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Fra pochi giorni, il 24 gennaio, inizieranno le votazioni per eleggere il Presidente della Repubblica, evento annunciato e soprattutto spettacolarizzato dai media. Il suo ruolo si è storicamente caratterizzato in senso “stretto” o “largo”, secondo la contingenza del momento, della personalità del singolo, del peso dei partiti: meno è rilevante e più i poteri del Presidente tendono a estendersi nell’area del potere legislativo e esecutivo. Negli ultimi tre decenni la tendenza a un presidenzialismo strisciante, tra le maglie della Costituzione, si è manifestata più volte con caratteristiche più o meno “spettacolari”, secondo la personalità dei presidenti. Se fosse eletto Mario Draghi sarebbe la prima volta che un capo del governo passa direttamente alla presidenza della repubblica, si porrebbe l’incompatibilità tra i due incarichi e dovrebbe lasciare quello governativo.

Al di là della politica-spettacolo, si tratta di un problema serio perché s’interseca con l’indebolimento dei partiti, così come li avevamo conosciuti nel secolo scorso – caratterizzati da strutture permanenti articolate in organizzazioni locali mantenute in costante attività – e la loro sostituzione con forme politiche che paiono richiamare il vecchio sistema del notabilato. Quei partiti, che si distinguevano per la scarsa presenza di un ceto omogeneo e coeso, non riuscivano a diventare classe politica dirigente. Tendevano a “personalizzare” la gestione della cosa pubblica, si dividevano in fazioni in contrasto tra loro ma sempre pronte al compromesso e al trasformismo. Il risultato era la perdita di autorevolezza della rappresentanza delle classi dominanti con conseguente delegittimazione dello Stato, unita all’incapacità di integrare larghi strati della popolazione, all’epoca per altro esclusi dal voto con la legge del suffragio ristretto.

Oggi assistiamo a una riformulazione del suffragio ristretto non più imposto per legge, ma realizzato secondo una sorta di darwinismo sociale che porta all’autoesclusione dal voto da parte di gruppi socialmente deboli e politicamente non rappresentati. Sono noti i numeri “pesanti” dell’astensione. Votano soprattutto gli abitanti delle grandi e medie città, ma non tutti, prevalentemente quelli che abitano i centri pedonalizzati, a traffico limitato, urbanisticamente ben “vestiti”, mentre là dove vivono fasce medie e basse di popolazione il voto è una pratica calante. Ne consegue che nell’ambito delle minoranze votanti, i partiti “per bene”, progressisti e liberisti hanno la possibilità di ottenere una relativa maggioranza numerica. La crisi dei partiti e del ceto politico spiega il ricorso della borghesia ai “bonaparte” che si ergono al di sopra dei partiti e governano per incarico conferito dal Presidente della repubblica, come nell’esemplare caso di Mario Monti. In questa travagliata legislatura, dopo varie combinazioni di maggioranze parlamentari, la borghesia ha trovato nel Presidente del consiglio Mario Draghi un funzionario efficiente, con l’autorità necessaria per poter riorientare le politiche economiche, sociali, legislative volute dall’Unione europea – di cui egli stesso è stato tra i principali artefici – e per tenere insieme una altrimenti impossibile maggioranza parlamentare. Chiunque sia il prossimo Presidente, la sua elezione si inserisce in un processo di scivolamento presidenzialistico di fatto, nel quale si realizza una forma di potere che mescola la presidenza col potere esecutivo e legislativo, in un contesto in cui è in atto una riduzione del Parlamento al ruolo di ratificatore dei provvedimenti adottati dall’esecutivo. Chi sarà il nuovo Presidente? L’esito dipenderà dalla combinazione-scontro tra gli interessi della borghesia, delle forze politiche e dei parlamentari.