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Nella giornata del 16 dicembre nelle piazze di numerose città italiane si sono raccolte decine di migliaia di lavoratrici e di lavoratori che hanno partecipato alla giornata di sciopero generale proclamato da Cgil e Uil. 

Il governo italiano presieduto da Mario Draghi si è insediato nel febbraio 2021 e si è caratterizzato fin dai suoi primi passi come un governo sfacciatamente filopadronale. Si è caratterizzato così per le modalità della sua istituzione, per la composizione dei suoi ministri, per le sue iniziative, il tutto esplicitato dall’entusiastico appoggio da parte delle organizzazioni del padronato.

Esso però è anche riuscito, molto più dei precedenti governi di destra, a paralizzare il movimento sindacale. Certo, aveva la complicità della pandemia e dello stato di emergenza già decretato dal precedente governo Conte 2, ma dal precedente governo aveva anche ereditato una disponibilità finanziaria aggiuntiva del tutto straordinaria (200 miliardi di euro concessi dall’Unione europea in base al piano “Next generation EU”, più altri 120 miliardi ottenuti attraverso diversi “sfondamenti di bilancio” decisi alla quasi unanimità dal parlamento), una disponibilità su cui nessun precedente governo aveva potuto contare.

Dunque, era palpabile nel paese l’assenza di qualunque iniziativa che facesse riassumere alle classi lavoratrici una presenza protagonista. E certamente le pur generose iniziative del sindacalismo di base (in particolare lo sciopero generale unitario di tutte le sigle del sindacalismo conflittuale dell’11 ottobre) non potevano essere in grado di colmare questo vuoto. E non è stata in grado di colmarla neanche l’importantissima iniziativa messa in campo dalle lavoratrici e dai lavoratori della GKN di Firenze contro la chiusura della loro fabbrica con lo slogan #Insorgiamo, iniziativa che ha portato in piazza 40.000 persone il 18 settembre.

Ma le direzioni dei sindacati maggioritari erano totalmente paralizzate in una del tutto inconcludente trattativa con il presidente del consiglio dei ministri e con i ministri dei vari settori. Le scelte di fondo del governo erano state più che esplicite, in particolare al momento della scadenza del blocco dei licenziamenti decretato nel marzo 2020 dal governo Conte 1 per evitare che le conseguenze economiche della pandemia si traducessero in una crescita esponenziale della disoccupazione. Le pressioni sindacali contro la fine del blocco si erano limitate al tavolo degli incontri ministeriali, senza nessuna iniziativa di lotta concreta. E così Mario Draghi aveva respinto quelle pressioni e accolto le sollecitazioni della Confindustria, concedendo il via libera ai licenziamenti, con disastrose conseguenze per tantissime lavoratrici e lavoratori di numerose aziende.

E non solo, il governo Draghi, oltre a sbloccare i licenziamenti, ha lasciato che le aziende chiudessero, delocalizzassero, ristrutturassero, senza nessun intervento dello stato, ha varato nuove norme a favore delle privatizzazioni, ha disegnato un progetto di uso dei 200 miliardi della UE tutto a favore delle imprese (basti pensare che di tutta questa valanga di denaro solo 9 miliardi vengono destinati alla sanità) e ha presentato una legge di bilancio di oltre 30 miliardi del tutto in continuità con le politiche neoliberali, una legge che incrementa le spese militari e che rilancia il progetto della cosiddetta “autonomia differenziata” mirante ad acuire le differenze tra le regioni più ricche e quelle più svantaggiate. Quanto alle pensioni verrà pienamente ripristinata la legge Fornero che dal 2011 ha portato a 67 anni l’età per il ritiro dal lavoro, mentre sul “reddito di cittadinanza” la partita risulta ancora aperta con la destra del governo che intende diminuirne drasticamente l’entità e i criteri di attribuzione.

La sanità pubblica, che, devastata da decenni di politiche di privatizzazioni, si era presentata del tutto impreparata a sostenere l’impatto del Covid-19, sostanzialmente resta quella pre-pandemia, così come la scuola. Nel frattempo, al riparo dello stato di emergenza sanitario, sono state decretate misure di ulteriore pesante limitazione del diritto di manifestazione. Quanto alle questioni ecologiche, dietro il suadente slogan della “transizione ecologica” il governo Draghi mette in campo una gigantesca operazione di finanziamento pubblico all’imprenditoria privata, ventilando per di più la riapertura del dossier sull’energia atomica, che si riteneva definitivamente chiuso dopo l’80% di voti antinucleari che si erano espressi nel referendum del 1987.

