Dopo una lunghissima e tormentata operazione politica (puntigliosamente ricostruita dal giornalista Marco Travaglio nel suo libro “I segreti del Conticidio. Il “Golpe buono” e il “Governo dei migliori”), la classe dominante italiana è riuscita ad arrestare (almeno momentaneamente) la situazione del tutto anomala che si era venuta a creare nel marzo 2018, quando tutti i partiti tradizionalmente espressione del dominio borghese avevano registrato una pesantissima sconfitta elettorale. A trionfare nelle votazioni per la camera e per il Senato erano stati il Movimento 5 Stelle (M5S, con il 32,68% dei voti espressi) e, molto più limitatamente, la Lega di Matteo Salvini (con il 17,35%).
Il governo giallo verde
Il governo che ne era scaturito (coalizione di M5S e Lega guidato da uno sconosciuto neofita della politica, Giuseppe Conte, il cosiddetto governo “giallo-verde”, i colori dei due partner di maggioranza) appariva immediatamente alla classe dominante come un elemento del tutto incontrollabile, nonostante le amplissime rassicurazioni di voler rispettare tutte le regole istituzionali fornite da tutti gli esponenti di quella singolarissima coalizione. Il governo volle assumere alcune misure ritenute simboliche per l’elettorato che lo aveva portato al potere, un elettorato estremamente composito, fatto di strati popolari devastati dalla crisi, disgustati dalla corruzione del mondo politico di ogni colore, ma anche affascinati da un incipiente razzismo e dall’intolleranza verso tutto ciò che è “diverso”.
Così si sono approvati decreti e leggi che rendevano più dura la persecuzione giudiziaria della corruzione di tanti white collar, che rendevano più difficile l’utilizzazione abusiva dei contratti precari da parte delle imprese, che consentivano, anche se molto limitatamente, il pensionamento prima dei 67 anni, che concedevano, pur se con molti vincoli, un reddito minimale mediamente di 570 di euro alle persone sotto la soglia di povertà. Parallelamente, però, si perseguitavano le ONG che salvano nel mare Mediterraneo i migranti naufraghi, si chiudevano i porti contro gli sbarchi dei “clandestini”, si approvavano misure liberticide contro il diritto di manifestazione.
L’ambiguità del programma del Movimento 5 Stelle e il prevalere mediatico dell’ala destra del governo, condotta da Matteo Salvini, facevano sì che, alle elezioni europee del 2019, le proporzioni tra i due partner di governo si ribaltassero sul piano elettorale (nel parlamento italiano, ovviamente, le proporzioni restavano quelle del 2018), spingendo la Lega al 34,26% e abbassando il M5S al 17,06%. La Lega scelse dunque di far saltare il quadro, sperando nelle elezioni anticipate e dunque in un molto probabile successo della coalizione di destra, composta dalla Lega stessa, da Fratelli d’Italia (il partito diretto erede dei neofascisti del Movimento sociale italiano) e da quello che restava del partito di Berlusconi, Forza Italia, coalizione che, visti i numeri, non poteva che essere guidata dallo stesso Salvini.
Ma la grande borghesia ha ritenuto di non voler sperimentare questo “salto nel vuoto”. Già la lunga esperienza di governo di Berlusconi non aveva prodotto per la classe dominante i risultati sperati. Il governo si era concentrato soprattutto su misure necessarie al “cavaliere” e alle sue imprese, la vita privata e i “vizi” del capo del governo erano sempre sulle prime pagine dei giornali, le sue modalità di gestione della cosa pubblica avevano dato spunto a molte nuove fiammate di movimento nella società e avevano rilanciato un atteggiamento di opposizione dei sindacati, in particolare della Cgil, mentre la sua azione di governo si era mostrata del tutto incapace di gestire la crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2007.
Il governo giallo rosso
Così, il PD, che finalmente era riuscito a liberarsi dell’avventurismo di Renzi, spinto da tutta la grande stampa, decise di accettare la proposta di Giuseppe Conte e del M5S di creare un nuovo governo insieme (il governo “giallo-rosa”), scongiurando dunque il pericolo di elezioni anticipate dall’esito imprevedibile.
