In una fase particolarmente turbolenta dell’economia e della politica internazionale il capitalismo italiano sembra aver trovato il nuovo “uomo della provvidenza”[1]. Si tratta del superbanchiere Mario Draghi, ex-presidente della BCE, divenuto da sei mesi capo del governo per decisione autocratica del capo dello stato Mattarella – una decisione preparata da una martellante campagna mediatica, attuata attraverso oblique manovre di palazzo, e avallata quasi all’unanimità da un parlamento che è sempre più una cassa di risonanza vuota. Da allora, a stare alla narrativa da vero e proprio regime che impera, tutto va per il meglio. Il covid, impaurito, regredisce a vista d’occhio. Il pil, euforico, schizza al +5% e oltre. Dall’Europa, diventata d’incanto madre, non più matrigna, piovono fiumi di denari. L’Italia, ritornata orgogliosa di sé, miete allori sportivi in serie. E addirittura riconquista un ruolo di primo piano nella politica internazionale promuovendo un’iniziativa sull’Afghanistan imperniata sul G-20 (se si farà). Per il capitale made in Italy o investito in Italia, è l’alba di una nuova età dell’oro, che non si sa quanto durerà, ma ha già un suo cupo rovescio della medaglia per gran parte della classe lavoratrice.
Il governo Draghi è il terzo esecutivo in tre anni della XVIII legislatura, iniziata nel marzo 2018 con un governo Lega-Cinquestelle polemico verso l’UE e occhieggiante al “sovranismo” (il Conte-1), sostituito dopo un anno da un governo Pd-Cinquestelle che ha invertito marcia ricucendo i rapporti con l’UE (il Conte-2). L’esecutivo ora in carica ha messo fine a queste oscillazioni proclamandosi dal primo giorno fedele alla tradizione atlantista e insieme europeista della politica estera italiana – occultando, però, l’attrito esistente tra i due termini. Anche in politica sociale Draghi&Co. sono stati chiamati a rimettere ordine: cioè ad assicurare assoluta priorità alle istanze del grande capitale e del sistema bancario rispetto alle (minime) concessioni fatte dai due precedenti governi al malcontento e alle aspettative di operai/e, proletari/e e salariati/e tartassati da decenni di politiche di “austerità”[2].
La grande occasione da cogliere al volo è il reset dell’economia italiana legato al Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) che rientra nel Next Generation 2021-2026 dell’UE finanziato con 750 miliardi di euro – una “svolta epocale” compiuta dall’UE per cercare di tenere testa ai due grandi competitor, Stati Uniti e Cina. Nella premessa al Pnrr c’è una frase rivelatrice: “l’Italia non è necessariamente destinata al declino”. L’esecutivo Draghi è chiamato appunto a fermare il lungo declino che ha ridotto la quota di mercato mondiale del capitalismo italiano dal 4,2% di metà anni ‘80 al 2,8% di oggi. Il nuovo uomo della provvidenza aveva già fissato gli ingredienti di questa “ripresa” in alcuni interventi tenuti nel 2006 da governatore della Banca d’Italia[3], in cui spiegò che la crisi dell’economia italiana era dovuta essenzialmente alla bassa produttività del lavoro e all’eccesso di spesa sociale. Da cui le linee-guida per tirarla fuori dalle secche della bassa crescita: “riforme strutturali” per accrescere produttività del lavoro e competitività delle imprese; ulteriore internazionalizzazione di economia e finanza; privatizzazioni; favori fiscali alle imprese; subordinazione degli aumenti salariali all’incremento della produttività; taglio alle pensioni pubbliche per fare largo ai fondi privati; maggiore flessibilità (precarietà) dei rapporti di lavoro; riduzione del debito di stato[4]. Con piccoli scostamenti, sono state le linee-guida seguite negli ultimi 15 anni dai governi di Roma. La loro applicazione non ha portato l’economia italiana fuori dalla stagnazione, ma ha sospinto all’indietro, non di poco, le condizioni medie di lavoro e di vita di milioni di proletari, triplicato il numero dei poveri, forzato all’emigrazione oltre un milione e mezzo di disoccupati/e e sottoccupati/e.
E ora? Ora l’“imperativo assoluto” (formula di Draghi) resta più che mai quello della ripresa dell’accumulazione dei profitti. La sua attuazione passa per il rilancio della produzione, della produttività e della redditività delle imprese. Dopo una partenza di necessità cauta, il governo reale ha impresso un’accelerazione alle sue decisioni. Per governo reale intendo il nocciolo duro dell’esecutivo, il suo direttorio, composto dal capo dell’esecutivo, dai ministri dell’economia (Franco), della transizione ecologica (Cingolani), per l’innovazione tecnologia e la transizione digitale (Colao), per le infrastrutture e i trasporti (Giovannini), tutti ministri “tecnici” estranei al parlamento, affiancati dal primo consigliere economico del premier (Giavazzi, ultra-liberista) e dal ministro dello sviluppo economico, il leghista Giorgetti – gente che parla poco e decide tutto (o quasi), preferendo lasciare ai capi dei partiti di maggioranza (Pd, M5S, Lega, Forza Italia, etc.) e di opposizione (Fratelli d’Italia della Meloni, sodale di Orban) la quotidiana recita davanti agli elettori-“sovrani” da catturare e raggirare.