Non c’è bisogno di leggere tra le righe. Tutta la politica di questo governo è destinata a produrre misure per realizzare, possibilmente nel modo più indolore possibile, una nuova e ancora più pesante sconfitta per il movimento dei lavoratori e consentire alle imprese di accrescere i profitti.

Basti pensare alle misure fiscali che iniziano a soddisfare una delle rivendicazioni storiche del mondo padronale: la progressiva abolizione dell’IRAP, l’imposta regionale sulle attività produttive che era finora destinata a finanziare la sanità pubblica regionalizzata. Ma non solo: con la legge finanziaria in discussione al parlamento in questi giorni si riduce ulteriormente la progressività delle aliquote fiscali. Gli studi sugli effetti delle misure fiscali contenute nella proposta di legge fanno capire che non ci sarà alcun vantaggio per i redditi inferiori ai 20.000 euro annui, quota che coinvolge circa il 43% delle famiglie italiane. I vantaggi degli 8 miliardi di euro destinati alla riduzione fiscale andranno dunque in piccola parte ai cosiddetti “ceti medi” (che avranno qualche decina di euro in meno di tasse) e si concentreranno soprattutto sui redditi più alti, che risparmieranno parecchie centinaia di euro di imposizione fiscale. 

Di fronte a questo scandalo, che perfino i giornali più filogovernativi non hanno potuto evitare di sottolineare, lo stesso Draghi aveva pensato di fare un’operazione a suo modo “populista”: quella di congelare per un anno questi vantaggi per i redditi superiori ai 75.000 euro per destinare le risorse risparmiate al fine di contenere i previsti incrementi dei prezzi dei prodotti energetici (corrente elettrica e gas) che, si calcola, faranno spendere almeno 1.000 in più ad ogni famiglia nel corso del 2022.

Ma la composita maggioranza governativa di Draghi (che comprende l’estrema destra della Lega di Salvini, Forza Italia di Berlusconi, il Partito democratico e perfino una parte della minuscola pattuglia di sinistra presente al parlamento) ha indotto il premier a rinunciare al suo progetto. D’altra parte è noto come la destra (sia quella governativa sia quella di “opposizione” di Giorgia Meloni) puntano alla cosiddetta “flat tax”, cioè ad arrivare ad una aliquota unica per tutti (le proposte oscillano tra l’aliquota del 15% e quella del 20%: uguale per tutti, il bracciante agricolo e il miliardario).

Non dimentichiamo inoltre che anche in Italia, come un po’ ovunque nel mondo, l’inflazione riprende a crescere. Ha parecchio fatto scalpore l’elaborazione dei dati OCSE che mostra come l’Italia sia l’unico paese che nel 2021 registra retribuzioni reali inferiori a quelle del 1990 (-2,9%), di trent’anni fa. L’elaborazione però non ha generato sorpresa, visto che tutti conoscono la docilità con cui le direzioni sindacali maggioritarie hanno accettato di introdurre meccanismi di progressiva riduzione dei salari nei contratti di tutti i settori. E’ significativo che proprio nel paese nel quale le direzioni sindacali si autoproclamano tra le più forti del mondo accada questo.

Dunque, un’azione generale del movimento sindacale era necessaria da tempo. Occorre riconoscere che, a differenza di altri periodi, una pressione dal basso per uno sciopero generale era sostanzialmente assente. Anche su questo agiva la situazione pandemica e soprattutto agiva il battage mediatico che presentava il governo Draghi come la soluzione di tutti i mali economici, sociali e politici del paese. E agiva la potente rassegnazione delle più larghe masse, lasciate ai margini dell’azione da anni e anni di sostanziale collaborazione tra i governi via via succedutisi e i vertici sindacali. Basti ricordare che l’ultima giornata di sciopero generale è stata esattamente 7 anni fa, il 12 dicembre 2014, quando la Cgil e la Uil si mobilitarono contro il Jobs act del governo Renzi (anche allora tardivamente: la legge era già stata approvata dal parlamento).

La minoranza di sinistra della Cgil ha insistentemente premuto per l’indizione di una giornata di sciopero, denunciando le responsabilità che i vertici dell’organizzazione si stavano assumendo lasciando che una politica economico sociale di questo tipo restasse senza un’esplicita e attiva opposizione sindacale.

Nelle ultime settimane, inoltre, settori significativi dell’apparato burocratico della Cgil (e in parte anche di quello della Uil) hanno cominciato a riflettere sul fatto che le scelte politiche del governo stavano riducendo il ruolo dei sindacati a soggetti che potevano solo prendere atto delle scelte di Draghi, dei suoi ministri e della sua maggioranza. La direzione della Fiom (la federazione Cgil dei metallurgici) e della FLC (la Cgil delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola) hanno indetto per il 10 di dicembre una giornata di sciopero per le loro categorie. 