Il governo “Conte 2” si insedia il 5 settembre 2019 e a metà febbraio 2020 appaiono in Italia i primi contagiati dal coronavirus. Dunque, la sua azione riesce a caratterizzarsi sostanzialmente solo su due fronti, per quanto entrambi cruciali.
Naturalmente, come tutti i governi occidentali si trova politicamente e strutturalmente impreparato a fronteggiare una calamità così imprevista. Per di più la sanità pubblica italiana è stata devastata da due decenni di controriforme (privatizzazioni e aziendalizzazioni) e il sistema sanitario nazionale è stato suddiviso in 20 sistemi sanitari regionali che sono stati il terreno di caccia delle clientele politiche (solo a titolo di esempio, ricordiamo che il presidente della regione Lombardia, la regione più popolosa d’Italia, è finito in prigione per corruzione nella sanità regionale). Dunque, gran parte della sua azione è finalizzata ad arginare la diffusione del contagio, che in Italia si presenta prima che in qualunque altro paese occidentale.
Dall’altro lato, il premier Giuseppe Conte riesce a contrattare con l’Unione europea di far destinare all’Italia 200 miliardi di euro, la fetta più grande dei 2.000 miliardi del NextGenerationEU. Il governo Conte 2 mette a frutto con la Commissione UE l’atteggiamento marcatamente “europeista” che lo differenzia dal governo precedente, condizionato dall’orientamento “sovranista” della Lega (ma già in precedenza il M5S al parlamento europeo avevano sostenuto la candidatura di Ursula von der Leyen per la presidenza della Commissione).
Il 2020 trascorre dunque all’insegna lugubre della pandemia, ma la pressione della classe dominante comincia a farsi potente. Si moltiplicano le iniziative contro le limitazioni decretate per far fronte alla pandemia. Il lockdown parziale di marzo-maggio 2020 (ottenuto anche grazie ad una significativa e semi spontanea mobilitazione operaia, e che aveva imposto che rimanessero aperte solo le attività ritenute “essenziali”) aveva riscosso una valanga di accuse da parte di tutte le associazioni del padronato. Nell’autunno, infatti, nonostante la pesante seconda ondata dei contagi, non viene affatto replicato e ci si limita alla chiusura di attività economicamente più marginali (bar, ristoranti, palestre…). Ma la piccola borghesia titolare di queste attività insorge, con il sostegno della destra e dei neofascisti. Tutte le TV e tutta la stampa (salvo il “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio e il “Manifesto”) cominciano a spingere pesantemente per la conclusione dell’esperienza di governo di Giuseppe Conte.
Il governo di alto profilo
Alla fine dell’anno, dopo una lunga e oscura crisi di governo, provocata dall’abbandono della maggioranza da parte di Renzi e del suo piccolo gruppo di scissionisti dal PD, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, fa appello a tutti i partiti del parlamento per formare un “governo di alto profilo” (evidentemente tacciando esplicitamente i governi precedenti di non aver avuto un simile profilo) e chiama a presiederlo Mario Draghi, ex massimo dirigente del ministero dell’Economia, ex Managing Director della banca Goldman Sachs, ex governatore della Banca d’Italia e ex presidente della Banca centrale dell’Unione europea, dunque il personaggio che, almeno in Italia, meglio rappresenta le scelte economiche e politiche antipopolari ed antisociali che hanno devastato l’Italia e gran parte del mondo.
Draghi, durante tutta la sua vita, è stato uno dei più lucidi portabandiera delle politiche di precarizzazione del lavoro, di tagli e privatizzazione dei servizi, di libera azione per le società finanziarie: ha dunque un curriculum capace di garantire a fondo gli interessi di ampi settori delle classi dominanti. Ha avuto un ruolo protagonista nell’euforia privatizzatrice degli anni 90, che ha regalato a imprenditori senza scrupoli le autostrade, la rete telefonica, quella elettrica e l’impresa petrolifera di stato, la compagnia aerea di bandiera, e numerose banche in precedenza pubbliche.