L’accelerazione delle decisioni ha portato anzitutto al varo di un Pnrr che afferma con nettezza le priorità capitalistiche. In testa ci sono la “transizione verde” – formula quanto mai ingannevole; la “transizione digitale”; la riorganizzazione dell’istruzione secondo il massimo di subordinazione delle scuole superiori e delle università alle richieste delle imprese – queste tre “missioni” assorbono oltre 106 miliardi di euro su un totale di 191. In coda, le voci “sanità” e “coesione sociale e territoriale” (in totale 26,8 miliardi) che sono, ma solo in parte, voci di spesa sociale. Alla voce sanità, ad esempio, il più cospicuo capitolo di spesa è relativo all’aggiornamento tecnologico e digitale degli ospedali, nel quadro dell’indiscussa riconferma di quella struttura sanitaria centrata sugli ospedali che ha dato una prova disastrosa di sé nel corso di questa pandemia. E non c’è una parola sulla prevenzione delle patologie, tanto meno sulla prevenzione delle malattie e degl’infortuni sui luoghi di lavoro, mentre si insiste sull’espansione della telemedicina.
Intanto è già arrivata la prima tranche dei finanziamenti europei (pari a 25 miliardi). Negli ambienti padronali c’è un’aria di festa, dacché tra sovvenzioni, incentivi fiscali, prestiti per investimenti materiali e immateriali e per l’internazionalizzazione, gran parte della somma finirà di corsa nelle casse di circa 90.000 imprese dei più diversi settori. E di corsa (dati i vincoli temporali posti dalla UE), è stata avviata anche la sequenza delle “riforme strutturali” a cui i finanziamenti europei sono subordinati. Le resistenze corporative, settoriali e sindacali (tra tutte, le più fiacche) non sembrano in grado di fermare la determinazione dell’esecutivo. Che ha già deliberato di fare nuove assunzioni nella pubblica amministrazione solo in forma di contratti a tempo determinato o di collaborazioni, e di subordinare il rinnovo del contratto nazionale (scaduto da oltre 9 anni) al “raggiungimento degli obiettivi” di produttività. Che è deciso ad abbattere qualunque limite alla pratica devastante degli appalti e dei sub-appalti, già scandalosamente dilagata in Italia negli ultimi vent’anni. Che ha tagliato i tempi dei processi per “attrarre più investimenti esteri” (motivetto manageriale della ministra della giustizia Cartabia)[5]. Che si appresta a nuovi tagli fiscali a favore delle imprese, e a ridurre i controlli statali sul loro operato. Insomma il governo, anzi: lo stato come macchina all’integrale servizio dell’accumulazione di capitale, come stato dei capitalisti che mette fine allo “sciopero degli investimenti” privati ponendo a disposizione di chi vuole propri mezzi, un ruolo rivendicato da Draghi con orgoglio:
«La transizione energetica, la consapevolezza dell’importanza della ricerca e il percorso che porterà le generazioni future verso gli obiettivi del 2030 e del 2050 attribuiscono allo stato un ruolo attivo che è cruciale. Non solo nella costruzione di infrastrutture chiave nella ricerca e nello sviluppo. Ma soprattutto nel catalizzare gli investimenti privati nelle aree di priorità. Dando fiducia. Semplificando le procedure. Aiutando le imprese a gestire il rischio in aree nuove […]. Per l’Italia questo è un momento favorevole. Le certezze fornite dall’Europa e dalle scelte del governo, la capacità di superare alcune di quelle che erano considerate barriere identitarie da parte della politica, l’abbondanza dei mezzi finanziari pubblici e privati sono circostanze eccezionali per le imprese e le famiglie che investiranno capitali e risparmi in tecnologia, formazione, modernizzazione.»[6]
Lo stato dall’inizio della crisi, sottolinea Draghi, ha “esteso alle imprese garanzie per 208 miliardi di euro e sostegni per quasi 100 miliardi”. Ed è questo il “debito buono”[7]che è stato fatto, con il Conte-bis e il suo governo, grazie alla convergenza di quasi tutte le forze politiche istituzionali. Con l’enorme espansione del debito pubblico i due ultimi governi sono riusciti a tenere a cuccia l’abnorme (rispetto agli standard europei) pletora di piccoli imprenditori, commercianti, liberi professionisti, artigiani, partite Iva, disinnescando le loro proteste e i loro mugugni con generose dazioni di fondi statali a debito. Una vera e propria spina nel fianco di ogni governo borghese in Italia, e tuttavia l’altro ieri (quando era concentrata nelle campagne) e oggi (quando è quasi del tutto urbana) alleata decisiva del grande capitale nel controllare, intimidire, deviare, dividere la massa dei proletari e dei salariati. A più riprese negli scorsi mesi questo o quel settore dei ceti medi accumulativi si è fatto vedere anche nelle piazze, per ritirarsi in breve una volta ricevuti sussidi e indennizzi che in certi casi hanno perfino superato i loro guadagni medi degli anni pre-2020, grazie anche ad una spettacolare organizzazione di truffe (specie sulla cassa integrazione covid). Altro “debito buono” che però, a differenza di quello a sostegno di imprese transnazionali e delle banche, non potrà durare in eterno. Perché uno sfoltimento di questa giungla è essenziale, indispensabile alla crescita della competitività dell’intero sistema.
