Le catene di approvvigionamento just-in-time, la loro fragilità, il tipo di posti di lavoro creati e i loro legami con la crisi climatica
Uno shock dei prezzi nei mercati globali del gas naturale ha messo in difficoltà diversi piccoli fornitori di energia nel Regno Unito, lasciando i clienti senza riscaldamento e aumentando dei prezzi. Un incendio ha messo fuori uso l’enorme cavo che porta l’elettricità dalla Francia al Regno Unito, minacciando le case di oscurità e aumentando le bollette dell’elettricità. La nave container da 200.000 tonnellate e 400 metri di lunghezza Ever Given: Di proprietà della ditta giapponese Shoei Kisen Kaisha, battente bandiera panamense, l’armatore Evergreen Marine Corporation], diretta a Felixstowe [il più grande porto container del Regno Unito] dalla Malesia, rimane bloccata nel canale di Suez per sei giorni [alla fine di marzo 2021], interrompendo la navigazione per un costo stimato di 730 milioni di sterline e ritardando l’arrivo i prodotti elettronici ordinati su Amazon Prime.
Ciò che questi incidenti hanno in comune è la velocità con cui un singolo evento può interrompere le catene di approvvigionamento in tutto il mondo. Quasi ogni volta che si ordina un articolo online, questo viene trasportato attraverso una rete di aziende, rotaie, strade, navi, magazzini e autisti che insieme formano il sistema circolatorio (just-in-time) dell’economia globale. Questa infrastruttura strettamente calibrata è progettata per il movimento perpetuo. Non appena un collegamento si rompe o si inceppa, l’impatto sulle catene di approvvigionamento just-in-time di oggi si sente immediatamente.
Just-in-time è l’idea di Taiichi Ohno, un ingegnere della Toyota negli anni 50, che si è ispirato al lavoro di Henry Ford [1863-1947]. Ohno lo definì come un modo di eliminare gli “sprechi” – cioè le scorte, i lavoratori extra e i “minuti inattivi” – nella produzione e nel flusso delle merci. Invece di sprecare tempo, lavoro e denaro accumulando parti lungo la catena di montaggio o immagazzinando merci (come i produttori hanno fatto per decenni), l’idea di Ohno è che i fornitori possano consegnare quelle parti quando sono necessarie. Questo aumenterebbe i profitti, riducendo la quantità di denaro che le aziende spendono per mantenere l’inventario e pagare la manodopera extra.
Dopo la sua introduzione in Occidente negli anni ’80, il modello just-in-time si è gradualmente spostato dalla fabbrica di automobili a tutti i tipi di produzione di beni e servizi. Si è diffuso nelle catene di approvvigionamento al punto che ogni fornitore, grande o piccolo, è tenuto a consegnare rapidamente all’acquirente successivo. Questo ha aumentato la concorrenza tra le aziende per consegnare i prodotti molto rapidamente, il che ha permesso alle aziende di ridurre i loro costi (di solito il costo del lavoro). La consegna just-in-time ha quindi contribuito alla crescita dei lavori a basso salario, che sono spesso più precari, poiché i lavoratori vengono assunti solo quando sono necessari. Questa pressione costante sui lavoratori ha alimentato la nostra “cultura” del lavoro 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e i problemi di salute mentale che l’accompagnano, mentre i tentativi di ridurre il prezzo del lavoro hanno contribuito alla crescente disuguaglianza socio-economica, indipendentemente dal governo al potere.
La consegna rapida delle merci si basa sulle infrastrutture. Dagli anni ’80 in poi, le autostrade si sono allargate, i porti si sono approfonditi e le piste d’atterraggio sono state aggiunte qua e là per tenere il passo con il cambiamento. I magazzini del 21° secolo si sono trasformati da strutture di stoccaggio in enormi centri di distribuzione e adempimento. Ma la velocità, come vi dirà qualsiasi pilota di Formula 1, ha i suoi rischi. Inondazioni, interruzioni di corrente, chiusure di strade, controversie di lavoro e, naturalmente, pandemie possono mettere fuori uso il sistema. Poiché il just-in-time ha sradicato lo stoccaggio, una crisi imprevista può portare a carenze inaspettate e pericolose. All’inizio della pandemia, c’erano carenze diffuse di DPI (dispositivi di protezione individuale), camici, maschere e guanti di plastica, che si basano tutti sulla produzione just-in-time, con poche scorte di riserva.