Peraltro, Draghi fu nel 2011 l’autore della lettera (poi firmata assieme a Jean Claude Trichet) che dalla BCE “consigliava” il governo italiano di “aumentare la concorrenza nei servizi, attraverso privatizzazioni su larga scala, riformare il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa basati sulle esigenze specifiche delle aziende, rivedere le norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, ridurre la spesa pensionistica e gli stipendi del pubblico impiego, assecondare le esigenze delle imprese, riformare i sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione, rendere più stringenti le regole di bilancio, anche attraverso opportune riforme costituzionali”.
Puntualmente, i governi successivi al 2011 (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, e, in misura più contraddittoria, i due governi Conte) hanno eseguito diligentemente tutte le indicazioni del banchiere, compresa la riforma costituzionale dell’art. 81 sul “pareggio di bilancio”. Senza dimenticare il ruolo determinante avuto da Draghi come presidente della BCE nel 2015 nello strangolamento della Grecia e nel far inginocchiare il governo Tsipras.
Con questo pedigree alle spalle, il governo Draghi si insedia a metà febbraio, salutato da tutti i media come il salvatore della patria, di una patria a loro dire messa in pericolo dai barbari che ne avevano usurpato il governo. Tutti i partiti (la Lega, Forza Italia il minipartito di Renzi, il PD, lo stesso M5S, il partito di sinistra moderata Liberi E Uguali, più alcune micro-formazioni di centrodestra) sostengono e partecipano con i loro ministri alla formazione dell’esecutivo. All’opposizione restano solo i parafascisti di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, e, marginalmente il leader di Sinistra Italiana (l’unico frammento dell’esplosione di Rifondazione comunista ancora presente in parlamento) e numerosi parlamentari fuoriusciti da “destra” o da “sinistra” dal M5S. Draghi raccoglie il voto favorevole di 558 deputati su 628. Dietro questa “unità nazionale” invocata dal presidente con il pretesto della pandemia e della conseguente crisi economica (un’unità che rivela la sintonia filocapitalista che in fin dei conti accomuna tutto o quasi tutto il mondo politico istituzionale) tende a ricomporsi l’unità della borghesia, profondamente scossa da decenni di crisi del sistema politico italiano.
Con la formazione del governo Draghi inizia la restaurazione senza che ci sia stata nessuna rivoluzione.
Sì, perché le stesse misure moderatamente e contraddittoriamente positive fatte approvare dal M5S (il “reddito di cittadinanza”, la limitazione ai contratti precari, ecc.) non sono mai state costruite sulla base di una mobilitazione diretta degli strati sociali interessati, che al massimo le hanno vissute non come proprie conquiste ma come positive concessioni benevole dello stato.
I ministri di Draghi e i 200 miliardi della UE
Già con la composizione del nuovo governo Draghi, la rotta politica è molto esplicita.
I ministri ai quali spetteranno le risorse più ingenti provenienti dalla UE vengono assegnati a uomini di stretta fiducia del presidente.
Al ministero dell’Economia va il burocrate manager Daniele Franco, che può vantare nel suo medagliere l’essersi opposto con tutte le sue forze (pur se senza successo) nel 2018, in quanto massimo dirigente del ministero, alla creazione del “reddito di cittadinanza” (il sussidio di circa 570 euro mensili per i soggetti più poveri), voluta dal M5S e contrastata dalla Confindustria e da tutte le altre associazioni padronali. Il ministero diretto da Franco ovviamente coordinerà la gestione dei 200 miliardi che stanno arrivando dalla UE.