Gasato dall’ottimismo che si respira nei palazzi romani, il governatore di Bankitalia Visco ha chiesto di “completare l’architettura economica europea” trasformando l’emissione di eurobond da eccezionale in permanente, ed espandendo fortemente il bilancio europeo, il che richiede di arrivare ad una politica fiscale comune dell’UE[8] – è la prospettiva che Draghi caldeggia da un po’. E dagli ambienti governativi si fa trapelare qualcos’altro che va nella stessa direzione – un’Europa più forte e coesa – su un altro piano: l’impegno del capo del governo italiano per la costruzione accelerata di un effettivo esercito comune europeo. La storica batosta che pure l’Italia ha patìto in Afghanistan, dove ha impiegato il più grande contingente militare all’estero dal 1945 – in totale in 20 anni sono turnati circa 50.000 soldati -, ha portato a questo… buon consiglio. Si profila così un altro corposo stock di “debito buono” da varare, dal momento che gli Stati Uniti non danno più garanzie come “gendarmi dell’Occidente nel mondo”. Un anticipo c’è già nel bilancio statale per il 2021, dove le spese militari salgono di un notevole 8,1% rispetto al 2020. L’Italia post-fascista non ha mai rinunciato al posto al sole preteso da Mussolini, e non lo farà certo con questo ambizioso governo. Che ci riesca o no, il suo perimetro di influenza “naturale” include la Libia, l’Africa settentrionale e i Balcani in funzione anti-turca e anti-russa, e su scala globale anti-cinese. E va al di là nella misura in cui, dopo la Brexit, Roma prova a proporsi come partner minore della grandeur eternamente militarista dei cugini francesi. L’industria bellica italiana, dopotutto, resta uno dei rami più fiorenti dell’industria italiana, povera in elettronica, in chimica e ormai nell’automotive, ma sempre gagliarda nella produzione industrializzata di morte.
La gestione della pandemia dell’esecutivo in carica ha qualcosa a che vedere con ciò. Infatti Draghi&Co. hanno scelto come coordinatore della campagna di vaccinazione un generale degli alpini, che da mesi se ne va in giro a “fare la guerra”… al virus in mimetica. In realtà l’Italia è ai primi posti in Europa e nel mondo per tasso di letalità del virus perché la gestione della pandemia in Italia da parte degli ultimi due governi è stata, nel complesso, disastrosa, se non criminale. Dopo aver lasciato dilagare il virus per mesi negli ospedali, nelle residenze per anziani, e soprattutto nelle fabbriche e nei luoghi di lavori per non intralciare la produzione di profitti, si è puntato tutto prima su una serie di regole (alcune assurde) di “distanziamento sociale”, e in seguito sui vaccini. Questo modo di procedere caotico è servito comunque per realizzare un esperimento di disciplinamento sociale ch’è riuscito finora a occultare le schiaccianti responsabilità di sistema attraverso una serie di battute di caccia all’untore di turno, che oggi si catalizzano, come in Francia, contro i no-green-pass. E con l’aiuto delle folli teorie complottiste, ha creato nella classe lavoratrice (e nella cittadinanza) un antagonismo largamente fasullo tra vaccinati e non vaccinati. Il Conte-bis e il Draghi-1 hanno seminato paure a tutto spiano, e imposto prassi di distanziamento fisico (divenuto nella lingua di stato distanziamento sociale), normalizzato il lavoro a distanza e la didattica a distanza, generando un’ulteriore atomizzazione della vita sociale utile solo alla classe dominante.
Il quadro dell’operato repressivo dell’esecutivo di “unità nazionale” in carica sarebbe incompleto se si tacesse il fatto che esso ha applicato i decreti-Salvini attaccando in modo sistematico i picchetti dei facchini della logistica organizzati con il SI Cobas, e ha consentito alle nuove agenzie Pinkerton operanti in Italia e a singoli padroni di ricorrere liberamente alla violenza contro gli scioperanti (per lo più immigrati) fino a che, il 18 giugno scorso, davanti ad un supermercato Lidl in provincia di Novara, non c’è scappato il morto annunciato – Adil Belakhdim. Dopo pochi giorni di ipocrita contrizione istituzionale, le cose sono tornate al punto di prima: non c’è picchetto operaio nella logistica senza uno spropositato schieramento di polizia. E non c’è manifestazione non autorizzata di operai o di disoccupati senza che arrivi, a stretto giro di posta, la denuncia individuale o collettiva. Ecco perché, con sodisfazione dei padroni, nell’esecutivo si discute di abolizione o di modifica della legge sul reddito di cittadinanza o di quota 100, ma i decreti-Salvini sono e resteranno intoccabili.
