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La guerra in corso sta sconvolgendo un sistema mondiale che era già profondamente in crisi prima del suo inizio. Per cercare di capire quella che è la posta in gioco a livello globale, in questa panoramica leggiamo gli eventi bellici nel contesto più ampio di crisi economica, pandemia, corsa agli armamenti, ivi compresi quelli nucleari, e ascesa ovunque delle forze ultrareazionarie, ma anche di crescita di grandi movimenti democratici con le loro profonde contraddizioni.

Premesse

La portata della guerra scatenata dal regime di Mosca contro l’Ucraina può essere compresa a fondo solo ponendo gli eventi in corso nel contesto mondiale di crisi sistemica, in massima parte già in atto prima dell’inizio dell’aggressione russa il 24 febbraio. La guerra ha aggiunto a questo stato di crisi preesistente da una parte il salto di qualità effettuato da una potenza mondiale come la Russia, che aspira a un mondo diviso in grandi blocchi stabili nell’ambito del quale punta a ricreare l’Impero Russo, salto di qualità che chiama in gioco anche la Cina, volente o nolente, e dall’altra l’inattesa ritrovata compattezza dell’asse euro-atlantico, al quale si sono unite anche potenze industriali asiatiche come il Giappone e la Corea del Sud. In questo momento non è chiaro né se la guerra di Mosca comporterà un balzo in avanti dei progetti di “mondo diviso in grandi blocchi” oppure un loro passo indietro, né quanto durerà la compattezza di europei, Usa e loro alleati asiatici, e nemmeno quale direzione complessiva prenderà la Cina. Ma la posta in gioco va ampiamente al di là di questi aspetti, come cerco di riassumere qui di seguito sulla base di quelle che sono le coordinate essenziali di una crisi sistemica. Molti aspetti sono ben evidenti già da tempo, ma vale la pena di fare un quadro generale che cerchi di riassumere tutti i fattori più importanti. Gli aspetti che affronto sono nell’ordine: 1) la crisi economica mondiale; 2) la crisi delle supply chain e i suoi riflessi; 3) la crisi sanitaria conseguente alla pandemia di Covid; 4) la crescita della competizione nell’ambito delle armi nucleari; 5) la crescita delle forze reazionarie in tutto il mondo; 6) l’ascesa di movimenti di massa a livello globale, nonché i loro punti forti e deboli.

Crisi del sistema economico mondiale

Il capitalismo mondiale è giunto all’appuntamento con questa guerra in uno stato di profonda crisi, sebbene in parte occultata dal recente fragile rimbalzo in seguito a quella che si pretende essere la “fine della pandemia”. In sostanza, la grave crisi economica apertasi nel 2008-2009 non è mai finita e, al contrario, si è sotterraneamente aggravata nel tempo. Tutte le principali economie avanzate, senza eccezioni, dagli Usa e l’Ue fino alla Cina e al Giappone, passando per altre di entità meno rilevante, come per esempio la Corea del Sud e la Turchia, hanno inondato il sistema economico di liquidità a livelli mai visti nella storia del capitalismo, adottando al contempo politiche monetarie basate su tassi a zero, o quasi, anch’esse senza precedenti storici, soprattutto per quanto riguarda la loro durata. Lo hanno fatto con metodi diversi. La Cina in particolare si è basata su strumenti di credito e di gonfiamento della bolla più diffusi rispetto a quelli dispiegati per esempio da Usa e Ue, maggiormente incentrati sulle banche centrali, ma l’esito ultimo è stato lo stesso: una vertiginosa massa di debito, statale, delle imprese o al consumo, ancora una volta senza precedenti storici. A fine 2021, secondo stime di S&P, il debito mondiale ammontava addirittura al 260% del Pil mondiale. Tutto ciò in presenza di un ristagno della produttività in atto da decenni e dal quale i vari stati non riescono in alcun modo a uscire. La massa monetaria messa in circolazione, in assenza di guadagni di produttività e di una sufficiente redditività degli investimenti produttivi, è andata a finire massicciamente nella speculazione finanziaria, creando nuove bolle. Il passaggio anche solo limitato e temporaneo di una parte di liquidità alla popolazione lavoratrice, come è avvenuto nel 2020-2021 sotto forma di sussidi per fare fronte alla pandemia, si è immediatamente tradotto nel 2021 in una sproporzionata ascesa dell’inflazione. In questo decennio e più di crisi, gli occasionali timidi tentativi di limitare le immissioni di liquidità, come il tapering del 2013 negli Usa o le modeste misure adottate nel 2021 dalla Cina per frenare la sua gigantesca bolla immobiliare, si sono regolarmente tradotti in sconquassi potenzialmente sistemici che hanno avuto come conseguenza un immediato passo indietro e un ulteriore gonfiamento delle immissioni di liquidità. In breve, l’economia mondiale è seduta su una bomba a orologeria che inevitabilmente prima o poi, e in un modo o nell’altro, dovrà scoppiare. La guerra in corso non è e non sarà la causa di una crisi economica mondiale, con i suoi riflessi inflazionistici o di forti turbamenti sui mercati, ma metterà senz’altro decisamente più a nudo questo stato di crisi preesistente.