Al ministero per la “Transizione digitale” viene collocato Vittorio Colao, ex Morgan Stanley, e soprattutto ex CEO di Vodafone, il colosso telefonico britannico, che lo ha fatto diventare per circa 10 anni il manager italiano più pagato al mondo. Colao aveva già avanzato poco più di un anno fa la proposta di un piano di rilancio di 53 pagine che la ricercatrice Marta Fana ha sintetizzato in un articolo in questo modo: “Secondo Colao lo stato deve funzionare come meccanismo di assistenza a fondo perduto per il settore privato, elargendo sgravi e condoni, spostando nelle mani dei privati la gestione di quel che ancora resta nelle mani del pubblico”. Secondo il progetto elaborato ad aprile da Draghi, il ministero guidato da Colao dovrà gestire 46 miliardi dei fondi europei.
L’appena creato ministero per la “transizione ecologica” (che sostituisce l’obsoleto ministero per l’Ambiente) è stato affidato al “tecnico” Roberto Cingolani, politicamente vicino al partito di Matteo Renzi, esperto di robotica. A questo ministero, secondo il piano Draghi, arriverà la parte più cospicua dei fondi europei: 69 miliardi, di cui 29 per l’efficienza energetica e per la riqualificazione degli uffici pubblici, 10 per le energie rinnovabili, 22,5 per la costruzione di nuovi bus, treni, navi e per l’acciaio “verde”, 7,5 per la riconversione delle imprese agricole… Come si vede, un bottino capace di fare gola a moltissime imprese.
Ci sono poi le ministre più strettamente legate al mondo cattolico: Maria Cristina Messa, ministra dell’Università, e Marta Cartabia, ministra della Giustizia, entrambe molto vicine alla congregazione clerico-imprenditoriale Comunione e Liberazione, a cui è molto affezionato anche il presidente Draghi. La seconda, in particolare, si sta adoperando in queste settimane per far approvare dal parlamento una riforma del processo penale che punta a cancellare le contraddittorie innovazioni imposte due anni fa dal M5S per evitare che gli imputati più ricchi potessero far fallire i processi in cui erano coinvolti con escamotage procedurali.
Inoltre, Draghi ha affidato due ministeri importanti a due uomini forti della Lega. Il ministero dello Sviluppo economico è andato a Giancarlo Giorgetti, ex militante dell’organizzazione neofascista giovanile “Fronte della Gioventù”, ora numero due del partito di Salvini. Lui dovrà gestire la complessa fase di rilancio dell’economia nazionale dopo la brusca frenata imposta dalla pandemia. Il ministero del Turismo è stato affidato al potente lombardo Massimo Garavaglia. Il turismo, com’è noto, costituisce una delle leve dell’economia italiana (mediamente il 12-13% del PIL), e il turismo è anche stato il settore più colpito dalla crisi pandemica. Dunque Garavaglia dovrà cercare di gestire il consenso dei piccoli e piccolissimi imprenditori del turismo che costituiscono un importantissimo bacino elettorale.
Alla “sinistra” di governo vanno il ministero del Lavoro (Andrea Orlando, PD) e il ministero della Salute (Roberto Speranza, LeU).
Come primi atti, il governo, assecondando le spinte della Lega, ma anche di Renzi, rimuove tutti gli uomini che hanno gestito la pandemia per conto del governo Conte: il capo del dipartimento della Protezione civile, il coordinatore del Comitato tecnico scientifico che ha gestito le scelte sanitarie di contenimento del contagio e il commissario straordinario per l’emergenza epidemiologica COVID-19. In particolare in quest’ultima casella viene collocato un generale degli alpini da poco rientrato dall’Afghanistan. Anche in passato alti ufficiali erano stati chiamati a espletare funzioni civili, ma l’avevano sempre fatto nascondendo un po’ il loro passato. Il generale Francesco Paolo Figliuolo, al contrario, ostenta le sue cariche militari, presentandosi sempre in divisa militare (decorazioni e cappello con la penna compresi). Si tratta di una piccola restaurazione di stile da non trascurare.
