS, se tutti insieme avessero detto a Prodi che no, sulla guerra non si passa, cosa sarebbe accaduto oggi in Italia? È il 15 luglio e ci sono 600 persone in questa sala, cosa sarebbe potuto accadere? Perché questa resa preventiva sulla guerra?i

I sondaggi indicavano infatti che il 61% del popolo italiano era favorevole al ritiro non solo dall’Iraq, ma anche dall’Afghanistan, ma non era così per un Parlamento che votava massicciamente le missioni.ii

Sui giornali, ma anche nei dibattiti politici e parlamentari si affermavano diversi concetti fasulli e sofismi insopportabili, “la guerra umanitaria”, “l’intervento umanitario” e la partecipazione alla guerra per “la riduzione del danno”, al fine di spacciare un intervento militare imperialista in piena regola per un intervento umanitario e in tanti, a sinistra facevano finta di crederci. I dissidenti, fosse qualche isolato parlamentare ribelle o un Gino Strada, sarebbero stati etichettati d’ora in poi, come “anime belle”. Nel frattempo, in Afghanistan si continuava a morire e la distruzione del paese proseguiva senza fine.

Più prosaicamente e banalmente sul piano politico cominciava il lento logoramento del PRC che aveva avuto un forte successo elettorale proponendosi come garante di un cambiamento politico e sociale, che non sarebbe mai arrivato poiché il governo si manteneva nel solco europeo liberista, a partire dalla legge finanziaria autunnale.

L’aeroporto Dal Molin di Vicenza e lo shock del febbraio 2007

Ma il nuovo shock giunse nel febbraio del 2007, al momento del successivo rinnovo del finanziamento delle missioni militari nel quadro di un nuovo forte rilancio del movimento pacifista. A Vicenza la Nato, con il pieno consenso del governo italiano si preparava a raddoppiare l’aeroporto Dal Molin, a meno di 2 chilometri dalla basilica palladiana, per farne il principale centro logistico in Europa ed ospitare la nuova brigata aviotrasportata di pronto intervento, in particolare in tutte le zone calde del Medio Oriente. Contro questo progetto era sorto un vero e proprio movimento di popolo comparabile solo a quello della Val Susa e sostenuto da una grande mobilitazione militante a livello nazionale. Il sabato 17 febbraio si svolse un’enorme manifestazione nella città veneta del movimento contro la guerra in cui in prima fila facevano a gara a distinguersi i parlamentari del PRC, dei Comunisti italiani e dei Verdi. Anche in questo caso non sembrava impossibile imporre a Prodi di recedere dal sostegno al progetto Nato.

Non andò così perché le direzioni dei partiti della sinistra, ancora una volta si adeguarono alle scelte di Prodi, dei DS e della Margherita e i “manifestanti parlamentari” del sabato il mercoledì 21 febbraio, “rinnegavano” (dimenticavano) il loro impegno e si piegavano più o meno riluttanti alle posizioni del ministro degli esteri, Massimo D’Alema e di Prodi. Questi non lasciavano alcun equivoco sulla politica reale del governo e sull’idea di guerra di una presunta sinistra. La relazione sulla politica estera di D’Alema era infatti così riassumibile: un interventismo militare “democratico” che dava centralità alla alleanza con gli USA, ma dentro una altra centralità, quella dell’alleanza con i paesi europei per preservare i loro specifici interessi, infine la rivendicazione della necessità che l’Italia impegnasse forze militari consistenti (molte migliaia) nel mondo per poter avere voce in capitolo nelle istanze internazionali e poter difendere al meglio gli interessi nazionali, a partire da quelli economici. Era una posizione politica che considerava normale la partecipazione italiana alle guerre e che, beninteso, stracciava l’articolo 11 della Costituzione italiana.iii Votare quella mozione era votare le scelte di guerra dell’imperialismo italiano e le sue “sante alleanze” con l’imperialismo Usa e quelli europei.

Dissi chiaramente nella riunione congiunta dei parlamentari del PRC che non l’avrei mai votata e così feci. Fece la stessa scelta anche il senatore Rossi del gruppo Pdci-Verdi. Si produsse così la caduta del governo Prodi, ricercata in quel particolare momento per ragioni tattiche da alcuni senatori a vita.

Se il rifiuto di piegarsi al ruolo imperialista italiano e alle guerre fosse stato condotto dal partito nel suo insieme, se non solo il sottoscritto e due o tre deputati del PRC fossero stati fedeli al programma del partito, ma lo fosse stato tutto il PRC, ben deciso a fare una campagna di massa, forse sarebbe stato possibile realizzare un grande passo avanti nella coscienza politica del paese, che, nella sua larga maggioranza, continuava ad essere favorevole a far tornare a casa le nostre truppe sia dall’Iraq che dall’Afghanistan.