Supply chain / guerre tecnologiche / tendenze protezionistiche

Un aspetto importante della crisi sistemica mondiale, che rientra in realtà nella sfera trattata dal punto precedente, ma merita una menzione a parte anche alla luce della guerra in corso, è quello delle supply chain (le catene di approvvigionamento, o fornitura, delle grandi aziende su cui si basa il sistema produttivo globale), anch’esse in situazione critica, sebbene non ancora con effetti sistemici immediati. La guerra dei dazi avviata nel 2018 da Trump contro la Cina prima, e poi la pandemia dal 2020, nonché alcuni eventi di disastri di natura climatica, hanno scosso profondamente questo sistema a ramificazione globale che ha nella Cina il suo perno principale in termini di prodotti industriali. Per decenni quest’ultima è stata data come un elemento di sicurezza scontato: lavoratori a prezzo ribassato e messi a tacere dalle repressioni, sistema politico monopartitico ultrastabile, masse di debito che assicurano infrastrutture e sbocchi di mercato, ottimi rapporti diplomatici con gli altri centri del capitalismo mondiale, sia in occidente che in Asia. L’onda lunga della crisi, e il conseguente inasprirsi della concorrenza per spartirsi un bottino sempre più difficile da conquistare, o più semplicemente problematiche interne ai vari paesi, hanno tuttavia progressivamente minato alcune di queste basi. Minato non vuol dire rivoluzionato: la Cina continua diligentemente a svolgere il proprio ruolo, ma il proseguimento di quest’ultimo sul medio termine è ora messo in questione. La pandemia ha ulteriormente esasperato i timori per le supply chain, amplificandoli al di là della Cina. Perfino la guerra avviata dalla Russia, un paese che non è certo una grande potenza economica, sta provocando enormi scosse, e ciò non solo nel settore energetico, ma anche, ad esempio, nel settore automobilistico o in quello agricolo. Le multinazionali e le altre aziende con proiezione estera, molte delle quali hanno già lentamente avviato modifiche delle loro supply chain (per es. diversificazione su più paesi, riassorbimento “in patria” di produzioni esternalizzate ecc.), ora saranno ancora più incentivate a farlo e ad accelerare i tempi. Solo che, vista la complessità e la ramificazione delle supply chain, sarà un processo che richiederà necessariamente tempo. E che avrà importanti riflessi di politica internazionale. Un esempio è quello dei semiconduttori, la componente elettronica ormai indispensabile per una fetta enorme della produzione mondiale, dagli elettrodomestici fino agli smartphone, alle automobili e agli armamenti, tanto da farne oggi un elemento sicuramente non meno rilevante per il sistema mondiale di materie prime come petrolio e gas. A differenza di queste ultime, la supply chain dei semiconduttori, in particolare di quelli più avanzati e rilevanti, è complessa e strettamente compartimentata. Le mask, l’elemento primario e più sofisticato