Oggi, il nostro mondo just-in-time è sempre più soggetto a crisi. Gli orari di trasporto dei container sono stati inaffidabili dall’inizio della pandemia all’inizio del 2020. L’aumento dei prezzi del carburante ha anche portato a una riduzione della velocità di navigazione, nota come “slow steaming” [riduzione della velocità di una nave per ridurre il consumo di carburante, al fine di tagliare i costi]. La British International Freight Association, nel frattempo, ha avvertito di una “carenza di trasporto terrestre” – in altre parole, i portuali o magazzinieri a seguito del Covid-19 sono stati ridotti di numero e non ci sono abbastanza camionisti a causa della pandemia e della Brexit, oltre ad anni di salari stagnanti, orari lunghi e mancanza di formazione disponibile. La Road Haulage Association stima l’attuale carenza a 100.000 autisti nel Regno Unito. Troppi pochi autisti significano porti congestionati, navi in stallo, scaffali vuoti e prezzi più alti.
I manager della catena di approvvigionamento e gli esperti di logistica sono consapevoli di tutti i potenziali problemi e hanno discusso il compromesso tra “rischio” e “resilienza” negli ultimi dieci anni – la “resilienza” è la capacità di minimizzare o recuperare rapidamente da un’interruzione. Basse scorte just-in-time aumentano il rischio di carenze in caso di crisi. La “resilienza”, d’altra parte, comporta scorte più grandi, più lavoratori, più fornitori e costi più elevati. Questo crea un dilemma. La concorrenza rende la resilienza stessa rischiosa per le singole aziende. Chi vuole comprare da un ritardatario con prezzi più alti? Eppure, finché la redditività è la forza trainante del sistema, gli sforzi dei singoli stati per difendere i mercati interni o “riprendere in mano le proprie sorti”, spesso nel tentativo di creare una resilienza immaginaria, come è stato presentato con la Brexit – ironicamente creano solo più disordini, catene di approvvigionamento rotte e prezzi più alti mentre le aziende cercano di recuperare come possono le loro perdite. Il regime dei beni di consumo a basso costo sta diventando sempre più difficile da sostenere.
Ci sono implicazioni ancora più importanti per questo regime di capitalismo sfrenato. Tutto questo movimento globalizzato in tempo reale è alimentato dai combustibili fossili che portano al degrado del clima. L’aumento di tsunami, incendi boschivi, inondazioni e altri eventi meteorologici estremi rende ancora più vulnerabili le catene di approvvigionamento e le necessità che esse forniscono. I manifestanti seduti nel centro di Londra o sulle autostrade non hanno torto. In ogni caso, se si privano le grandi imprese del libero uso delle loro fonti di energia preferite, si possono rallentare le cose a un ritmo umano – e forse anche salvare il pianeta mentre lo si fa.
Decenni di deregolamentazione, privatizzazione e adorazione del mercato hanno lasciato la società vulnerabile alla forza insidiosa delle catene di approvvigionamento “just-in-time”. Sussidi governativi, tagli fiscali, formazione professionale e altre politiche tradizionali non saranno sufficienti a risolvere le crisi che affrontiamo, dalle pandemie alla crisi climatica, che stanno facendo fallire le catene di approvvigionamento. È tempo di pensare non solo a come produciamo e consumiamo beni, ma anche a come li spostiamo.
*Kim Moody, ex animatore della rete Labor Notes negli Stati Uniti, è autore di numerosi libri tra cui On New Terrain: How Capital Is Reshaping the Battleground of Class War (Haymarket Books 2017), In Solidarity: Essays on Working-Class Organization in the United States (Haymarket Books 2014). Attualmente è visiting scholar all’Università di Westminster. Questo articolo è apparso sul quotidiano The Guardian l’11 ottobre 2021