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La macchina poliziesca e giudiziaria dello stato cinese, sotto il totale controllo del Partito Comunista, continua a colpire i pochi attivisti rimasti dopo oltre un triennio di sistematica repressione di ogni iniziativa dal basso mirata a promuovere l’autonomia dei lavoratori o a chiedere giustizia per le donne.

Per il Partito Comunista cinese, e lo stato di cui detiene il pieno controllo, ogni iniziativa autonoma dei lavoratori e delle donne, o attività dal basso orientata a promuoverne anche solo indirettamente i diritti, rappresenta un pericolo di prim’ordine che deve essere soffocato sul nascere, tanto più se si colloca politicamente a sinistra. Ne è stata un esempio evidente l’ondata massiccia di arresti e sparizioni con la quale dal 2018 ha risposto alle mobilitazioni di studenti marxisti e femministe a fianco dei lavoratori della Jasic Technologies. Da allora i suoi burocrati e i suoi poliziotti hanno fatto pressoché piazza pulita di ogni embrione di attività di questo tipo, ma evidentemente Xi Jinping e i suoi continuano a non dormire sonni tranquilli, se si considera che oggi non risparmiano le proprie energie nemmeno contro gli studenti che studiano attivamente e con spirito di solidarietà la vita e la storia dei lavoratori. Questa dimostrazione di forza è in realtà una dimostrazione di debolezza, visto che il sistema è costretto a essere sempre più spietato perché si trova ad affrontare una situazione di profonda crisi economica e sociale alla quale da anni non sembra riuscire a trovare soluzione, se non nel rafforzamento degli apparati di sicurezza e di controllo sociale.

L’arresto dell’attivista di sinistra Fang Ran

Un esempio del livello a cui è arrivato il regime di Pechino è quello del recente arresto a Nanning, nella Cina continentale, di Fang Ran, studente 26-enne della Università di Hong Kong, ma originario della città in cui è stato arrestato e membro del Partito Comunista della Cina dal 2013. Fang Ran è stato incriminato per “incitamento alla sovversione del potere statale”, riferisce il South China Morning Post, ed è stato collocato in “sorveglianza residenziale presso un luogo designato”, l’eufemismo con il quale il regime indica il sistema in base al quale, del tutto “legalmente”, in Cina una persona può essere fatto sparire dalla polizia in un luogo segreto per un periodo formalmente fino a 6 mesi (tuttavia spesso prolungato fino a un anno o più) con l’accusa generica di costituire una minaccia per la sicurezza nazionale, senza potersi avvalere di avvocati o comunicare con i familiari. Si tratta di luoghi in cui, inutile dirlo, si pratica normalmente la tortura. Le autorità, come è la regola in questi casi, non hanno fornito alcuna informazione in merito alle attività di Fang su cui si baserebbe la nebulosa accusa.

Lo studente era stato stagista in una Ong e aveva contribuito a social media che si occupano di emancipazione dei lavoratori. Fang era impegnato principalmente in attività di ricerca sul movimento dei lavoratori e in passato era stato già a più riprese per tale motivo interrogato dalla polizia del continente, che questa volta gli ha teso una trappola chiedendogli di tornare a Nanning per riprendere un computer sequestratogli durante un precedente interrogatorio. La sua attività di studio si era concentrata in particolare sui lavoratori migranti di Shenzhen colpiti da pneumoconiosi, una grave malattia del lavoro alla quale sono esposti milioni di operai cinesi. Prima di iscriversi all’Università di Hong Kong aveva frequentato l’Università Tsinghua a Pechino, dove era stato uno dei fondatori di un gruppo di studio sul capitalismo moderno formato da studenti di sinistra in un’ottica marxista. Nei suoi interventi sui social Fang aveva chiesto la liberazione di attivisti per i diritti umani e si era occupato di temi come i diritti dei lavoratori. Il SCMP riferisce un altro particolare importante. Nel febbraio scorso lo studente aveva preso parte a un gruppo di lettura nel quale si discuteva del libro “Korean Workers”, un classico della letteratura sulle lotte dei lavoratori scritto da Hagen Koo, noto studioso coreano. Nel libro (tradotto anni fa anche in cinese) Koo descrive nei particolari la strategia adottata dagli studenti marxisti sud-coreani negli anni ’970, sotto la dittatura di allora, consistente nell’infiltrarsi come lavoratori nelle fabbriche al fine di stimolarvi la nascita di attività sindacali. Questo particolare si ricollega direttamente agli studenti marxisti che avevano preso parte alle lotte della Jasic del 2018, i quali, come riportato dal Made in China Journal, si erano ispirati a detta strategia coreana con un lavoro analogo durato anni. L’arresto di Fang manda quindi due messaggi pesanti. Il primo riguarda gli attivisti di sinistra della Cina continentale e dice che, ancora oggi, nessuna attività, anche solo di studio o generica solidarietà con i lavoratori, verrà tollerata, così come non verrà tollerato alcun collegamento con i compagni di Hong Kong. Il secondo riguarda direttamente Hong Kong, dove Fang è studente, e dice che, dal momento in cui ogni sostanziale autonomia dell’ex colonia è stata cancellata, non verrà più tollerato il ruolo fondamentale che la regione ha avuto come “retroguardia” impegnata nel sostegno ai lavoratori della Cina continentale, nonché nell’informazione o nella ricerca sulle loro reali condizioni.