tecnologicamente, sono prodotte solo negli Usa, i circuiti integrati maggiormente avanzati solo in Corea del Sud e in Giappone, l’assemblaggio e il testaggio, che richiedono entrambi dispositivi ad altissima tecnologia, sono quasi un monopolio di Taiwan, i macchinari per la produzione avanzata li produce praticamente solo l’Olanda, i wafer, i supporti dei circuiti, hanno una base produttiva leggermente più ampia, ma basata di nuovo principalmente in Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Ue. La Cina ha una notevole produzione di semiconduttori, ma di livello tecnologico più basso nonché dipendente dalle forniture estere, e finora ha fallito nella “rincorsa”. Inoltre, è oggetto da un paio di anni di una guerra tecnologica degli Usa le cui misure stanno dando risultati più efficaci di quelle della guerra dei dazi. Questo sommario excursus nel sistema mondiale dei semiconduttori è utile per capire alcune coordinate fondamentali di un’altra possibile guerra contemporanea: quella eventuale della Cina per annettersi Taiwan. Da una parte, la Cina conquistando l’isola potrebbe impossessarsi, stante però l’assenza di distruzioni e una pressoché totale collaborazione dei tecnici taiwanesi, entrambi difficilmente ipotizzabili, di un importante elemento della produzione di semiconduttori avanzati, ma non avrebbe come utilizzarlo mancandole sia il know-how sia, soprattutto, il controllo di tutti gli altri anelli della catena, in mano ai suoi “nemici”. Dall’altra, se lo facesse rischierebbe di spezzare la supply-chain dei semiconduttori con potenziali effetti catastrofici sull’economia mondiale, che coinvolgerebbero sì i suoi concorrenti politici, dagli Usa fino al Giappone, ma ancora prima di essi la Cina stessa, che come tutti non può andare avanti senza semiconduttori e ha una posizione più fragile degli altri. Non è un caso che nel 2021 Taiwan, sottoposta a pressioni politiche di Washington, Tokyo e Seul, abbia avviato grandi progetti per la delocalizzazione di una parte della propria produzione negli Usa, in Giappone e nella Corea del Sud. Ma gli impianti per la produzione di semiconduttori di punta sono un po’ come le centrali nucleari: la loro realizzazione ha un costo che si aggira sui 10-15 miliardi di dollari e ci vogliono un bel po’ di anni prima che diventino operativi. La statunitense Intel da parte sua sta organizzando un rimpatrio negli Usa di parte della propria supply-chain. E, come già accennato, dinamiche simili sono in atto in altri settori industriali.

Tutti questi sviluppi si tradurranno inevitabilmente in forme di protezionismo, nazionale o di “blocchi”, che a loro volta, alla luce anche dell’ascesa politica globale dell’estrema destra, di cui più sotto, rischiano di essere il terreno di cultura ideale per nuovi sciovinismi e politiche mirate da una parte a dividere la classe lavoratrice internazionale, dall’altra a cooptarla in un contesto ideologico reazionario.