Per le ragioni dette finora, l’avvento al governo di Draghi appare, al momento, come l’inizio di un’era. Se sarà così oppure no e che caratteristiche avrà questa era, dipende oltre che dal groviglio di incognite, contraddizioni, tensioni a livello internazionale, dalla riaccensione dello scontro di classe in Italia.
(continua)
L’ottimismo di regime oggi imperante in Italia (“una congiuntura astrale irripetibile”, per il ministro Brunetta) ha il suo rovescio nel massacro sociale in corso, iniziato con lo scoppio della pandemia e della crisi economica. Nel periodo del picco pandemico la massa totale dei salari si è ridotta del 7,9%, la cassa integrazione ha colpito quasi 6 milioni di salariati, sono stati distrutti 945.000 posti di lavoro precari, coperti in larga maggioranza da donne, in molti casi costrette ad auto-licenziarsi per l’impossibilità di conciliare lavoro e cura dei figli rimasti in casa a seguire la scuola a distanza, l’indice delle disuguaglianze Gini è schizzato dal 34 al 41%[9]. Negli ultimissimi mesi gli occupati, per 4/5 a termine, sono cresciuti di circa 400.000 unità tra i salariati (invece tra gli autonomi il calo è proseguito), ma il punto è: aquali condizioni di salario, orario, sicurezza sul lavoro, diritti? A condizioni, nella media, decisamente peggiori delle precedenti.
Cosa abbia prodotto in questo campo l’uso capitalistico della (altrettanto capitalistica) pandemia/sindemia è stato ben documentato in un’indagine relativa al comparto del turismo, che rappresenta il 13% del pil italiano, ed è stato tra i più colpiti dalla crisi[10]: il passaggio dalla precarizzazione all’iper-precarizzazione, dalla flessibilità all’iper-flessibilità, attraverso il ricorso sistematico alle “forme contrattuali più deteriori: lavoro esternalizzato, contratti di somministrazione, lavoro a chiamata e perfino lavoro gratuito”. E poi stage, voucher, lavoro intermittente, orari settimanali anche di 50-60 ore, e salari pari, talvolta, a poco più di un’elemosina, da cui sottrarre spesso le spese di vitto e alloggio un tempo garantite da molte imprese ai propri dipendenti. Il quadro diventa ancora più fosco se si tiene conto che le imprese del settore hanno fatto un ricorso metodico al contratto collettivo nazionale multiservizi (tra i peggiori) anziché a quello del turismo; per non parlare dell’area del lavoro totalmente “al nero”, che è pari in una regione come la Campania al 50% del totale.
Questo autentico scempio della condizione proletaria, che ha conosciuto un’ulteriore accelerazione nell’ultimo biennio, viene da lontano: da 25 anni di leggi e leggine finalizzate a precarizzare i rapporti di lavoro che hanno devastato il diritto del lavoro nato dalle lotte operaie degli anni ‘60 e ‘70 – il primo passo è avvenuto nel 1997 con il primo governo Prodi (di centro-sinistra)[11]. Esistono oggi oltre 40 diversi contratti di lavoro che sempre più spesso coesistono negli stessi luoghi di lavoro provocando la diffusa frammentazione istituzionalizzata della condizione degli operai, dei proletari, dei salariati. A coronamento di questo processo nel marzo 2015 il rapporto di lavoro a tempo indeterminato è stato abolito dal governo Renzi, e sostituito dal “contratto a tutele crescenti”, che ha sancito la quasi incondizionata libertà di licenziare delle imprese. Se ciò non bastasse, negli ultimi dieci anni il numero già insignificante degli ispettori del lavoro è stato segato del 30% (da 5.500 a 4.000), e la già carente attività ispettiva svolta da Inail e Inps è stata disorganizzata, ponendola sotto il controllo di una struttura del Ministero del lavoro che è priva delle banche dati amministrative, fondamentali per i controlli. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se quando viene fatto eccezionalmente un controllo serio, risulti irregolare il 100% delle aziende – come è avvenuto di recente per un’ispezione tra Milano e Prato[12]. Sui giornali compare un trafiletto per un solo giorno, poi tutto torna come prima, con forme in espansione di soffocante super-sfruttamento, che nei casi limite prevede 7 giorni di lavoro alla settimana per 12 e perfino 14 ore al giorno. Quando poi gli operai si ribellano, come alla Texprint di Prato, la polizia provvede a colpirli con multe, denunce, manganelli, lasciando mano libera ai padroni (in questo caso cinesi) di aggredire il picchetto operaio con mattoni e mazze[13]. E Prato, afferma con orgoglio nazionalista-localista un depliant istituzionale, non è un luogo qualsiasi: è “uno dei più grandi distretti industriali in Italia, il più grande centro tessile a livello europeo e uno dei poli più importanti a livello mondiale per le produzioni di filati e tessuti di lana”…