Così, il 6 dicembre la segreteria della Cgil e quella della Uil hanno deciso di proclamare per il 16 lo sciopero generale e le varie manifestazioni interregionali. 

Dobbiamo purtroppo ribadirlo: non è stata la pressione dal basso a imporre ai vertici sindacali la proclamazione dello sciopero del 16, né è stata la battaglia pur incalzante della minoranza interna, né l’azione autonoma del Collettivo GKN. E per certi versi non sono stati neanche i malumori di numerosi dirigenti. Maurizio Landini, il leader della Cgil, e Pierpaolo Bombardieri, il capo della Uil, sono stati messi con le spalle al muro da Mario Draghi e dalla sua protervia padronale, insensibile alle pur timide richieste dei vertici burocratici.

Questi vertici hanno capito che con Draghi il padronato sta facendo un ulteriore passo avanti. Già i governi di Silvio Berlusconi avevano cercato di mettere fuori gioco le organizzazioni sindacali, dividendole e tentando di annullarne ogni potere. Lo stesso obiettivo è stato perseguito dal governo di Matteo Renzi. Con la sconfitta di quest’ultimo i vertici sindacali si erano illusi di aver riconquistato un ruolo. L’avevano in parte giocato durante i governi Conte 1 e 2. Ma Draghi li sta di nuovo e ancora di più riducendo a puri spettatori delle sue scelte spudoratamente confindustriali, spettatori a cui semplicemente comunicare le decisioni già assunte, rispetto alle quali non resta che prendere atto. E così hanno tentato di alzare la voce.

Peraltro l’hanno alzata ma senza modificare la sostanza della loro subalternità al governo. Il comunicato di indizione dello sciopero apprezza (sic!) lo sforzo e l’impegno del presidente Draghi e del governo, ma giudica manovra finanziaria è insoddisfacente (sic!) sul fronte del fisco, delle pensioni, della scuola, delle politiche industriali e del contrasto alle delocalizzazioni, del contrasto alla precarietà del lavoro soprattutto dei giovani e delle donne, della non autosufficienza, tanto più alla luce delle risorse, disponibili in questa fase, che avrebbero consentito una più efficace redistribuzione della ricchezza, per ridurre le diseguaglianze e per generare uno sviluppo equilibrato e strutturale e un’occupazione stabile”. Dunque Cgil e Uil hanno continuato ad omaggiare Draghi, pur considerando “insoddisfacente” la sua manovra su tutti i terreni sociali. E hanno cercato di scaricare le responsabilità delle politiche governative sulle forze di destra che condizionerebbero troppo il fronte governativo.

Significativa è la posizione della Cisl, il secondo sindacato del paese dopo la Cgil. La Cisl non solo non ha aderito alla proposta di sciopero, ma anzi ha convocato per sabato 18 una contromanifestazione nazionale a Roma con un’impostazione esplicitamente antisciopero e filogovernativa.

Certo, i leader delle due sigle sindacali, nei loro interventi di fronte alle migliaia di lavoratrici e lavoratori radunati a Roma a Piazza del popolo, hanno attaccato aspramente il presidente della Confindustria e la destra di governo, risparmiando però dalle critiche più dure Mario Draghi. Hanno alzato il tono sulle politiche fiscali e previdenziali, ma senza definire i punti sui quali si verificheranno i risultati reali e tangibili dello sciopero

Lo sciopero del 16 risulta dunque debole e clamorosamente tardivo. Si colloca in una data nella quale il dibattito parlamentare, già di per sé asfittico visto il panorama politico, sta andando verso la conclusione, tenuto conto che la legge deve essere definitivamente approvata entro questo mese. Non ha una vera piattaforma rivendicativa ma nella sostanza rivendica solo che il governo ascolti i vertici sindacali. Tantomeno è stato preparato, come dovrebbe essere la norma, attraverso una campagna di assemblee nei posti di lavoro che faccia acquisire alle lavoratrici e ai lavoratori la consapevolezza delle poste in gioco. E soprattutto non individua nessuna ipotesi di allargamento e di proseguimento della lotta. Anzi, il proseguimento è completamente affidato alla speranza di aver imposto, con le piazze di oggi, una qualche apertura nell’atteggiamento del governo.