Pandemia

La pandemia che devasta da due anni tutto il mondo e che secondo le più recenti stime di un ampio studio pubblicato da Lancet ha causato in meno di due anni, fino a fine 2021, oltre 18 milioni di morti, non è affatto al suo tramonto. Lo è solo nei discorsi politici, discorsi ai quali d’altronde avevamo già assistito nell’estate del 2020, quando si proclamava che il virus non era ormai quasi più infettivo o era addirittura “morto”, mentre poi è emerso in breve il contrario. Meno di un anno fa l’establishment diceva con sicurezza un’altra sciocchezza priva di basi scientifiche, e cioè che i vaccini avrebbero portato all’immunità di gregge e quindi alla scomparsa del Covid. Oggi la variante Omicron, emersa solo poco più di tre mesi fa, è diventata per decreto nei discorsi politici “la fine del Covid”. Ancora una volta, non vi è alcuna base scientifica per ipotizzare tale “fine”. Il numero medio di contagi è anzi fortemente aumentato. Sebbene sia ancora presto per dirlo con totale sicurezza, tutto lascia pensare che la variante Omicron sia di per sé stessa meno letale, ma non in misura da diminuire sostanzialmente l’allarme, anche perché è enormemente più infettiva. Se si analizzano i dati italiani, per esempio, non si può non riscontrare come le coordinate in termini di decessi e ospedalizzazioni siano state non di molto inferiori all’ondata di marzo-aprile 2021, ma con la differenza che allora quasi nessuno era vaccinato, oggi quasi tutti. L’ondata Omicron ha avuto nel complesso un impatto meno devastante, più che per una sua “debolezza” intrinseca, soprattutto per l’alto tasso di vaccinazione, in particolare tra gli over 60, e per la consapevolezza della popolazione che, oltre a continuare ad adottare rigorosamente le misure di contrasto, si è autotestata in massa. Quanto possa essere devastante di per sé stessa l’Omicron, soprattutto nella sua sottovariante “2”, ce lo dice con chiarezza l’esperienza che ha vissuto Hong Kong in queste settimane: la città (7,2 milioni di abitanti) ha toccato con Omicron il più alto tasso di mortalità da Covid mai registrato al mondo, al punto che si è arrivati, visto che gli obitori erano pieni, a mettere temporaneamente i cadaveri nei sacchi tra i letti dei pazienti negli ospedali. Oltre alla pessima gestione del governo, a Hong Kong il virus ha causato questo disastro a causa dei bassi tassi di vaccinazione, soprattutto tra gli anziani, e del bassissimo livello di immunità da infezioni pregresse. Poiché è ormai comprovato che i vaccini, pur importantissimi, hanno in brevissimo tempo un’efficacia molto scarsa contro le infezioni, e perdono nel tempo efficacia anche contro le ospedalizzazioni, niente esclude che un domani la situazione di Hong Kong non si replichi altrove. A ciò ovviamente va aggiunto che nulla autorizza a escludere l’insorgere anche in un futuro molto prossimo di varianti maggiormente letali, o capaci di eludere ancora di più i vaccini – anzi, più il virus circola più la probabilità aumenta. E più ci si ingannerà con teorie ideologiche, meno verranno adottate misure di contrasto, ivi inclusa la decisione di (ri)vaccinarsi. Una volta passata la prima ondata di Covid nel 2020, la tendenza è stata quella di occultare la realtà del virus, per esempio facendo calare l’oscurità su quanto avviene nei reparti degli ospedali, ormai mediaticamente “sanificati” fino al punto che, probabilmente, la maggioranza delle persone è convinta che in ospedale si stia in rianimazione o si muoia come per una normale polmonite. Ma il Covid va molto al di là dei polmoni, coinvolge sistema circolatorio, cervello e molti altri organi. E questo porta a un altro aspetto: decine, se non addirittura centinaia di studi di vasta portata, dimostrano che il Covid causa in percentuali rilevanti degli infettati danni gravi e di lunga durata a diversi organi del corpo, spesso anche tra coloro che non hanno avuto una forma grave. Questo è un altro importante elemento della crisi generale in corso nel mondo: negli anni a venire, anche nel caso di un’ipotetica scomparsa del virus, vivremo con una popolazione più ammalata e con sistemi sanitari più oberati e quindi inefficaci. La Russia di Putin che ha scatenato la guerra è in generale un esempio del peggio in termini di pandemia Covid: oltre 1 milione di morti, sostanzialmente quanto gli Usa ma con una popolazione di meno della metà, e un bassissimo tasso di vaccinazione.

