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L‘Afghanistan resta una fotografia che si guarda da lontano, un’indignazione che finisce solo per marcare la differenza tra loro e noi, che non impegna anzi che si delinea come robusta complicità tra chi ha partecipato a quella guerra. Ci vorrebbe un forte movimento internazionale, come quello che nacque dopo l’invasione e crebbe contro la guerra in Iraq.

La situazione dell’Afghanistan è assolutamente drammatica. Dopo venti anni di guerra e occupazione militare, la restituzione del paese al regime talebano, sancita con gli accordi di Doha, ci restituisce un quadro che mostra il totale disastro e la completa devastazione in cui versa il paese.
L’attenzione internazionale, a seguito del ritiro/fuga degli USA lo scorso agosto 2021 si è completamente spenta, il faro acceso sull’Afghanistan ha illuminato le sue vite per pochi istanti.
Non viene diffusa più alcuna notizia sulle condizioni reali del paese perché osservare l’Afghanistan vuol dire fare i conti con i risultati delle politiche di guerra e con i modelli di difesa che hanno animato i nostri governi, quelli degli Stati Uniti, dell’Unione Europea.
In Afghanistan c’è una crisi economica spaventosa che sta portando il paese sull’orlo del disastro umanitario. Nonostante questa sia l’unica cosa nota, ben poco si muove dal punto di vista degli aiuti umanitari.
 A fine dicembre 2021 gli Stati Uniti hanno aperto uno strettissimo spiraglio per far arrivare aiuti a ONU e ONG per la popolazione senza incorrere nelle rigide sanzioni che gli USA hanno approvato al congresso nei confronti del regime talebano a cui loro stessi hanno riconsegnato il paese.
Senza aiuti e senza pagare gli stipendi a chi lavora per la macchina dello Stato afghano, quindi senza retribuire medici, insegnanti e chi si occupa di servizi pubblici è chiaro che il paese collasserà.
Tutti i governi internazionali hanno bloccato ogni commercio e transazione con l’Afghanistan, ogni progetto per lo sviluppo si è paralizzato.
Quello che viene chiesto a più voci dalla società civile afghana e soprattutto dalle donne di Rawa è che non venga assolutamente mai riconosciuto il governo afghano.
Non funzionano più le scuole e gli ospedali, l’istruzione e la cura è affidata agli operatori umanitari e alle comunità e associazioni afghane che riescono a portare avanti il loro lavoro volontario quando non vengono represse e perseguitate come accade alla resistenza civile al regime talebano.
La terribile carestia e povertà diffusa, la disoccupazione dilagante stanno portando alla disperazione la popolazione, si registra un notevole aumento di suicidi dovuti alla totale mancanza di reddito per rendere possibile la pur minima sopravvivenza.
La condizione delle donne è verticalmente peggiorata non hanno più alcuna possibilità di avere un lavoro e un’istruzione, di avere una vita degna di questo nome.
La repressione contro le rivolte e le proteste delle donne da parte del regime talebano è serrata e implacabile.
L’Unione Europea guarda a distanza il drammatico minuetto sugli aiuti umanitari, ma non si limita a questo, veste l’abito dell’indignazione.
Abbiamo quindi alcuni articoli sulla stampa italiana e internazionale che indugiano anche con una qualche morbosità sulla descrizione della vendita delle bambine come se fossero un bene alienabile della famiglia, come quello apparso sul Corriere della Sera il 9 gennaio 2022, oppure quello di Repubblica apparso il 15 gennaio 2022 che racconta una popolazione che muore di fame e di freddo, e funerali che invadono le strade.
Ma resta una fotografia che si guarda da lontano, un’indignazione che finisce solo per marcare la differenza tra loro e noi, che non impegna anzi che si delinea come robusta complicità tra chi ha partecipato a quella guerra e ammiccamento ad un possibile ulteriore coinvolgimento militare.
Ci vorrebbe un forte movimento internazionale, come quello che nacque dopo l’invasione dell’Afghanistan e che crebbe contro la guerra in Iraq.
Ci vorrebbe un forte e vivace attivismo sociale internazionale che si affianchi alla società civile che ancora resiste in Afghanistan, alle donne attiviste di Rawa che continuano con grandi difficolta ad agire il proprio conflitto e il proprio impegno politico e sociale.
A guardarle da lontano le mobilitazioni presenti in Afghanistan sembrano poca cosa, quando non si considera il livello di cruda repressione a cui il regime sottopone chi si ribella, ma ad uno sguardo più attento sembra quasi surreale e quindi molto coraggioso e audace, che oggi ci riempie di speranza, che si organizzino proteste e rivolte di donne in tutto il paese. Nelle condizioni date ci sembra assolutamente vitale che percorsi diversi di donne siano riusciti a riunirsi a Kabul in un gruppo più grande che si chiama Movimento spontaneo delle donne afghane.
Possiamo e dobbiamo fare qualcosa di utile, possiamo puntualmente riportare l’attenzione sulla popolazione afghana, possiamo creare iniziative e raccolte fondi a sostegno delle donne di Rawa.
Abbiamo il compito politico e sociale di riportare le mobilitazioni sociali che sorgono nonostante il rischio costante di venire rase e rasi al suolo.
Le donne afghane che bruciano il burqa in strada a Kabul, ed è storia degli ultimi giorni, sottolineando che non fa parte della loro storia, né della storia di nessuna donna, che contestano con modalità dirette e radicali le restrizioni del Ministero della Virtù e del Vizio, vanno sostenute ma vanno soprattutto raccontate. Le donne afghane che costruiscono il conflitto e la ribellione fanno meno notizia perché sono la forza afghana che accorcia le distanze e che esorta il mondo a non tacere sulle loro vite e sui loro diritti.

*Sinistra Anticapitalista