Nelle settimane successive, il presidente del consiglio dei ministri procede a cambiare i vertici di numerosissime altre istituzioni, tra i quali: i servizi segreti, la Cassa depositi e prestiti (la più potente banca pubblica), il Consiglio di Stato (il massimo tribunale amministrativo), le Ferrovie, ecc. naturalmente nominando sempre donne o uomini di sua fiducia e fedeli all’ortodossia liberale.
Le misure di restaurazione
Visto il contesto, grande parte dell’azione del governo resta quella legata alla gestione dell’emergenza sanitaria e alla campagna vaccinale, senza grandi differenze rispetto a quanto fatto nel 2020 dal governo precedente, anche se ad un’attenta osservazione non sfugge che si presta maggiore attenzione a tutelare le attività economiche a discapito delle misure di prevenzione del contagio. D’altra parte è dall’inizio della pandemia che la pressione degli ambienti borghesi cerca di ostacolare ogni iniziativa che possa limitare l’attività economica, fino a far circolare dichiarazioni imbarazzanti, come quella pronunciata in un convegno da un dirigente regionale della Confindustria che è arrivato a dire: “Se ci saranno più morti, pazienza!”.
Ma vengono adottate anche alcune misure esplicitamente di “restaurazione”: le limitazioni ai contratti precari a termine, volute dal M5S, vengono in gran parte rimosse, come chiesto da sempre dalle associazioni padronali (che comunque continuano a protestare perché ne volevano la cancellazione totale), vengono attenuate tutti i vincoli e i controlli tendenti a contenere l’uso indiscriminato dei subappalti e i vincoli di tutela ambientale, in nome della “libertà di impresa”, si decide di non prorogare la norma che rendeva più flessibile il limite dei 67 anni di età per poter andare in pensione.
Tutto ciò senza nessuna opposizione da parte delle grandi organizzazioni sindacali.
E’ in atto una campagna mediatica potente contro il “reddito di cittadinanza”. Le principali associazioni padronali accusano questo istituto di ostacolare le imprese nella ricerca di lavoratrici e lavoratori da assumere. Si sostiene che i giovani e in generale i disoccupati preferiscano percepire il “reddito di cittadinanza” piuttosto che accettare di lavorare alle dipendenze delle aziende. I toni demagogici volgari contro il reddito di cittadinanza della destra interna al governo e di quella “di opposizione” vengono ripresi dalla stampa e dalle televisioni. Il partito di Renzi si dichiara pronto ad organizzare la raccolta di firme per abrogare la legge del 2018 che lo ha istituito.
La pressione verso destra si fa ancora più potente sul tema dei migranti. Il governo mantiene in piedi le più importanti misure razziste dei decreti fatti approvare da Salvini quando nel 2018 era al governo con il M5S, nello stesso tempo rinnova e rafforza il sostegno alla guardia costiera libica incaricata di impedire la partenza dei barconi con i migranti dall’Africa, segregandoli e torturandoli nei lager della Tripolitania. In queste settimane è in corso una prova di forza della Lega (ma anche di Fratelli d’Italia) che spinge per ottenere le dimissioni dell’attuale ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, peraltro tutt’altro che tenera nei confronti delle problematiche sociali.
La situazione sociale segnata dalla crisi
La situazione sociale, contrassegnata dagli effetti della crisi economica amplificata dalla crisi pandemica, è particolarmente preoccupante: gli occupati nel corso del 2020 sono diminuiti (cifre dell’Istituto centrale di statistica) di quasi un milione di unità, tornando ai livelli occupazionali del 2015, e questo nonostante il blocco dei licenziamenti decretato dal governo Conte 2 nel marzo 2020. E’ stata penalizzata principalmente l’occupazione femminile e giovanile (oltre a quella degli immigrati). I consumi delle famiglie sono crollati in un anno del 10,9% riportandoli (al netto dall’inflazione) ai consumi del 1997.
Le famiglie in situazione di povertà sono oltre 2 milioni (il 7,7%, in forte crescita rispetto agli anni precedenti) coinvolgendo oltre 5,6 milioni di individui, e, nonostante questo, si vorrebbe abolire il “reddito di cittadinanza”. E cresce anche il numero dei working poor: il 13,2% delle famiglie operaie risulta povera, il 25,3% se si tratta di famiglie operaie immigrate.
