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Ci sono voluti solo quattro giorni di rivolta popolare perché il regime di Nursultan Nazarbayev, al potere dal 1989, crollasse dopo 32 anni. Guardando le statue che cadono, si può solo essere felici e sorpresi. Certo, era inevitabile: i regimi politici che non si riformano costantemente mentre le loro società si evolvono rapidamente si induriscono e improvvisamente si frantumano come vetro.

La storia moderna dell’Asia centrale avrebbe potuto essere diversa. Alla fine degli anni ’80, mentre l’Unione Sovietica passava dalle riforme al caos, molti prevedevano incertezza, instabilità, guerre etniche e rivolte islamiste. Sostenevano che gli stati dell’Asia centrale erano creazioni sovietiche, che avevano confini artificiali, che mancavano di tradizioni statali e di un sentimento nazionale, e che alla fine si sarebbero disintegrati con la scomparsa del loro creatore, il centralismo dell’URSS.

Queste previsioni non erano infondate. Le tensioni interetniche erano alte negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, a partire dai pogrom anti-meskhetiani [turchi meskhetiani stabiliti in Uzbekistan] a Fergana, Uzbekistan (giugno 1989), e il conflitto interetnico tra kirghisi e uzbeki a Uzgen e Osh, Kyrgyzstan (maggio 1990). In Tagikistan, un esperimento democratico di breve durata ha scatenato una guerra interna nel 1992, che sembra aver causato decine di migliaia di morti.

Anche la ribellione islamista armata è reale. L’Afghanistan è appena oltre il confine con l’Uzbekistan, il Tagikistan e il Turkmenistan. Non solo geograficamente, ma anche etnicamente e culturalmente, è un’estensione dell’Asia centrale, separata solo dalla cortina di ferro. Ci sono anche gruppi islamisti armati locali in Uzbekistan e Tagikistan. Il Movimento islamista dell’Uzbekistan, fondato da Tahir Yuldashev e dal maggiore Juma Namangani, ha preso parte alla guerra civile tagika, ad attacchi all’interno dell’Uzbekistan (MIO), prima di unirsi ad al-Qaeda nella regione di confine tra Afghanistan e Pakistan. I due fondatori del MIO sono stati uccisi da attacchi di droni americani. Un’altra figura famigerata è il saudita Ibn al-Khattab, che ha combattuto in Tagikistan prima di unirsi alla ‘jihad’ in Cecenia.

Per finire, le caste dominanti dell’epoca sovietica in Asia centrale erano in profonda crisi, ed erano testimoni di una grave lotta di potere tra la maggioranza conservatrice e le minoranze pro-Gorbaciov. Molti leader dell’Asia centrale, come Nazarbayev, ma anche Islam Karimov in Uzbekistan e Askar Akayev in Kirghizistan, sono arrivati al potere con il sostegno di Gorbaciov. Non era quindi chiaro che sarebbero stati in grado di portare stabilità.

Stabilità o stagnazione?

Per la maggior parte dei tre decenni successivi al crollo dell’URSS, l’Asia centrale è rimasta “stabile”. Questa stabilità ha avuto un prezzo: la nomenklatura dell’era sovietica è rimasta al potere e ha imposto la sua cultura politica dell’era Brezhnev: quella della stagnazione. Tre decenni di condizioni politiche stabili durante i quali non sono state realizzate riforme economiche, sociali e politiche significative, tranne la sostituzione dell’ideologia di tipo sovietico con il nazionalismo ordinario. Con l’indipendenza, la nomenklatura kazaka si è liberata dai “pianificatori centrali” di Mosca, non avendo a questo punto alcun limite. Le grandi entrate in petrodollari accumulate grazie alle enormi risorse energetiche – si stima siano circa il 3% delle riserve mondiali di petrolio – sono state utilizzate per arricchire le famiglie al potere e quelle a loro associate.