Per quanto l’Italia abbia ormai perso buona parte della grande industria di un tempo, sarebbe una sciocca semplificazione presentare l’intera struttura industriale italiana come una Prato generalizzata. Perché accanto ad alcune grandi imprese storiche (Eni, Enel) e ad altre rampanti (Luxottica, Prysmian, Ferrero, Techint, etc.), esiste un forte tessuto di medie e piccole aziende metalmeccaniche, della moda, dell’arredamento, farmaceutiche, specializzate in produzioni di nicchia per il mercato mondiale (la Ferrari ne è il prototipo), che richiedono manodopera specializzata e conservano, per i dipendenti da lunga data, vecchie garanzie contrattuali, pur in contesti di pressione produttiva intensificata. Ma la linea di tendenza sempre più consolidata nel tempo è all’estensione continua di condizioni di lavoro di tipo “pratese”, anche nelle industrie che fanno capo allo stato. Valga l’esempio della Fincantieri, che nei cantieri di Monfalcone, Marghera, Ancona, è arrivata ad avere un rapporto di 1:4, 1:5 tra dipendenti diretti (con numeri sempre più ristretti di operai) e dipendenti di appalti, sub-appalti, sub-sub-appalti in larga prevalenza operai immigrati incatenati in rapporti di lavoro che, di quando in quando, perfino la menefreghista magistratura italiana ha dovuto definire come di neo-schiavismo connotato in senso razzista. Del resto, è esplosa proprio in questi giorni la protesta dei lavoratori Alitalia (organizzati con i sindacati confederali, Usb e Cub) contro la nuova compagnia aerea di stato Ita, i cui vertici hanno la pretesa di non applicare ai propri dipendenti il contratto di settore, per abbattere del 30% i precedenti livelli salariali in quanto “compagnia low cost”, tagliando i posti di lavoro di 7-8.000 unità. “Ita è peggio del più becero dei padroni privati”, si è sfogato un sindacalista ultra-moderato spadellando una verità elementare rifiutata tutt’oggi dalla quasi totalità della sinistra politica e sindacale “radicale”: lo stato, lungi dall’essere super partes tra capitale e lavoro, si pone sempre più come stato capitalistico, stato dei capitalisti, essendo già da tempo il primo assuntore di lavoro precarizzato anche in quanto stato imprenditore. Lo è altrettanto nelle sue vesti di stato-cassa (con il fisco di classe) e di stato di polizia – alla sua funzione di stato demolitore del diritto del lavoro prodotto delle lotte operaie degli anni ‘60 e ‘70 abbiamo già accennato. L’ascesa ai vertici del governo e dello stato di alti funzionari del capitale finanziario quali Dini, Ciampi, Monti, Padoa-Schioppa, Passera, Saccomanni, Tarantola, ed oggi di Draghi, Franco, etc., o di potenti capitalisti quali Berlusconi, ne è stata la scoperta sanzione formale.
L’esecutivo Draghi eredita i risultati di questa interminabile offensiva capitalistica e statale contro la classe operaia e l’intero proletariato, e punta a trarne il massimo utile profittando dei poteri speciali disciplinari assunti in nome dell’emergenza pandemica, di un approfondimento dei processi di atomizzazione e “distanziamento” sociale, e di una sostanziosa massa di investimenti pubblici a debito. Appare al momento padrone del campo perché il livello di auto-attività, auto-organizzazione, autonomia della classe operaia è ai minimi storici, mentre il grado di subordinazione delle storiche organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil) alle priorità aziendali e nazionali è ai suoi massimi storici. Si è giunti a questo punto per effetto di una serie di radicali trasformazioni della divisione internazionale del lavoro, dell’organizzazione del lavoro, del contenuto del lavoro, del mercato del lavoro, dei partiti politici operaio-borghesi – che non posso qui prendere in esame -, e di un cambiamento altrettanto radicale dell’ideologia dei lavoratori, su cui dirò invece una parola.
Non credo che sia il caso di idealizzare l’operaio o il bracciante Pci degli anni ‘50 e ‘60 perché il loro modo di pensare era, nonostante tutto, imbevuto di nazionalismo, mediato dal resistenzialismo; la loro psicologia era strutturata, nonostante tutto, in modo gregario, attraverso il culto acritico del capo, fosse Stalin, Togliatti o altri; la loro visione della politica è stata via via conformata da una superstiziosa aderenza alla legalità democratica e alle elezioni; e la loro visione dei rapporti tra i sessi era più spesso prossima a quella del cattolicesimo tradizionale che a quella comunista. Ma, nonostante tali pesanti tare, quei proletari avevano un sentimento forte degli interessi unitari della classe lavoratrice, della propria personale dignità di produttori, del ruolo determinante della classe operaia nella società, e della necessità della lotta collettiva organizzata degli sfruttati per far valere contro i capitalisti i propri bisogni e diritti violati. Tutti elementi che è raro ritrovare oggi, almeno nella stessa intensità di un tempo, perfino nei proletari più attivi. È stata largamente sottovalutata la dimensione ideologica dell’attacco borghese che invece ha fatto penetrare a imprevista profondità l’individualismo, la svalutazione di sé dei proletari sia come classe che come singoli, l’attaccamento al valore delle merci, il sessismo, l’aziendalismo, tutti virus dotati di alto potere corrosivo del sentimento, della coscienza e dell’organizzazione di classe.