Naturalmente queste cifre, oltre a mostrare gli effetti delle note e tradizionali arretratezze economiche e sociali di ampie regioni italiane, registrano gli effetti perversi del gigantesco incremento che ha avuto nel corso del 2020 l’uso della Cassa integrazione guadagni, con la quale l’assistenza pubblica retribuisce lavoratrici e lavoratori sospesi dall’attività per le più varie ragioni. Basti pensare che le ore di cassa integrazione erogate dall’INPS sono passate dai 105 milioni del 2019 a quasi 2 miliardi nel 2020. Naturalmente, la cassa integrazione serve ad evitare che la lavoratrice o il lavoratore resti totalmente senza reddito, ma le norme fanno sì che con la Cassa integrazione non si arrivi a percepire più di 1.000 euro mensili, cosa che evidentemente provoca bruschi abbassamenti nel reddito disponibile per le famiglie coinvolte.
La Cassa integrazione nel corso del 2020 ha coinvolto (decurtandone il reddito) oltre il 40% dei 15,7 milioni di dipendenti del settore privato (agricoltura esclusa). Si tratta di circa 6,8 milioni di individui che hanno visto, spesso per mesi e mesi, il proprio reddito a volte dimezzato.
Inoltre, a partire dal 1° luglio, il blocco dei licenziamenti, come chiesto fin dalla sua istituzione dalla Confindustria e dai suoi supporter, è stato abolito per tutto il settore manifatturiero (tranne che in limitatissimi casi) e dal 1° ottobre lo sarà per tutto il resto del mondo del lavoro (commercio, turismo, servizi…).
La fine del blocco dei licenziamenti è stata sostanzialmente accettata anche dalle segreterie delle organizzazioni sindacali maggioritarie, Cgil, Cisl e Uil, che, a fine giugno, al termine di un lungo e inconcludente incontro, hanno sottoscritto con il governo e con la Confindustria un “avviso comune” che “prendeva atto della fine del blocco dei licenziamenti”, limitandosi a “raccomandare” alle aziende di utilizzare, laddove possibile, la cassa integrazione. Cioè, come dire: “sarebbe bello se non licenzierete, ma se proprio non potete farne a meno fatelo pure”.
E infatti, non a caso, immediatamente, fin dal 1° luglio si sono moltiplicate in tutto il paese le procedure di licenziamento collettivo, coinvolgendo numerosissime aziende, in gran parte metalmeccaniche: GKN, Giannetti, Timken, ecc. che vanno a sommarsi alle vertenze “storiche”, che, congelate dalla pandemia, si sono riaperte: Whirlpool, Embraco, ecc. Si tratta di aziende spesso tutt’altro che sull’orlo del fallimento ma che la proprietà vuole delocalizzare in altri paesi, dove il “costo del lavoro” diretto (salario) e indiretto (fisco) risulta più a buon mercato. Le vertenze di questo tipo aperte di fronte al ministero per lo Sviluppo economico sono centinaia, con il coinvolgimento di decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Per non parlare delle piccole e piccolissime aziende che chiudono e che, pur senza alcuna eco sulla stampa, mandano a casa altre migliaia di persone.
Una delle vertenze “storiche” spicca tra le altre, quella che sta segnando la fine della ex compagnia aerea di bandiera Alitalia, in bancarotta per una criminale privatizzazione (fatta nel 1996 dal governo di centrosinistra guidato da Prodi, e supervisionata proprio da Draghi), che è costata allo stato finora non meno di 10 miliardi di euro. La vertenza si sta concludendo nel peggiore dei modi: con la creazione di una nuova compagnia (ITA Spa) che intende applicare ai propri 2.800 dipendenti un contratto diverso da quello storicamente adottato da Alitalia e che lascia disoccupate più di 8.000 persone.