Negli ultimi due anni ci sono stati episodi importanti di mobilitazioni dal basso per contrastare il Covid, e quelle più notevoli si sono svolte in Asia, che anche grazie a ciò è il continente in cui molti paesi fino all’arrivo della variante Omicron hanno evitato danni gravi alla popolazione. Il primo caso è quello della Cina nel dicembre 2020/2021, quando lavoratori della sanità e i cosiddetti “cittadini giornalisti” hanno esercitato un’enorme pressione sul governo che stava lasciando dilagare l’epidemia nel paese e nel mondo. Un altro esempio è quello di Hong Kong, dove il sindacato dei lavoratori della sanità, nato durante il movimento di protesta, ha avuto un ruolo decisivo nel costringere il governo locale ad adottare misure efficaci – non a caso ora che i sindacati indipendenti sono vietati e alla popolazione è stata messa la museruola il Covid dilaga con effetti disastrosi. Altri esempi sono quelli della Thailandia e della Corea del Sud, ma anche l’Italia ha avuto il suo momento, purtroppo breve, nella primavera 2020, quando i lavoratori si rifiutavano di tornare al lavoro in condizioni di epidemia ancora dilagante, aggravate dall’insufficienza delle misure di protezione. E ovunque nel mondo, soprattutto nella prima fase della pandemia, ci sono stati diffusi episodi di solidarietà e di mutuo aiuto dal basso. Purtroppo questi episodi di attivismo non sono riusciti a saldarsi a livello internazionale, con il risultato che oggi ci troviamo in un disastro forse irreversibile, con in più tutto lo strascico dell’ascesa delle più bieche forze reazionarie “no-vax”, che in seguito al fallimento delle prime reazioni dal basso trovano ora ampi spazi anche a livello popolare.

Nucleare / Corsa alle armi

Da decenni, e fino a ieri, a livello di opinione pubblica mondiale si era abbassata la guardia sul pericolo di una guerra nucleare. Le recenti minacce esplicite e implicite di Putin hanno risvegliato il mondo da questo sonno in cui era caduto dopo la fine della guerra fredda. In realtà la minaccia di una guerra nucleare è sempre stata presente e con le crescenti spinte verso un mondo fatto di “grandi blocchi” geopolitici si è ulteriormente aggravata. In termini concreti, il “la” lo ha dato l’amministrazione Obama con il suo programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare Usa, seguito poi nel 2018 dal ritiro di Trump dal trattato INF sulle armi nucleari a gittata intermedia. Nel corso degli stessi anni, Mosca e Pechino hanno anch’esse perseguito programmi analoghi, sebbene la Cina rimanga di gran lunga a un livello molto inferiore in termini di testate rispetto alle prime due potenze “a pari merito”. Tuttavia sia Russia che Cina hanno fatto grandi progressi nel campo dei missili ipersonici in grado di trasportare testate nucleari senza essere identificati, in particolare la seconda, che ha sperimentato con successo un nuovo missile apparentemente in grado di eludere i sistemi di sorveglianza disseminando testate nucleari in contemporanea su più obiettivi. Da parte sua la Russia ha affermato di avere utilizzato nei giorni scorsi con successo due missili balistici ipersonici per colpire l’Ucraina, seppur non dotati di testata nucleare. Nell’ultimo decennio circa ha compiuto enormi progressi nel campo delle armi nucleari anche la Corea del Nord, che in questo inizio 2022 ha effettuato lanci sperimentali di missili con una frequenza mai vista in passato, in preoccupante coincidenza con il crescere delle tensioni in Europa. Oggi Pyongyang è in grado di colpire non solo buona parte del continente asiatico, ma anche il territorio degli Stati Uniti, benché non sia chiaro con quale grado di precisione. In seguito alla guerra scatenata dalla Russia, anche in Giappone si è arrivati a prendere in considerazione la possibilità di ospitare armi nucleari sul proprio territorio.

