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La situazione al confine tra la Bielorussia e la Polonia si fa ogni ora più grave. Adesso i migranti, nella realtà profughi di guerra che dovrebbero essere protetti dal diritto internazionale, sono diventati “armi non convenzionali”, ostaggi incolpevoli di ciò che si va consumando alle loro spalle e sulla loro pelle. Nel frattempo, in attesa che le istituzioni europee prendano delle decisioni, rimane ai volontari, agli attivisti, il compito di rendere la loro condizione meno difficile, di cercare di evitare la morte di migliaia di persone rimaste bloccate nella foresta.

Nawal Soufi, ad esempio, l’attivista italo-marocchina impegnata nella difesa dei diritti umani dei migranti che conosciamo già perché l’abbiamo seguita lungo la rotta balcanica, adesso è proprio lì a documentare con le immagini fotografiche e la raccolta di testimonianze agghiaccianti le conseguenze del cinico gioco politico in cui gli interessi di parte prevalgono sui principi umanitari.

“I bambini sono senza latte e le mamme non riescono più ad allattare, perché oramai si trovano in condizioni disumane da lungo tempo”, racconta Nawal nel suo diario di frontiera. I volontari non riescono ad aiutare nemmeno tutti coloro che si trovano tra i boschi in territorio polacco: alcuni a soli tre chilometri dal confine, altri più lontani, anche una ventina di chilometri all’interno. Per chi si trova in territorio bielorusso, poi, la situazione è ancora più drammatica: è lasciato completamente al proprio destino.

Cuore grande

Nawal a volte viene aiutata da un taxista locale a trasportare persone verso Minsk. Corse per salvare la vita a chi non mangia da giorni. Oramai, infatti, rimane poco da fare oltre a comprare del cibo e consegnarlo a questo buon uomo, che poi lo porta ai migranti.

L’altro ieri una donna, dopo 25 giorni di questo inferno, è riuscita ad arrivare a Varsavia. Nawal ha quindi chiesto ai suoi contatti social di cercare per lei da dormire in quella città. La risposta dall’Italia è arrivata: c’è tanta gente dal cuore grande, per fortuna.

La volontaria ha davanti ai sui occhi immagini terribili, alle quali si sommano i racconti di altri testimoni: la polizia che blocca interi nuclei familiari, con bambini spaventati e affamati ai quali si nega persino l’acqua; giovani siriani arrestati in Polonia e ricoverati negli ospedali a causa delle loro condizioni critiche: non appena si riprenderanno, saranno espulsi. Pare che qualcuno di loro abbia chiesto asilo politico e il diritto internazionale vorrebbe che la loro volontà venisse rispettata. Ma c’è da dubitare fortemente che accadrà.

Una donna da giorni nella foresta, fame, gelo, solitudine, il telefonino quasi scarico, rischiava di morire, per fortuna è stata raggiunta e tratta in salvo. Una delle tante. E, ancora, una famiglia di 10 persone, una piccola comunità cui si aggiunge ogni giorno qualcun altro: “Hanno già tentato di attraversare il confine polacco otto volte e puntualmente, dopo aver chiesto asilo, sono stati riportati nella foresta. Nel gruppo ci sono donne, tra cui un’anziana. Ieri sera, però, è successo qualcosa di molto grave e il gruppo è scomparso dopo averci mandato questo messaggio: Il cane della polizia ha attaccato un ragazzo di Deraa (Siria) e gli ha morso la testa. Da quel momento non ho più notizie. Non riesco a descrivervi come mi sento”, dice Nawal.

Rabbia e frustrazione

Possiamo solo immaginarlo, ma lei è lì, a seguire questa tragedia umanitaria da vicino, con la rabbia e il senso di frustrazione addosso. E poi ancora bambini, sempre più infreddoliti, che hanno bisogno di mangiare: “Stanotte tra le 3 e le 4, un elicottero ha terrorizzato i più piccoli. Era l’unico momento in cui erano riusciti a prendere sonno dopo una giornata terribile”, racconta. Altri che implorano: Dio, ho fame. E i singoli destini diventano il paradigma di un tragico fallimento. “Questo bambino – dice Nawal scegliendo un esempio fra i tanti – si trova alle porte dell’Europa. Lui fa parte di coloro che sotterreranno la dignità dell’Europa unita. Sì, l’Unione Europea ha perso la sua dignità in questa frontiera. Lui ancora accenna un sorriso, ha entrambe le gambe amputate e non riesce ad avere acqua e cibo da troppo tempo. Forse un giorno tornerà verso il suo Paese d’origine o forse morirà a ridosso di questa frontiera a causa del freddo e della fame e a noi resterà l’arduo compito di guardarci allo specchio nei prossimi anni”.

Già, ha ragione, Nawal, e, quando ci guarderemo, vedremo lo stesso volto che ha chiunque chiuda gli occhi insieme al cuore: il volto del carnefice e del suo complice.

*reportage apparso sul sito www.strisciarossa.it il 12 novembre 2021

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