Alcuni importanti segnali di risposta
Tra le vertenze va sottolineata quella GKN (alla periferia di Firenze), che grazie alla presenza in fabbrica di un forte collettivo di militanti radicali, sta polarizzando molta attenzione e sta divenendo un punto di riferimento per molte altre vicende sindacali analoghe. La forte solidarietà che le lavoratrici e i lavoratori di GKN sono riusciti ad attrarre ha spinto il governo ad avanzare una proposta di legge per “regolamentare” le delocalizzazioni, che a tutt’oggi le imprese possono decidere liberamente di fare, pagando pochi spiccioli di penale per i licenziamenti, magari dopo aver incassato nel corso degli anni somme favolose di sovvenzionamenti statali. Ma il progetto presentato dal ministro del Lavoro Orlando sta incontrando l’opposizione concentrica da un lato da parte di Confindustria (perché scoraggerebbe gli investitori) e dall’altro del Collettivo GKN che lo considera totalmente inefficace per scoraggiare le chiusure di azienda. Ovviamente il confronto, mentre scriviamo questo articolo, sta andando avanti ma si intuisce già come rischia di concludersi: infatti il governo ha già assicurato il padronato che il progetto definitivo non includerà misure punitive…
Nel frattempo, nel paese si sono sviluppate numerose altre lotte sindacali: in particolare vanno segnalate quelle manifestatesi nel settore della logistica. Queste lotte si sono confrontate con importanti processi di ristrutturazione messi in atto dalle aziende. E, con la loro determinazione e con la forza che veniva loro dalla radicalità di una classe lavoratrice in gran parte immigrata, non ancora irregimentata nella deleteria ideologia della limitazione del danno e non ancora frustrata dal sentimento di rassegnazione che utilizzano a piene mani gli apparati burocratici dei principali sindacati, le lotte nella logistica hanno raggiunto significativi risultati, imponendo in molte aziende importanti miglioramenti salariali e normativi.
I depositi delle aziende delle multinazionali della logistica (Fedex, GLS, DHL, ecc.) erano largamente trascurati dalle organizzazioni sindacali tradizionali che si limitavano a gestire in maniera spesso complice e a volte persino clientelare i rapporti con le microaziende del subappalto. Un gruppo di sindacalisti militanti ha così dato vita ad un nuovo sindacato di base, il SiCobas, Sindacato Intercategoriale Cobas, che ha iniziato a raccogliere in quei depositi nuovi aderenti, in grandissima parte naturalmente migranti, attorno ad un progetto di sindacalismo radicale. Il progetto, nel corso di qualche anno, ha cominciato a dare i frutti sperati. I risultati conquistati in qualche deposito hanno favorito l’allargamento dell’adesione e dell’iniziativa, tanto da rendere il SiCobas largamente maggioritario nel settore, e hanno polarizzato attorno al SiCobas un non irrilevante area di simpatia anche nella gioventù radicalizzata.
Naturalmente il padronato, che all’inizio aveva pensato di chiudere la questione facendo qualche concessione ai lavoratori, ha poi iniziato a preoccuparsi. Inoltre, l’esplosione dell’e-commerce indotta dalle misure anticontagio ha imposto alle aziende un funzionamento più che mai just in time, cosa che ha spinto le direzioni aziendali ad un atteggiamento più aggressivo nei confronti delle iniziative sindacali, con numerose azioni repressive gestite spesso da squadre paramilitari filopadronali. Con la copertura della polizia, queste squadre hanno aggredito sistematicamente i picchetti del SiCobas (e anche di altri sindacati radicali che hanno iniziato ad agire nel settore), provocando numerosi feriti e anche due morti tra gli scioperanti.