Invece di usare il vantaggio di tre decenni di stabilità e le massicce quantità di petrodollari disponibili per i cambiamenti necessari, la casta dirigente del Kazakistan ha sprecato risorse finanziarie e tempo politico. Le sue caratteristiche forti possono essere riassunte in corruzione, consumismo e una stravaganza architettonica faraonica visibile nella nuova capitale. Dal punto di vista politico, quello costruito da Nazarbayev è un sistema autoritario, eliminando il pluralismo politico limitato – oligarchico – che esisteva negli anni ’90. Ha poi istituito un culto della personalità nella migliore tradizione stalinista: la sua nuova costosa capitale è stata chiamata con il suo nome: Nursultan [precedentemente chiamata Astana]. Nel 2019, a 79 anni, ha ceduto la presidenza a Kassym-Jomart Tokayev, un diplomatico senza potere indipendente. Eppure Nazarbayev ha mantenuto le redini del potere come capo del “Consiglio di sicurezza del Kazakistan“.

Gli eventi del 2022 in Kazakistan rivelano che le sfide che i paesi post-sovietici hanno affrontato negli ultimi tre decenni sono ancora tutte presenti: costruire un nuovo regime politico con istituzioni legittime e funzionanti, e modernizzare le loro economie per fornire sufficienti opportunità di lavoro ai giovani. Queste sono le due sfide che anche Gorbaciov ha affrontato. La sua risposta ha preso la forma di Perestroika e Glasnost, ma queste non hanno dato risultati. Molte caste dirigenti post-sovietiche si sono rivolte all’autoritarismo sotto la maschera del nazionalismo, poggiandosi sulle esportazioni di energia o di minerali. Questo modello, assai statico, è ora in crisi. La rivolta del 2020 in Bielorussia è stata innescata da brogli elettorali, cioè una sfida alla legittimità politica di Lukashenko, mentre in Kazakistan la causa scatenante è stata una profonda crisi socio-economica, simboleggiata dall’aumento dei prezzi del gas.

Quella a cui stiamo assistendo in Kazakistan non è una “rivoluzione colorata”*: la lotta non riguarda elezioni contestate; la rivolta non ha una rappresentanza esplicita; e gli eventi hanno già preso una piega molto violenta. L’era delle “rivoluzioni colorate” è andata avanti. Chi si ricorda oggi che all’epoca della “rivoluzione delle rose” in Georgia, Putin mandò il suo ministro degli esteri, Igor Ivanov, a Tbilisi per mediare tra Eduard Shevardnadze [ministro degli esteri dell’URSS nel 1985 e 1990, poi presidente della Georgia dal 1992 al 2003] e Mikheil Saakashvili [presidente della Georgia dal 2004 al 2007 e dal 2008 al 2013, già ministro della giustizia nel governo Shevardnadze]? Da allora, il nostro mondo è cambiato. La Russia ha truppe in Siria che bombardano ancora quotidianamente le zone ribelli, mentre Lukashenko reprime violentemente manifestazioni pacifiche.

La Russia non ha inviato diplomatici e negoziatori in Kazakistan, ma “truppe di pace” sotto la bandiera dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO). Ironia della sorte vuole che la CSTO sia ora guidata nientemeno che dal primo ministro armeno Nikol Pashinian, salito al potere a seguito di proteste di piazza, e le cui richieste di assistenza CSTO nel 2020-2021 contro l’aggressione azera erano state semplicemente ignorate.

L’intervento militare russo può stabilizzare la casta al potere per un certo periodo, ma aggraverà la sua mancanza di legittimità. Mentre gli eventi si susseguono, rimangono molte domande: quanto sarà sanguinoso il prossimo capitolo della storia del Kazakistan? La statualità del Kazakistan sopravviverà all’esplosione interna e all’intervento straniero? E, infine, come faranno i regimi autoritari vicini – in particolare l’Uzbekistan – a sopravvivere alle scosse tettoniche in atto in Kazakistan?

*Vicken Cheterian è un giornalista e scrittore nato in Libano, che insegna relazioni internazionali alla Webster University di Ginevra. Questo articolo è apparso sul sito alencontre.org. La traduzione in italiano è stata curata dal segretariato MPS.

*Appellativo attribuito dai media internazionali e dai soggetti coinvolti a una serie di movimenti simili e correlati tra di loro che si sono sviluppati principalmente in alcuni stati post-sovietici negli anni 2000. In particolare si ricordano quelle in Georgia (rivoluzione delle rose, 2003), in Ucraina (rivoluzione arancione, dicembre 2004 e gennaio 2005) e (benché con derive violente) in Kirghizistan (rivoluzione dei tulipani, 2005). (NdT)