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Il film del 1997 “Wag the Dog” [uscito in Italia con il titolo “Sesso & potere”] descrive un tentativo di distogliere l’attenzione da uno scandalo sessuale che coinvolgeva un presidente americano mettendo in scena una guerra in stile hollywoodiano in Albania. Il carattere premonitore che il film acquisì poco dopo la sua uscita – quando Bill Clinton rimase invischiato nello scandalo sessuale che coinvolse Monica Lewinsky e si impegnò in varie avventure militari che culminarono nella guerra del Kosovo del 1999 – lo rese un riferimento inevitabile per ogni caso in cui un leader politico viene sospettato di mettere in scena un grande evento allo scopo di distrarre l’opinione pubblica da problemi che lo mettevano in imbarazzo – una recente ”lei” immaginaria è la presidente Orlean nel film “Don’t Look Up” (Non guardare in alto del 2021).

È difficile non pensare al film del 1997 quando si contempla il fatto che i due leader occidentali che stanno mostrando l’atteggiamento più duro verso Mosca nell’attuale confronto sull’Ucraina sono Joe Biden e Boris Johnson, entrambi coinvolti in situazioni imbarazzanti in patria. Biden ha iniziato a rovinarsi seriamente la reputazione con il suo spettacolare fallimento nell’organizzare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Ha perso ogni credito residuo dimostrandosi impotente di fronte alla destra del suo stesso partito che ha bloccato i suoi progetti economici notevolmente annacquati. Johnson ha raggiunto l’apice della sua carica di primo ministro con lo scandalo “partygate”, dopo una serie di guai imbarazzanti, tutti derivanti da una evidente difficoltà ad attenersi ai principi e alla sobria verità.

Entrambi stanno sostenendo la posizione dura nel confronto con Mosca. La forte insistenza di Washington e Londra sull’imminenza dell’aggressione russa suona quasi come un desiderio che la profezia possa rivelarsi auto-avverante. Mosca ironizza facilmente sulle loro dichiarazioni presentandole come “isteriche”. I loro gesti militari sono pietosi se paragonati alla concentrazione di forze russe ai confini dell’Ucraina. E la loro stessa enfasi sull’imminenza dell’invasione dà agli ucraini la sensazione che queste prese di posizione siano aria fritta e che entrambe le capitali abbiano deciso di abbandonarle, dato che si stanno impegnando a non farsi coinvolgere militarmente nel conflitto e inoltre chiedono ai loro cittadini di lasciare l’Ucraina per evitare qualsiasi rischio di essere costretti ad intervenire.

Joe Biden probabilmente crede che, dopo aver fallito nell’ispirare paragoni con Roosevelt nel portare a termine un surrogato di New Deal, potrebbe rimediare gestendo un surrogato di guerra mondiale.

Boris Johnson, il cui eroe è Winston Churchill, probabilmente sogna di consegnare al popolo britannico qualcosa di drammatico come il discorso “sangue, fatica, lacrime e sudore“, dopo che il suo primo tentativo legato a Covid si è ora trasformato in imbarazzo.

Per quanto riguarda il ministro degli Esteri Liz Truss, che è pronta a sostituire Johnson nel caso in cui il “partygate” finisca per costringerlo a gettare la spugna, il suo eroe è Margaret Thatcher, la cui impresa militare fu la guerra delle Falklands.

La sua esibizione al Cremlino è stata patetica: non aveva praticamente nulla da offrire, e le sue minacce sono state sprezzantemente respinte dalla sua controparte russa. Più importante, tuttavia, il viaggio includeva per Liz Truss “una visita alla Piazza Rossa vestita con un cappello di pelliccia nonostante il clima caldo fuori stagione, in un apparente tentativo di canalizzare le immagini di Margaret Thatcher in un tour di Mosca”, come notato dai corrispondenti del Financial Times.

Con questo comportamento così ostentato, il governo di Boris Johnson sta cercando di fare del suo meglio per confermare la ”relazione speciale” con il Grande Fratello americano che era così caro a Tony Blair. E come quest’ultimo per quanto riguarda l’invasione dell’Iraq del 2003, volta le spalle ai suoi pari europei, Francia e Germania, per fare da rimorchio al camion di Washington, con un maggiore margine di manovra ora che il Regno Unito ha lasciato l’UE.

Il calcolo è ancora più miope questa volta che nel 2003. Gli Stati Uniti sono molto meno rispettati oggi di quanto lo fossero vent’anni fa – non da ultimo a causa del fallimento catastrofico delle due guerre che hanno condotto in Afghanistan e in Iraq in quel periodo. E Parigi e Berlino sono perfettamente avvedute nel mostrare una certa comprensione per le preoccupazioni di sicurezza di Mosca, che non sono certo stravaganti se paragonate a quelle di Washington o alle loro.

Se le tragedie sono destinate a ripetersi come farse, l’atteggiamento dell’élite di Westminster oggi è davvero una riproduzione farsesca di quello del 2003. Allora i conservatori appoggiarono la guerra di Tony Blair. Oggi, l’erede di Blair, Keir Starmer, sostiene i gesti del governo conservatore e cerca di superare tutti nel giurare fedeltà alla Nato. La pretesa dei nuovi Guerrieri Freddi di difendere la sovranità dell’Ucraina insistendo a tenere la porta aperta per farla entrare nella Nato è un puro cavillo.

La richiesta di Mosca non è rivolta all’Ucraina ma all’Alleanza. Non sta vietando all’Ucraina di chiedere l’adesione alla Nato; sta chiedendo che l’Alleanza stessa riconosca di aver raggiunto il limite della sua espansione verso Est. Nel 1962, Washington non ha vietato a Cuba – parte del cui territorio gli Stati Uniti occupano ancora, tra l’altro – di invitare Mosca a schierare missili sull’isola. Ha preteso da Mosca che fossero rimossi. Grandi potenze che si bullizzano a vicenda a spese di Paesi più deboli, ridotti a merce di scambio: questa è l’orrenda realtà della nostra giungla globale.

*Gilbert Achcar è docente universitario libanese, scrittore e attivista anticapitalista e anti-guerra. Ha vissuto in Libano prima di emigrare in Francia nel 1983. Ha insegnato Politica e Relazioni Internazionali all’Università di Parigi VIII fino al 2003. Dall’ agosto 2007, Achcar è Professore of Development Studies and International Relations alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Questo articolo è apparso su www,labourhub.org.uk e tradotto a cura del sito rproject.it