Negli ultimi dieci anni, come ha notato anche Fabrizio Burattini, un solo settore di classe si è mosso in controtendenza: il proletariato immigrato della logistica, ancora poco contaminato dalla deleteria ideologia dell’autolimitazione delle lotte e dal sentimento di rassegnazione che le burocrazie sindacali strumentalizzano per siglare e legittimare accordi di svendita con le associazioni padronali o le singole aziende[14]. Queste decine di migliaia di facchini sono stati capaci di “lotte vere, fatte di scioperi veri, di veri coordinamenti tra le diverse realtà, con piattaforme di lotta vere e non semplicemente esibite per poi dimenticarle. Lotte che hanno saputo spostare, in alcune situazioni, i rapporti di forza a favore degli operai della logistica (e non solo), conseguendo in diversi casi dei significativi miglioramenti della condizione lavorativa e contrattuali”. Al di là dei miglioramenti materiali per loro natura sempre transitori, come si sta vedendo con l’avvio di ristrutturazioni aziendali anche nella logistica, e sempre tenendo conto che si tratta di una quota decisamente minoritaria degli addetti alla logistica (tra 1 e 2 milioni, a seconda dei criteri di calcolo), l’elemento nuovo di maggiore importanza di questo ciclo di lotte è “qualitativo”: siè trattato, si tratta, di “lotte realmente auto-organizzate dai lavoratori in prima persona che hanno dato vita a un’esperienza di nuovo sindacalismo militante. Che si è differenziata dal sindacalismo di base più tradizionale in quanto ha combinato l’auto-organizzazione, la partecipazione diretta dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolti, e l’organizzazione, che è comunque vitale per le lotte auto-organizzate, grazie all’apporto di militanti politici internazionalisti di lungo corso. E tanto più si è differenziata dalla pratica di Cgil-Cisl-Uil che passivizza i lavoratori e gli fa introiettare la logica aziendale e di mercato, trasformandoli in disciplinate macchine da lavoro e in clienti e utenti dei loro servizi”[15].
La spinta di questa esperienza di lotta dei proletari della logistica ha portato alla nascita dell’Assemblea delle lavoratrici e lavoratori combattivi che ha l’ambizione di unire in un solo fronte di lotta contro i padroni e il governo le (poche) resistenze nate nelle fabbriche e nella società, e alla proclamazione di uno sciopero generale dell’intero arcipelago del sindacalismo “di base” per il prossimo 11 ottobre. Sono solo i primissimi passi lungo il cammino della rinascita del movimento proletario per ciò che concerne il piano delle lotte immediate. Ma sono già messi in discussione da un lato da un’accanita repressione padronale/statale fatta di licenziamenti politici, arresti, fogli di via, centinaia di denunce, aggressioni ai picchetti, fino all’uccisione nel giugno scorso di Adil Belkhdim nel corso della lotta contro 300 licenziamenti operati a Piacenza dal colosso statunitense FedEx; e dall’altro anche da un certo appagamento per i notevoli miglioramenti materiali ottenuti (la combattività non è un “marchio di fabbrica” a prescindere…). Lo sono soprattutto dalla lentezza e dai limiti politici con cui si stanno mettendo in moto i settori di classe colpiti dai licenziamenti (per non parlare degli altri). La reazione più significativa è venuta dal collettivo operaio della Gkn, fabbrica di componenti auto di Firenze di proprietà del fondo inglese Melrose, chiusa per delocalizzazione con il licenziamento di 500 e più operai. Ma anche le molto partecipate iniziative di questo collettivo operaio interno alla Fiom sono rimaste chiuse in una dimensione aziendale, perfino territorialista[16], senza neppure tentare un collegamento con gli operai della Whirpool di Napoli, della Embraco di Torino, della Gianetti ruote dell’area di Milano, dei diversi stabilimenti Stellantis a rischio di licenziamenti, benché siano tutte realtà interne al settore metalmeccanico, spesso allo stesso ramo della produzione auto, e allo stesso ambito sindacale. Altrettanto deboli sono state le proteste dei riders, capaci di dare vita ad un giorno di sciopero nazionale (in marzo) che ha coinvolto una trentina di città, e però incapaci finora di generare una vera e propria organizzazione trasversale alle diverse imprese e città. Anche lo sciopero in Amazon, nello scorso marzo, è stato un segno di vitalità, stranamente ingigantito nei media che stanno dando in questi giorni grande rilievo alla recente firma di un protocollo tra azienda e sindacati confederali in cui l’azienda s’impegna a “costruire un metodo di confronto con il sindacato” – impegno assai generico, che stranamente coincide con una campagna di spot aziendali in cui alcuni lavoratori di Amazon (spesso immigrati) si dicono estremamente contenti di “essere Amazon”… come a suggerire: a che serve il sindacato?