Ebbi modo di scrivere che ritenevo spaventoso che molti nella sinistra considerassero normale partecipare alla guerra e/o ne banalizzassero il significato per opportunismo o cinismo, o per semplice paura o insipienza, quando si era di fronte a una scelta carica di drammi presenti o futuri. A tutti costoro avrei voluto trasmettere lo straziante dolore di due genitori che mi avevano scritto una lettera di solidarietà ricordando il loro figlio, un giovane alpino, morto in servizio di leva.iv

Verso la crisi finale del governo

In una seduta successiva, dopo che l’esecutivo era riuscito a rimettersi in piedi, scesi al banco del governo in Senato e dissi a Prodi, regalandogli 3 bandiere (della pace, No Tav e No Dal Molin) che avrei votato contro ogni misura di guerra e di attacco ai diritti democratici e sociali delle lavoratrici e dei lavoratori nel rispetto del programma con cui ero stato eletto in parlamento. E così svolsi nei mesi successivi l’attività parlamentare come esponente politico della corrente politica Sinistra Critica; in particolare votai contro il cosiddetto protocollo sul Welfare che altro non era che la conferma della legge 30 sulla precarietà di Berlusconi, che aveva subito delle modifiche irrisorie. Quel giorno la destra uscì dall’aula perché non poteva votare contro misure che condivideva al 99,99%, e il Senato registrò l’unanimità sul provvedimento col mio solo voto contrario. Conteneva le norme che hanno martoriato, precarizzato e diviso la classe lavoratrice e flessibilizzando all’estremo il rapporto di lavoro a vantaggio dei padroni.

Sul piano del partito è noto che già il giorno dopo il 21 febbraio fui espulso dal gruppo parlamentare del PRC per cui dovetti iscrivermi al gruppo misto. E’ noto anche che dopo aver spiegato nella Direzione del partito di non aver fatto altro che difendere le posizioni programmatiche del PRC e che era stata la maggioranza a finire nel fosso fui deferito al Collegio di garanzia, che, dopo inchiesta e interrogatorio, decise di espellermi. Nello statuto di Rifondazione non c’è una norma di espulsione, ma solo quella della sospensione di due anni, con possibilità di porgere rispettosa domanda di riammissione, trascorsi i due anni; sarebbe la morte politica per un militante ed infatti norma statutaria è solo la foglia di fico con cui si vuole mascherare una espulsione reale.

Sul piano personale, come ho detto a tanti, credo di aver fatto solo il mio dovere di militante politico anche perché ho sempre lavorato collettivamente nel quadro della mia corrente politica programmatica, Sinistra Critica, che mi ha sostenuto e orientato nella mia attività politica e parlamentare e che ho cercato di rappresentare.

Nella costruzione di un progetto alternativo si può essere sconfitti e dover ripiegare, ma non si possono fare o gestire scelte che contrastano con gli obbiettivi immediati e storici delle classi lavoratrici. Per questo oggi la mia militanza è più che mai all’interno di Sinistra Anticapitalista, la continuazione politica e programmatica della vecchia Sinistra Critica. E questo è anche il senso della mia appartenenza da più di 50 anni alla Quarta Internazionale.

Per altro, di lì a un anno nel gennaio del 2008 sarebbero stati Veltroni e il PD, nato dalla fusione tra i DS e la Margherita il 14 ottobre del 2007 a decidere la fine del governo Prodi, nella ricerca di un nuovo governo che non avesse alcun impaccio o condizionamento alla sua sinistra; l’operazione di Veltroni portò solo a nuove elezioni e alla vittoria di Berlusconi, ma anche alla fuoriuscita dal Parlamento di ogni forza di sinistra. Rifondazione che nelle elezioni del 2006 aveva raccolto tanti voti nelle sensibilità di sinistra, ma che aveva ottenuto voti anche in aree meno radicali, dopo il fallimento dell’esperienza governativa, nelle elezioni del 2008 perse voti sia alla sua destra che a sinistra. La coalizione Sinistra Arcobaleno guidata da Bertinotti che comprendeva il PRC, il Pdci, la Federazione dei Verdi e la Sinistra democratica che non aveva aderito al PD non superò lo sbarramento del 4% e non ebbe eletti. Era una disfatta non solo elettorale, ma anche politica.

Qualche considerazione finale

Scrive in una chat un mio caro compagno a proposito del PRC: “Cosa avremmo potuto dire o fare, se avessimo mantenuto coerenza e credibilità e se ci fossimo organizzati dentro questa credibilità, nella crisi economica del 2008-2009, nel disastro sociosanitario… e della pandemia, nel disastro afgan…

L’esperienza fallita del condizionamento del centro sinistra e la conseguente crisi verticale di Rifondazione aprirono la strada alla rabbia e alla protesta, poco politicizzata e indistinta, che hanno fatto le fortune politiche ed elettorali di Grillo e del M5S.