Intanto la produzione di armamenti, a differenza di molti altri settori dell’economia capitalista mondiale, continua a prosperare, grazie alle commesse statali. Come abbiamo già constatato in “Crisi Globale”, desta particolare preoccupazione il riarmamento missilistico nell’area Asia-Pacifico, che sta coinvolgendo tutti i principali attori, su uno sfondo fatto di continua aggressività della Cina nel Mar cinese meridionale, minacce della stessa a Taiwan, tentativi di costruzione nella regione di blocchi a egemonia Usa, come il Quad (Usa, Giappone, India, Australia, potenzialmente anche la Corea del Sud con il nuovo presidente Yoon), dall’identità ancora incerta, o l’Aukus che coinvolge Usa, Regno Unito e Australia, invece già un dato di fatto. Permane la situazione di conflitto tra due potenze nucleari asiatiche, Pakistan e India, entrambe coinvolte in un intricato gioco di alleanze a volte contraddittorie con Usa, Cina o Russia. Desta preoccupazione il fatto, passato in secondo piano di fronte alla gravità della crisi in Ucraina, che l’India abbia in queste settimane colpito il Pakistan con un missile, ufficialmente per un “errore”.

A questa corsa al nucleare e in generale alle armi non sembra opporsi purtroppo nessun movimento di massa dal basso.