L’arresto del rider Chen Guojiang

Il caso di Fang Ran va a sommarsi a quello diverso, ma in qualche modo assimilabile, del rider Chen Guojiang, incarcerato nel febbraio scorso ma il cui arresto è stata ufficializzato solo nel mese di marzo. Chen, 36 anni, aveva abbandonato la scuola a 14 anni per emigrare a Pechino, dove ha poi cominciato a lavorare come rider nel settore della food delivery. L’accusa con la quale è stato arrestato è quella di “creare liti e provocare disordini”, un’ennesima formulazione vaga che le autorità utilizzano per incriminare persone che si sono macchiate di “colpe politiche”, siano esse femministe, attivisti sindacali o dissidenti. Per questo “reato” è prevista una pena fino a 5 anni di carcere. Chen aveva creato online, tramite la social app WeChat, un’Alleanza dei Rider che raggiungeva circa 15.000 colleghi. Tramite di essa, scrive Labor Notes, si occupava fondamentalmente di piccoli interventi come la mediazione quando insorgevano problemi con i ristoranti o il fornire aiuto nella riparazione delle moto. Prima di essere arrestato aveva però criticato le nuove politiche di bonus della piattaforma Ele.me che andavano a svantaggio dei rider, diffondendo anche un video sui colleghi in sciopero che protestavano contro le nuove regole. Il video è stato visto da quasi 10 milioni di persone. Nel momento in cui scriviamo Chen si trova ancora in stato di detenzione.