In realtà l’orientamento portato avanti dalla maggioranza di Rifondazione, e che noi come Sinistra Critica, ma anche insieme a molti altri militanti abbiamo cercato di correggere e cambiare per almeno 4 anni, ha fatto gravi danni non solo al partito, ma ai movimenti sociali nel loro insieme, alla classe lavoratrice che si è trovata del tutto priva di un punto di riferimento di classe sia politico che organizzativo con una dimensione di massa e proprio alla vigilia di una grandissima crisi internazionale del capitalismo e di offensiva a tutto campo delle politiche liberiste. La sinistra radicale italiana che per decenni era stata la “stella polare” e un modello per tanti in Europa e sul piano internazionale finiva ridotta in frantumi, travolta dai suoi errori e dal fallimento della sua politica.

Non scrivo questo per gettare fango su compagni con cui ho lavorato a lungo e con cui lavoro anche oggi, anche se qualche volta provo rabbia per la follia o l’opportunismo di corto respiro di certe scelte, ma solo per favorire una riflessione critica su vicende che hanno prodotto una così forte demoralizzazione e una frammentazione estrema della sinistra, oggi impossibilitata a giocare un ruolo politico minimamente all’altezza delle necessità.

Anche perché se alcuni di quei dirigenti e protagonisti di 15 anni fa hanno poi risolto le loro posizioni in senso del tutto moderato ed operano oggi in stretta alleanza strategica con il PD, altri invece hanno riconosciuto di essersi sbagliati ed hanno tenuto duro ed è proprio con queste/i e molte/i altre/i che si sta cercando di costruire le resistenze sociali e forse anche, molto lentamente, la ricostruzione di una sinistra di classe.

È solo che il fallimento del progetto della Rifondazione nato nel 1991/92 e sviluppatosi per oltre un decennio e lo snodo politico strategico di 15 anni fa non possono essere banalizzati e tanto meno l’aver “banalizzato” la scelta della guerra. Un’analisi e una comprensione critica piena serve più che mai, serve in forma scritta e serve per formare ed orientare i militanti di quel partito, ma più in generale tutte/i le/i militanti politici, quindi anche delle altre formazioni della sinistra di classe, ma anche quelle/i sociali che in varie forme si tengono lontano dalla scelta partitista. Devo dire che tutto questo non l’ho ancora trovato nei testi della Rifondazione attuale, che è altra cosa, per ovvie ragioni, da quella del passato e l’ho ricercato anche nell’attuale testo congressuale, che pure comprende una tesi specifica sulla traiettoria del partito, una tesi che trovo superficiale e deludente.v Davvero va fatto uno sforzo in più per rompere con alcune eredità del passato lontano, quelle eredità che hanno fatto prevalere nella Rifondazione del congresso del 2005, la scelta di andare al governo col PD., in altri termini di partecipare al gioco fasullo dell’alternanza e non alla faticosa costruzione dell’alternativa socialista.

*Sinistra Anticapitalista

i Per tutte queste citazioni vedi la Rivista ERRE n. 19 del luglio/agosto 2006.

ii Il governo pose la fiducia sui provvedimenti e gli 8 senatori dissenti, a due mesi dalle elezioni, non potevano avere la forza di precipitare la crisi ed accettarono la disciplina di partito; fecero però una dichiarazione in cui affermavano che non avrebbero mai più ripetuto quel voto, intento che però, in seguito, fu disatteso dai più. E’ difficile spiegare a quale grado di pressioni si è sottoposti in quel contesto ed ambito, a partire del ricatto del fasullo richiamo al “popolo della sinistra”. Solo con una forte formazione politica e con un gruppo collettivo che ti sostiene alle spalle in genere si riesce a non farsi schiacciare.

iii Vedi la Rivista ERRE n. 23 aprile/maggio 2007.

iv A titolo di cronaca, in quel periodo ho ricevuto quasi 10.000 lettere, di cui più di tremila di insulti più o meno volgari o argomentati ed oltre 6.000 di sostegno. Questo, insieme al sostegno della mia corrente Sinistra Critica, mi diede la forza non solo di reggere le grandi pressioni, ma anche di partecipare a decine e decine di assemblee in tutto il paese, per spiegare che un’altra linea politica era sia necessaria che possibile.

v In realtà nel dibattito congressuale del PRC sono state proposte due altre versioni di questa tesi. Più in generale mi riservo di dare una valutazione più complessiva su tutto il materiale di dibattito che questo partito sta producendo per il suo congresso.