Crescita delle forze reazionarie

La guerra avviata dalla Russia va messa nel contesto dell’ascesa in tutto il mondo di forze reazionarie, il più delle volte di estrema destra, in alcuni casi di natura diversa. L’argomento, molto complesso, richiederebbe un trattamento molto più approfondito, qui mi limito nell’essenza a una “fotografia” del presente più o meno recente. La Russia merita di essere citata per prima sia perché è protagonista della guerra che qui metto in contesto, sia perché è stata sotto certi aspetti un’antesignana, e non a caso è ancora un “faro” per molti fascisti, stalinisti e altri ultrareazionari. Pochi come Putin hanno utilizzato così sistematicamente la manodopera fascista e di estrema destra, in patria o all’estero, per perseguire i propri obiettivi. Al di là di questo, il sistema oligarchico da egli instaurato fatto di estremo autoritarismo, coniugato con militarismo e culto della guerra, sciovinismo spesso razzista, sistematica repressione della classe lavoratrice, sessismo e omofobia, odio per ogni forma di democrazia, riunisce meglio e più esplicitamente di altri tutti i capisaldi del contemporaneo stato ultrareazionario. Vanno poi citati gli Usa, che hanno visto addirittura un anno fa un assalto al parlamento da parte di bande parafasciste e per quattro anni hanno avuto un presidente di estrema destra, loro ispiratore, che rischia di tornare fra meno di tre anni al potere con il sostegno, tra gli altri, di violente milizie di estrema destra dall’ideologia razzista, sessista e omofoba. Ma non va dimenticato che i democratici si sono spesso dimostrati più guerrafondai dei repubblicani e si ispirano a un’analoga ideologia sciovinista di superiorità intrinseca del “modello americano”. Tuttavia negli Usa c’è ancora una vivace dialettica sindacale e, seppure con difficoltà, si possono svolgere mobilitazioni e perfino la sinistra socialista ha spazi per fiorire. Nella frammentata Ue la situazione è diversa, la destra più reazionaria ha sfondato solo in alcuni paesi dell’Europa Orientale, ma dilaga pericolosamente in tutti gli altri paesi e spesso fa parte di coalizioni di governo, come ad esempio in Italia. In un continente dove le mobilitazioni popolari, a differenza che altrove, languono ormai da decenni, con l’unica eccezione della Francia, abbiamo assistito nel 2021 a un risveglio delle piazze con manifestazioni spesso di massa all’insegna di una pseudo-ideologia no vax di impronta reazionaria e con una nutrita presenza dell’estrema destra. L’India è un altro caso eclatante. Il suo premier Narendra Modi ha forse il curriculum peggiore di ogni altro leader in termini di estrema destra stragista, e il suo partito, il BJP, integra importanti milizie fasciste. Anche il suo sistema politico è all’insegna di un autoritarismo sciovinista, di un pesantissimo sessismo e del razzismo, spesso accompagnato da una retorica genocida e guerrafondaia. Tuttavia in India esiste ancora un’opposizione e, soprattutto, ci sono movimenti sindacali attivi, oltre a molti media indipendenti e critici. Che sotto certi aspetti l’India sia diversa (non certo per merito di Modi!) lo dimostra il recente colossale movimento degli agricoltori, che è riuscito a ottenere nei mesi scorsi una piena vittoria contro il governo. Una lotta del genere non è nemmeno ipotizzabile non solo in Russia, ma anche e soprattutto in Cina. Il modello di quest’ultima è quello che tra tutti risulta più efficace a livello interno nelle sue politiche ultrareazionarie, sebbene sia alquanto diverso per la sua storia di paese a guida comunista ed erede di una forma di stalinismo molto sui generis come il maoismo. A questa diversità contribuisce anche, su un altro piano, il fatto che la Cina odierna è il frutto di una stretta alleanza economica con il capitalismo Usa e Ue. Il grado di autoritarismo presente oggi in Cina non ha eguali in alcun altro paese industrializzato. Si basa, soprattutto da quando Xi è al potere, su colonne portanti come il sistematico soffocamento di ogni minima espressione di autonomia dei lavoratori, e sull’emarginazione, spesso dai toni razzisti, nei confronti di quelli migranti, nonché su un altro razzismo, quello genocida contro uighuri, tibetani e altre minoranze. Il regime si ispira a un modello patriarcale pseudo-confuciano fatto di sessismo e omofobia, nonché del più profondo disprezzo per ogni forma di democrazia e su un culto del “duce” ancora più spinto di quello che regna in Russia. Insomma, viviamo in un mondo in cui i due paesi più popolosi (Cina e India), la maggiore potenza nucleare a pari merito e maggiore produttrice di materie prime (Russia) e il più grande centro di produzione industriale del mondo che ha la più vasta classa operaia (Cina) sono sotto il controllo di forze sotto tutti gli aspetti ultrareazionarie. Da parte sua, la prima potenza militare, nucleare ed economica del mondo (Usa) è fortemente esposta al rischio di finire in mani analoghe, che anche se non dovessero (ri)prendere il potere incideranno sulle sue politiche, mentre un perno del capitalismo mondiale come l’Ue è esposta a rischi analoghi. A ciò va aggiunto tutto un nutrito codazzo di altri ultrareazionari assassini come per esempio Erdogan, al-Sisi o le monarchie del Golfo, o su un altro piano il regime affamatore e nucleare nord-coreano. Il mondo al quale implicitamente aspira Putin con il suo progetto di ricreare l’Impero Russo, reso ancor più evidente dalla guerra in corso, sarebbe ancora di più il loro mondo, e un mondo sempre più spesso in guerra visto che, al di là dei punti comuni ideologici, seguono tutti progetti nazionali in reciproca concorrenza.