Quanto alle percentuali di adesione, come al solito, è guerra di cifre tra le valutazioni ottimistiche degli apparati sindacali (nel loro comunicato unitario Cgil e Uil dichiarano una partecipazione media dell’85%) e le considerazioni opposte delle forze padronali. Ma la valutazione è contraddittoria e risente della natura un po’ improvvisata dello sciopero: ad esempio molti delegati sindacali hanno denunciato di non aver neanche ricevuto i manifesti e i volantini che proclamavano lo sciopero e ne spiegavano le ragioni. Sull’altro lato si ha il concreto riscontro di fabbriche sostanzialmente bloccate da una partecipazione unanime. E’ comunque certo che in numerose aziende lo sciopero ha coinvolto una significativa maggioranza di lavoratrici e di lavoratori, e questo segnala il permanere, nonostante la stasi pluriennale, di una significativa disponibilità alla lotta. 

Nelle manifestazioni, anche al di là delle fabbriche con una maggiore e più solida esperienza sindacale, si sono visti i volti soddisfatti di tante operaie e di tanti operai che finalmente tornavano in piazza.

Non si deve dimenticare che questo sciopero è stato incompleto, e dunque non veramente generale. Infatti la scuola aveva già scioperato qualche giorno prima, il 10 dicembre, e dunque, in forza delle regole sullo sciopero (condivise e controfirmate anche dai sindacati maggioritari), non è potuta tornare a scioperare a così poca distanza. E, sempre per rispettare gli accordi antisciopero sottoscritti negli scorsi anni anche da Cgil e Uil, non hanno potuto partecipare allo sciopero gli addetti alla raccolta dei rifiuti, i dipendenti delle poste, quelli dei porti, solo parzialmente quelli dei trasporti, e, a causa della pandemia, non hanno scioperato neanche quelli della sanità pubblica e privata. Si tratta di milioni di lavoratrici e lavoratori “esentati” dallo sciopero.

E, inoltre, purtroppo allo sciopero non sono riusciti a partecipare quei milioni di lavoratrici e di lavoratori che operano in condizioni contrattuali particolarmente precarie, a cui i sindacati, quelli tradizionali ma in parte anche quelli alternativi, non riescono a parlare.

La politica, unanimemente, sia quella di governo sia quella di “opposizione” ha condannato lo sciopero. Naturalmente con toni diversi. Il leader del PD, Enrico Letta si è detto “sorpreso” dalla indizione dello sciopero, ritenendolo ingiustificato di fronte ad una manovra finanziaria “equilibrata”, e si propone di “lavorare per una ricomposizione dell’unità sindacale”, evidentemente per lui possibile solo sulla linea filogovernativa della Cisl. Matteo Salvini definisce la giornata del 16 dicembre “irresponsabile, folle e assurda”. E l’intero sistema mediatico, anche qui con toni diversi, ma con contenuti sostanzialmente convergenti, ha trattato l’iniziativa della Cgil e della Uil definendole “ingiustificata”“inopportuna”“intempestiva”“una farsa”… E’ infatti molto significativo che, diversamente dalla consuetudine, nessun esponente politico significativo, neanche quelli più o meno di “sinistra”, si sia presentato nelle piazze della mobilitazione sindacale.

Ed altrettanto significativo è che le prime pagine dei quotidiani all’indomani del 16 dicembre, salvo il “Manifesto”, sostanzialmente dedicano alla notizia dello sciopero uno spazio molto ridotto e in alcuni casi nullo, o totalmente finalizzato a dimostrarne il fallimento.

Il presidente della Confindustria, la principale organizzazione padronale, ha dichiarato: “Lo sciopero del 16 è una strada sbagliata, è un problema per l’Italia. E’ il segno di una diatriba tra una parte del sindacato e il governo che penalizza il mondo del lavoro e le imprese. Gli italiani chiedono di confrontarsi seriamente su un mondo del lavoro che si sta trasformando. Qualcuno è sceso in piazza, ma gli imprenditori come sempre sono andati in fabbrica per mandare avanti l’Italia”.

Si tratta, ovviamente, di un coro reazionario e classista sempre più unanime e sempre più insistente, ma non si può non rilevare che questo sciopero, pur essendo più che necessario, manifesta in modo plateale tutte le contraddizioni di un sindacato che, in modo impotente, cerca di divincolarsi dalle sabbie mobili di una concertazione sociale che gli altri attori (padroni e governo) non vogliono più recitare.

Il sindacato che era nato più di cento anni fa per organizzare gli sfruttati e per difenderne le condizioni di vita e di lavoro, con la concertazione si è illuso di aver conquistato un ruolo istituzionale fatto di incontri nei palazzi del potere, di grandi apparati burocratici (solo la Cgil conta più di 15.000 funzionari a tempo pieno), di partecipazione ai consigli di amministrazione degli enti bilaterali tra imprese e rappresentanti dei lavoratori…

Ma queste gratificazioni burocratiche e di potere erano il frutto marcio di rapporti di forza che non esistono più.