Insomma, ad oggi, l’entità delle forze in campo per contrastare in modo efficace l’attacco del governo Draghi, quanto mai professionale nel graduarlo e nel lanciare ami alla forza-lavoro più dotata di competenze informatiche di ultima generazione[17], di una Confidustria arrembante[18] e di un’Unione europea che invoca nuove riforme anti-operaie delle pensioni, è decisamente modesta. Ma la spinta di lotta che dopo anni ha portato ad uno sciopero unitario di tutto il sindacalismo di base esprime una necessità che potrà farsi strada davanti alle nuove scosse telluriche che questo presunto boom porterà con sé. Non penso tanto alla stabilizzazione dell’unità d’azione degli organismi sindacali “di base”, che mi pare assai difficile, dal momento che ci sono, dopotutto, due differenti sindacalismi “di base”: l’uno nato negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, composto da lavoratori italiani, incardinato più nel pubblico impiego che nei luoghi di produzione, convinto che si possa rieditare il vecchio welfare state, magari se si fa ricorso ad un po’ di “sovranismo” in più contro la perfida Unione europea; l’altro, nato dopo la crisi del 2008, incardinato nella logistica e in altri luoghi di produzione, composto da un proletariato multinazionale super-sfruttato e segnato da un’intensità di lotte ignota al precedente sindacalismo (con l’eccezione, forse, dello Slai-Cobas). Penso, piuttosto, alla proiezione dei protagonisti delle lotte della logistica e dell’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi verso la massa degli operai e dei salariati iscritti ai tre sindacati confederali e alla massa ancora più grande ormai dei giovani (e meno giovani) precari non sindacalizzati – alla prospettiva che questa proiezione apre, con una piattaforma di rivendicazioni unitarie che necessita, ancora, di quadri proletari e militanti capaci di farla vivere e ascoltare su di una scala sempre più vasta. Per la prima volta da non ricordo quanti anni (o per la prima volta in “assoluto”?) nel giugno scorso i delegati Fiom (e non solo) di decine di fabbriche metalmeccaniche hanno proclamato scioperi per protestare contro l’uccisione di Adil Belakhdim e la repressione contro le lotte del SI Cobas… non si tratta, perciò, di un semplice sogno.
Che la strada sia lunga e impervia è certo. Basta pensare allo stato delle cose sul piano dell’opposizione politica organizzata su una linea di classe – oggi inesistente, e preda nella gran parte delle sue schegge di quanto mai illusori piani di trasformazione di un capitalismo la cui non-riformabilità è illustrata da montagne di fatti storici e contemporanei, e le cui “emergenze” si moltiplicano e aggrovigliano caoticamente le une sulle altre (cominciando a mettere in forse anche il “miracolo cinese”). Se volessi redigere un completo cahier de doléances, dovrei chiedermi in quale doline carsiche siano finite le insorgenze femministe e giovanili-ambientaliste degli scorsi anni[19]; e a che punto è la rinascita del marxismo rivoluzionario in un paese che un secolo fa partecipò in modo così vivo alla vicenda dell’Internazionale comunista, e che anche nel secondo dopoguerra è stato terra di originali contributi di critica comunista del capitalismo. Bando alle malinconie, e agli sguardi retrospettivi fine a sé stessi, però. Per fortuna, lo scontro di classe in Italia dipende dagli svolgimenti internazionali dello scontro di classe molto più di quanto non si creda. E se poi potremo darvi buone nuove da quaggiù, tanto meglio.
Pietro Basso è membro della redazione della rivista “Il Cuneo rosso” e del blog “Il Pungolo rosso”, https://pungolorosso.wordpress.com /tag/cuneo-rosso/. Una versione in francese di questo articolo è stata pubblicata su alencontre.org. il 25/09/2021.
[1] Il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti lateranensi (il concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato italiano), papa Pio XI definì Mussolini “l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”.
[2] Mi riferisco a due provvedimenti varati dal Conte-1: il reddito e la pensione di cittadinanza per circa 3 milioni di persone in povertà (costato 19 miliardi in tre anni), e “quota 100” per il pensionamento anticipato per meno di 300.000 lavoratori dipendenti (costata circa 10 miliardi in tre anni, di cui hanno beneficiato per lo più – anziché operai dediti a lavori usuranti, come era nelle promesse – dipendenti pubblici dagli stipendi medi o medio-alti), e al taglio del cuneo fiscale deciso dal Conte-2, che ha aggiunto 20-40 euro mensili ai salari e stipendi al di sotto dei 40.000 euro, per una spesa di circa 3 miliardi annui. Per avere delle unità di misura con cui comparare queste cifre, basta dire che ai padroni e padroncini del settore turistico-alberghiero sono andati finora, in un anno e mezzo, più di 20 miliardi; e che nel solo 2020 lo stato italiano ha pagato ai suoi creditori oltre 60 miliardi di euro di interessi, mentre nel periodo 2000-2019 i miliardi di euro di interessi passivi sono stati 1.434. La spesa pubblica totale, per il 2021, è di 812 miliardi di euro.