Ascesa dei movimenti di massa / Assenza dei lavoratori

Si tratta di un altro tema che richiederebbe uno studio di ben altre dimensioni di questa panoramica. Come è noto, dalle primavere arabe del 2011 il mondo è stato attraversato da un’ondata di mobilitazioni di massa per la democrazia che non ha risparmiato nessun continente, se non la parte occidentale dell’Europa (quello francese dei gilets jaunes è stato in tale regione un caso isolato). Anche solo per nominarle tutte e descriverne in un paio di righe le caratteristiche salienti ci vorrebbero lunghe pagine. Mi limito a constatare che rispetto ai decenni immediatamente precedenti si distinguono in genere per alcune caratteristiche. Innanzitutto non fanno riferimento a forze politiche, e nemmeno a dirigenze “movimentistiche”, preesistenti, anzi spesso le prendono di mira – questo di per sé stesso è un importante primo passi avanti, vista la precedente deriva burocratica a tutti i livelli, anche nei cosiddetti “movimenti orizzontali”. Inoltre, il più delle volte hanno saputo coniugare le mobilitazioni pacifiche di massa con azioni violente di autodifesa o di attacco, senza rompere l’unità del movimento, un notevole salto di qualità rispetto al recente passato. Hanno coinvolto masse enormi di persone che non avevano mai avuto prima esperienze di mobilitazione in prima persona e lo hanno fatto all’insegna di richieste democratiche il più delle volte elementari, ma di primaria importanza. Tra i grandi difetti vi è la mancanza della capacità di darsi forme di organizzazione capaci di proiettarsi nel tempo o addirittura dell’ostilità nei loro confronti, segno di una profonda immaturità. Al di là dell’adozione di qualche slogan generico, vi è poi l’assenza di sforzi concreti per creare forme di solidarietà concrete a livello internazionale, indispensabili per una vera incisività delle loro lotte: qualche forma di collaborazione concreta, per esempio, tra i movimenti di Hong Kong, Thailandia, Myanmar e Taiwan avrebbe consentito nel 2019 di cambiare in buona parte le carte in tavola, per non parlare di qualche forma di saldatura tra le lotte quasi contemporanee negli Usa e a Hong Kong. Alcuni soggetti militanti “residui” dei movimenti passati hanno invece lavorato in senso contrario a questo (i democratici liberali a Hong Kong, una parte importante della sinistra Usa). All’interno di questi movimenti la classe lavoratrice, presente in genere in massa e l’unica in grado di mettere in discussione l’intero sistema, non si è mai organizzata come tale, se non in forma inadeguata (Egitto) o troppo tardivamente (Hong Kong). Gli obiettivi si sono limitati troppo spesso alla rimozione del tiranno di turno e/o all’indizione di elezioni non accompagnate da altri cambiamenti concreti tali da conferire loro una portata di radicale cambiamento. Ovviamente va aggiunto che la maggior parte di questi movimenti si è trovata ad affrontare nemici micidiali in possesso di strumenti di soffocamento quasi imbattibili (vedi per es. ancora una volta Hong Kong) o capaci di spostare immediatamente il terreno verso la guerra (vedi l’intervento russo anti-Maidan nel 2014 o l’anno scorso il caso di Myanmar). La grande mobilitazione di popolo degli ucraini contro l’aggressione russa è senza dubbio strettamente imparentata con l’ondata di movimenti dal basso registrata dal 2011. Rimane il fatto che un’alternativa all’opprimente mondo attuale può nascere solo dal concreto di queste piazze o di questi campi di battaglia per l’autodifesa, o di altre piazze e lotte a venire, apprendendo sia dai loro successi che dai loro errori, non in laboratori teorici o nel riformismo verticistico.

Gli argomenti qui affrontati richiederebbero in realtà centinaia di pagine di inchiostro per essere trattati adeguatamente. In questa rassegna ho solo tentato di riassumerli brevemente perché ritengo sia importante tenere presente una visione globale d’insieme di quanto è in gioco in questo momento critico. E quello che è in gioco, mi sembra da quanto ho esposto sopra, sono addirittura le mere coordinate basilari di un mondo che sia degno di essere vissuto: i principi democratici minimi, un livello di vita decente, condizioni di salute sufficienti, la pace o più prosaicamente l’incolumità fisica di fronte a un mondo sempre più armato, la possibilità per i lavoratori di godere degli spazi minimi di autonomia per avere prospettive, l’evitare un balzo indietro di secoli in termini di oppressione delle donne. Per non parlare dei rischi di annientamento nucleare o di un’irreversibile catastrofe climatica. Questo mondo non può più essere affrontato con un approccio di “progresso moderato nei limiti della legge”, per parafrasare la messa alla berlina di chi vede il riformismo come unico strumento, né con un finto radicalismo che chiude gli occhi all’oggi aggrappandosi a rassicuranti approcci passati e ormai obsoleti. Questo mondo può essere cambiato solo guardandolo in faccia e capovolgendolo

*articolo apparso sul blog crisiglobale il 23 marzo 2022