Le grandi organizzazioni sindacali non possono pensare di uscire da quelle sabbie mobili proclamando sporadicamente una giornata di sciopero, per di più senza nessuna vera proposta alternativa e senza alcuna preparazione profonda all’interno di un mondo del lavoro sempre più diviso, disorientato e sfiduciato. Quel che occorre è una svolta profonda di strategia e di collocazione politica, una paziente e risoluta azione di ricostruzione dell’unità e della consapevolezza di classe delle lavoratrici e dei lavoratori. Ma tutto ciò non potrà mai venire da queste direzioni sindacali, che per farlo dovrebbero smentire e condannare se stesse e il loro operato pluridecennale.

Certo, il 16 dicembre hanno scioperato tante lavoratrici e tanti lavoratori. E tanti sono scesi in piazza. Ma quali saranno i risultati che quello sciopero produrrà? Nella migliore delle ipotesi si riaprirà il tavolo del confronto nei palazzi del governo (i vertici sindacali sono già convocati per lunedì 20 per ascoltare le ipotesi governative sulle pensioni). Forse si otterrà qualche minima modifica alla legge di bilancio, magari la reintroduzione dell’emendamento Draghi che promette di fare uno sconto di un paio di centinaia di euro (in tutto l’anno) sui costi per gas ed energia elettrica delle famiglie più bisognose.

Qualunque dei risultati possibili rischia di non cambiare di una virgola la situazione sociale del paese, al massimo potrà dare un po’ di respiro ad una burocrazia sempre più inerme. Anzi, il rischio è che sempre più numerosi siano le lavoratrici e i lavoratori che riterranno inutilmente testimoniali le iniziative di sciopero.

Nelle fila del sindacalismo di base si è prodotto un dibattito sul che fare giovedì 16, un dibattito che fa riemergere significative differenze di metodo tra le varie organizzazioni del sindacalismo combattivo, se cioè lasciare che le lavoratrici e i lavoratori della base della Cgil “cuociano nel loro brodo” e constatino la situazione disastrosa in cui le burocrazie a cui si affidano hanno prodotto, oppure, anche se nei limiti di una giornata come quella descritta, scegliere di affiancarli nella lotta, naturalmente non rinunciando di sottolineare i pesantissimi limiti di quella iniziativa e di proporre percorsi alternativi.

Un comunicato dell’esecutivo nazione dell’USB (Unione sindacale di base), uscito immediatamente dopo la notizia della proclamazione dello sciopero Cgil-Uil, si concludeva con questa frase: “La nostra battaglia contro il governo Draghi, contro l’ipotesi di prosecuzione del banchiere europeo alla guida del governo o del Paese non ha nulla a che vedere con questo sciopero, che non ci interessa e non ci riguarda”.

Al contrario, l’esecutivo nazionale del SiCobas (Sindacato intercategoriale dei Cobas – Lavoratori Autorganizzati), dichiarava: “Chi sciopererà il 16, rinunciando a una giornata di lavoro e di salario, non lo farà per sostenere gli apparati burocratici, ma perché spinto dalla necessità di difendere le proprie condizioni immediate di vita, di lavoro e salariali. Per questo il SiCobas non solo saluta positivamente lo sciopero, ma invita i lavoratori, ovunque possibile, ad utilizzare la data del 16 come un’occasione e un’opportunità per fermare sul serio la produzione e la circolazione delle merci, e per  rilanciare le parole d’ordine e le battaglie che hanno animato le lotte e le mobilitazioni reali di questi mesi, gli scioperi contro i licenziamenti e le ristrutturazioni padronali, e a diffondere i contenuti e le ragioni espresse dallo sciopero generale del sindacalismo di base dell’11 ottobre, e per utilizzare anche questa data come tappa intermedia per la costruzione di una mobilitazione e di uno sciopero davvero generale contro le politiche del governo”.

A livello di base sono state prese anche altre iniziative: ad esempio i delegati USB della Stellantis di Melfi hanno pubblicato un comunicato con cui si invitano i colleghi di lavoro a partecipare allo sciopero del 16 “per non lasciare i lavoratori nelle mani di chi, ancora una volta, cercherà di utilizzarli per il proprio tornaconto”. Altrettanto ha fatto l’USB della OCME di Parma che ha deciso di aderire allo sciopero, non sulla piattaforma di Cgil e Uil, ma ribadendo quella che era stata la piattaforma dello sciopero del sindacalismo di base dell’11 ottobre.

*Sinistra Anticapitalista