Il suo arresto è un altro chiaro segno di minaccia, questa volta contro l’intera categoria dei rider, che dopo le repressioni antisindacali generalizzate dell’ultimo triennio sono rimasti tra i pochi che effettuano ancora scioperi collettivi. Il sito SupChina sottolinea che in Cina, come altrove, i rider sono costretti a ritmi di lavoro massacranti a fronte di compensi risicati e, nella maggior parte dei casi, senza alcun contratto formale, una conseguenza tra le altre cose del fatto che non possono organizzarsi liberamente in sindacato e, come gli altri lavoratori, possono aderire solo al sindacato ufficiale. Quest’ultimo evita sistematicamente di entrare in conflitto con i padroni e anzi, spesso consente a loro parenti o ai manager delle aziende di svolgere il ruolo di rappresentanti sindacali. Il 95% dei rider cinesi lavora più di 8 ore al giorno, il 66,8% più di 11 ore e il 28% oltre 12 ore. Come spiega At Rest of World, il settore della food delivery della Cina genera un volume d’affari annuo di 97 miliardi di dollari ed è dominato da un duopolio di piattaforme costituito da Meituan, controllata dal gigante tecnologico Tencent e che detiene una quota del 67% del mercato, e da Ele.me, controllata dal rivale Alibaba e la cui quota di mercato è del 31%. Il settore è uno dei più importanti dell’universo del lavoro flessibile, che secondo i dati del governo cinese è costituito da 200 milioni di lavoratori. Lo sfruttamento dei rider è sempre più intenso: per esempio, nel 2016 i tempi massimi di consegna erano di 1 ora, nel 2018 erano già stati quasi dimezzati a 38 minuti. Le retribuzioni sono particolarmente basse e il China Labour Bulletin cita compensi di appena 3,5 yuan (circa mezzo dollaro) per tre chilometri e l’esempio di un lavoratore che lavorando 12 ore al giorno, con soli uno o due giorni al mese di pausa, arriva a 7.000 yuan/mese (circa 1.000 dollari). Oltre a ciò, spesso i rider sono oggetto di decurtazioni del compenso nel caso di cattive recensioni dei clienti o di ritardi nella consegna. Non vi è da meravigliarsi quindi se le proteste e gli scioperi nel settore della food delivery sono aumentati da 10 a 45 dal 2018 al 2019 – tuttavia si tratta ancora, come per esempio è avvenuto nel giugno scorso in svariate città cinesi, di azioni sporadiche e scarsamente coordinate. Questo contesto porta a volte a gesti tragici, come è avvenuto nel gennaio scorso, quando un rider si è dato fuoco per protestare, secondo quanto ha lasciato scritto, contro l’ingiusto trattamento retributivo di cui era stato oggetto. Di fronte a questa situazione in atto ormai da anni, il governo di Pechino si astiene da ogni intervento sostanziale. Il 26 luglio ha pubblicato delle linee guida per il settore della food delivery, che non hanno forza di legge e quindi non sono vincolanti, constata la rivista cinese Caixin. Inoltre, in esse compaiono formulazioni-trappola, per esempio laddove le piattaforme vengono invitate a fornire una copertura di previdenza sociale “ai lavoratori con un rapporto di lavoro stabile”, quando la quasi totalità dei rider non ha invece un lavoro stabile. Il regime ha usato recentemente la mano pesante contro alcuni oligopoli, come Alibaba o Didi (“l’Uber cinese”), ma agli unici scopi di tutelare il mercato finanziario e lo sviluppo del “libero mercato” capitalista, da una parte, e di sottrarre potenziali leve a lobby del Partito Comunista che non guardano di buon occhio la rielezione di Xi Jinping per un terzo mandato al congresso previsto per l’autunno 2022, dall’altra. Come osserva China Digital Times, “lo stato punta ad arrecare un duro colpo ad alcune grandi aziende, ma non è disposto a consentire ai lavoratori di lottare per un obiettivo analogo. Meituan è solo la seconda azienda (la prima è stata Alibaba) che è stata oggetto di ammende ai sensi dei nuovi regolamenti antitrust. Tuttavia, se le autorità sembrano preoccupate per i danni che tali aziende possono causare ad altre imprese, non lo sono invece affatto per il trattamento che le stesse riservano ai propri lavoratori”.