[3] Bankitalia è il centro di potere che dal 1948 ha prestato allo stato figure di primissimo piano quali Luigi Einuadi, Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Draghi, e altre figure meno potenti, ma egualmente potenti, quali R. Ossola, M. Sarcinelli, F. Saccomanni, F. Padoa Schioppa.
[4] I testi di questi discorsi sono ora raccolti in Ripartire da Draghi, un volumetto pubblicato pochi mesi fa dai suoi scatenati fan de “Il foglio”.
[5] “Al dumping fiscale di Irlanda, Olanda e Lussemburgo il nostro governo risponde italianamente col dumping criminale” (questo il caustico commento dell’economista E. Screpanti). Si può dire, in realtà, che questo governo punti ad una pace “definitiva” con le bande/imprese della criminalità organizzata, che è stata preannunciata da Draghi con il silenzio sulla mafia nel suo discorso di insediamento – cosa quanto mai inusuale perché nella retorica istituzionale la “lotta alla mafia” è una giaculatoria obbligata nei discorsi di insediamento dei capi del governo.
[6] Cfr. https://www.governo.it/it/articolo/il-presidente-draghi-all-accademia-dei-lincei/17308 (i corsivi sono miei).
[7] La distinzione tra debito “buono” e debito “cattivo” Draghi l’ha introdotta nel discorso di apertura del 41° Meeting del movimento integralista/affarista cattolico Comunione e liberazione, tenuto nell’agosto 2020.
[8] Cfr. https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-governatore/integov2021/cf_2020.pdf
[9] Il Global Wealth Report 2021 di Credit Suisse documenta che in Italia, a fine 2020, i milionari in dollari erano 1.480.000, in aumento di 187.000 rispetto al 2019, e quelli con un patrimonio superiore ai 50 milioni di dollari erano 3.560 (785 in più dell’anno prima). Nello stesso arco di tempo i poveri in condizioni di povertà assoluta erano cresciuti del 20%, toccando i 5,6 milioni.
[10] Il turismo di chi ci lavora, a cura di C. Caravella e M. Cerimele, maggio 2021 – https://centroriformastato.it/il-turismo-di-chi-ci-lavora/ Una inchiesta fatta bene, ma con conclusioni politico-sindacali desolanti, incardinate nella logica del “meno peggio” che di norma spiana la strada al peggio.
[11] Mi riferisco al “pacchetto Treu”, approvato nel giugno 1997, che prometteva di “svecchiare” il mercato del lavoro italiano abbattendone le “rigidità” per accrescerne la “flessibilità”, e apriva così ad un processo di invecchiamento nella precarietà di generazioni di proletari/e nel tentativo di ringiovanire il capitale.
[12] Cfr. “Il fatto quotidiano”, 12 agosto 2021. Nell’anno 2020 è risultato irregolare il 79,3% delle imprese controllate.
[13] Informazioni su questa lotta, che dura da mesi, si possono trovare sul sito del SI Cobas http://sicobas.org/ Proprio mentre scrivo, arriva la notizia di un’operazione dei carabinieri, sempre a Prato, che ha ‘scoperto’ alla Venus Ark, una ditta di confezioni di proprietà di un cinese, decine di richiedenti asilo costretti a lavorare 7 giorni su 7 anche per 14 ore, con un salario da 2 a 3,5 euro l’ora – in questa fabbrica il 78% dei dipendenti era priva di contratto.
[14] https://alencontre.org/europe/italie/une-restauration-sans-revolution.html
[15] Cfr. SI Cobas, Carne da macello, Red Star Press, Roma, 2017, pp. 7-8.
[16] Sul sito di questo collettivo c’è una presentazione della fabbrica e dei lavoratori imbarazzante, che parte con una stornellata dolciastra alla città di Firenze…
[17] In un successivo articolo vorrei analizzare l’impatto degli investimenti statali da Pnrr sulla struttura dell’industria italiana e sulla composizione della relativa forza-lavoro – allo stato, mi pare prematuro.
[18] Sarebbe anche da ragionare sugli effetti sociali della postura da “mecenati” assunta da alcuni grandi imprenditori italiani, che si sono esposti alla pubblica ammirazione con donazioni alle strutture sanitarie ai tempi del Covid, con premi di produzione “ottriati”, dati cioè senza consultazione con il sindacato, e – da ultimo – con “doni” ai propri dipendenti in cassa integrazione – è di ieri, 17 settembre, la notizia che il petroliere Moratti ha “donato” (restituito) ai propri dipendenti 1,5 milioni di euro in considerazione delle loro difficoltà materiali.
[19] Per un esame meno incompleto della attuale situazione italiana, meriterebbe anche di parlare delle recenti proteste no-vax, no-green pass, della loro doppia matrice sociale, dell’ideologia che le attraversa, delle paure diffuse che esprimono, e anche delle (più o meno rozze) critiche dello status quo che contengono. Ma non mi pare il caso di farlo qui in maniera sincopata.