A partire da questa vicenda, ma in risposta più generale contro la politica filopadronale del governo e per denunciare la linea esplicitamente complice delle direzioni di Cgil, Cisl e Uil, si è finalmente ricomposta l’unità d’azione del sindacalismo radicale, con la proclamazione di una giornata di sciopero generale per l’11 ottobre. La piattaforma rivendica il mantenimento del blocco dei licenziamenti, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, forti aumenti salariali, un salario garantito ai disoccupati, l’abrogazione delle leggi di controriforma del diritto del lavoro, investimenti pubblici nella scuola, nella sanità, nei trasporti, una vera democrazia sindacale contro il monopolio di Cgil, Cisl e Uil, la difesa del diritto di sciopero e l’abrogazione dei decreti Salvini, la totale parità salariale uomo-donna, il blocco delle produzioni nocive e delle grandi opere speculative…
La piattaforma è condivisa da tutti i sindacati di base (in particolare SiCobas, USB, Cobas, CUB, ecc.) e alla sua redazione ha partecipato anche la corrente di opposizione presente all’interno della Cgil. E’ dall’autunno del 2008 che non si realizzava in Italia un’azione unitaria di tutto il sindacalismo radicale e, proprio in queste settimane, sono in atto le iniziative per far sì che quella giornata non sia solo un’occasione di testimonianza radicale, ma che sia capace di indicare la via per la ripresa di una mobilitazione complessiva delle classi sociali subalterne.
Uno dei punti sui quali sarà necessario agire per far sì che ciò avvenga è la costruzione della convergenza tra il processo che si è messo in moto attorno alla vertenza GKN e alla sua parola d’ordine “insorgiamo” e la costruzione della giornata di sciopero dell’11 ottobre. I prossimi giorni saranno cruciali in questa direzione.
Le forti spinte di estrema destra
Resta, che, come in tutte le restaurazioni, a trarre vantaggio è la destra più estrema, quella destra neofascista che un tempo (il secolo scorso) sembrava completamente fuori dai giochi, tanto da indurre il suo leader dell’epoca, Gianfranco Fini, a rinnegare solennemente le radici fasciste del suo partito.
Il M5S, che solo fino a 3 anni fa si vantava di essere stato l’argine che, di fronte al fallimento della sinistra nelle sue varie espressioni, aveva impedito che il malessere sociale facesse crescere l’estrema destra, ha invece creato un’autostrada per la crescita della Lega, di Fratelli d’Italia e, un po’ più dietro le quinte, delle stesse organizzazioni esplicitamente neonaziste come Forza Nuova e Casapound.
I nostalgici del fascismo non hanno più vergogna di palesarsi. Il viceministro leghista dell’Economia (poi costretto a dimettersi) ha pubblicamente proposto di intitolare un parco pubblico ad Arnaldo Mussolini, corrotto e altrettanto fascista del più noto fratello Benito. Un altro esponente leghista ha proposto di intitolare ad Adolf Hitler una piazza di Roma ora dedicata ai Partigiani antifascisti. Sono solo due degli innumerevoli casi di reviviscenza neofascista anche culturale, che trova terreno nella rilegittimazione politica degli eredi di Mussolini.
Ma sul piano meno simbolico e più sostanziale, la destra, con la sua continua pressione politica e demagogica, è riuscita a scoraggiare anche i partiti più liberal dal proseguire nella battaglia per riconoscere il diritto di cittadinanza ai figli nati in Italia da genitori stranieri e a far insabbiare, almeno per il momento, il disegno di legge contro l’omotransfobia presentato dal deputato Zan.
All’altro lato dello schieramento politico, continua ad essere largamente irrilevante la sinistra politica radicale, incapace e perfino apparentemente disinteressata a trovare momenti di convergenza unitaria sul piano elettorale e su quello dell’iniziativa politica. Ma sembra anche poco interessata ad interloquire con i piccoli ma molto significativi segnali di riattivazione del quadro sindacale e sociale (per esempio, logistica, GKN, sciopero dell’11 ottobre). Una sinistra che peraltro appare sempre più orientata a riallacciarsi al passato (l’eredità del PCI di Berlinguer), piuttosto che guardare ad un contesto sociale e politico totalmente mutato.
*Sinistra Anticapitalista