La porta chiusa in faccia alle donne che denunciano violenze

Infine, il regime ha mandato di recente altri due chiari messaggi alle donne cinesi che lottano contro la violenza maschile. Nell’ultimo paio di mesi due casi di denunce avevano generato clamore e portato molti osservatori a parlare di una svolta delle autorità in direzione se non femminista, almeno di maggiore attenzione per le istanze delle donne, ma gli ultimi sviluppi vanno in senso contrario. Il primo caso è stato quello del cantante sino-canadese Kris Wu, una delle più note star del pop locale con oltre 50 milioni di follower nei social, che è stato accusato da una influencer di averla violentata quando aveva 17 anni. Wu è stato rapidamente arrestato a fine luglio e i suoi account nei social sono stati oscurati. Nello stesso periodo, una lavoratrice di Alibaba ha denunciato la violenza sessuale subita a opera di un suo dirigente, dopo una serata promozionale di fine luglio con clienti dell’azienda durante la quale era stata costretta a bere grandi quantità di alcool. Dopo avere atteso inutilmente che l’azienda intervenisse, la lavoratrice aveva prima gridato le proprie accuse nelle mensa aziendale e poi aveva pubblicato un resoconto dettagliato dei fatti nei social, ottenendo un’enorme eco. Alibaba si è scusata, ha licenziato il dirigente e ha costretto alle dimissioni altri due manager presenti la sera in questione. Il dirigente, di cui è noto solo il cognome Wang, è stato in breve anche arrestato. La partecipazione di dipendenti donne a questo tipo di serate, per svolgere il ruolo di “incentivo promozionale” presso potenziali clienti, così come l’obbligo di fatto di bere molto alcool, sono consuetudini purtroppo diffuse nelle aziende cinesi, così come lo sono altre pratiche estremamente umilianti per le lavoratrici. Le speranze di una svolta a favore delle donne sono però state spente nell’ultima settimana da una doppia doccia fredda. Il processo relativo al caso Alibaba si è concluso con l’assoluzione di Wang dal reato di “atti osceni con uso della forza”, appena un gradino sotto quello di stupro, e il dirigente è stato scarcerato. Nonostante l’esistenza di video che documentavano la catena dei fatti i giudici non hanno ritenuto le prove sufficienti – i tribunali in Cina, nei rari casi in cui le denunce di stupro sfociano in un processo, chiedono prove pressoché impossibili da raccogliere. Solo qualche giorno più tardi è stato pienamente assolto anche Zhu Jun, noto presentatore del canale televisivo statale CCTV. Nel 2018 era stato accusato di molestie sessuali da una sua sottoposta, un caso che aveva avuto di nuovo un’enorme eco tra le donne in un anno in cui le lotte femministe avevano ancora qualche spazio. Le prime due udienze del procedimento penale si sono tenute a ben tre anni di distanza e a porte chiuse, e anche in questo caso le prove secondo i giudici sarebbero insufficienti. La donna ha lamentato di non avere avuto la possibilità di esporre adeguatamente i fatti. Il Made in China Journal ha pubblicato giusto in questi giorni la traduzione di un suo dettagliato testo del 2020 in cui vengono descritte le enormi difficoltà pratiche e contestuali nelle quali si imbattono le donne che denunciano, nonché le femministe, nella Cina di oggi, tra censure, latitanza della polizia di fronte ai casi di violenza, interventi repressivi e campagne di denigrazione dei gruppi maschilisti, ma anche per le divisioni interne al movimento femminista conseguenti a questo arduo contesto.

Ma perché il trattamento diverso riservato alla star Kris Wu rispetto agli altri due uomini accusati? I motivi sono probabilmente molteplici. Una prima parziale spiegazione può darla il fatto che Wu è anche cittadino canadese, e in questo momento la Cina è in forte conflitto con il Canada che tiene agli arresti domiciliari la figlia del proprietario di Huawei, mentre per ritorsione Pechino ha condannato un cittadino canadese a morte e un altro a 11 anni di carcere. Ma soprattutto, la punizione di Wu rientra perfettamente nella campagna che il regime sta conducendo nel mondo dell’intrattenimento contro le star che hanno un enorme seguito sui social. Non è un caso infatti che in contemporanea le autorità abbiano esplicitamente dichiarato guerra ai gruppi di fan sui social, chiudendoli o mettendo loro il bavaglio, in particolare a quelli che si sono dimostrati attivi nel crowdfunding per qualche causa, come fanno i gruppi di fan un po’ in tutto il mondo. Le autorità di Pechino temono effetti analoghi a quelli ottenuti dai fan del K-Pop coreano che avevano organizzato un crowdfunding milionario a sostegno di Black Lives Matter e mandato a vuoto un comizio di Donald Trump con finte prenotazioni di biglietti per assistervi. Anche in questo caso le preoccupazioni del Partito Comunista sono sicuramente rese più forti dall’imminenza del Plenum di novembre e, soprattutto, del Congresso del 2022 destinato a conferire il terzo mandato a Xi Jinping, in presenza tuttavia di evidenti divergenze ai vertici. Questo non vuol dire che le accuse a Wu siano montate, naturalmente, bensì semplicemente che il regime in materia di giustizia per le donne, o dei loro diritti, apre qualche spiraglio solo quando ha una diretta convenienza per sé stesso. Altrimenti invia loro un messaggio chiaro: “Se vi violentano o molestano vi conviene stare zitte, tanto denunciare non serve a niente”.

*articolo apparso sul sito crisiglobale.wordpress.com il 22 settembre 2021.

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