A oltre un mese dall’inizio della guerra sia la situazione sul campo, sia il contesto internazionale, indicano che Putin ha commesso una serie di gravi errori, che l’esercito russo ha fondamentali aree di inefficienza e che la dirigenza di Mosca è caduta nella trappola di un approccio ideologico da essa stessa creato. Ma la Russia continua a disporre di una forza soverchiante e ricorrendo a un’escalation, oppure a manovre al tavolo delle trattative, potrebbe ancora ottenere una vittoria completa, o almeno un congelamento della situazione che le consenta di ottenerla in futuro.
Prima dell’aggressione
È oggi del tutto chiaro che la guerra in corso ha radici che risalgono a una quindicina di anni fa. L’attuale aggressione contro l’Ucraina è perfettamente inseribile in un continuum lineare che va dalla reazione alle “rivoluzioni arancioni” culminata con l’intervento militare in Georgia nel 2008, passa poi per le operazioni militari realizzate nel 2014, anche con l’appoggio in loco di nazifascisti agenti di Mosca, con le quali nel 2014 la Russia si è annessa, ufficialmente o di fatto, vaste parti del territorio dell’Ucraina (Crimea e parte del Donbass), e ha uno snodo fondamentale nell’intervento in Siria a partire dal 2015, con il quale Putin ha sperimentato sulla pelle di migliaia di abitanti locali, massacrandoli, le capacità di proiezione estera delle proprie forze armate. Questo continuum si estende inoltre al supporto decisivo fornito a Lukashenko per soffocare la rivolta in Bielorussia nel 2020, e all’intervento in Kazakistan del gennaio di quest’anno. Anche gli obiettivi di questa strategia appaiono oggi chiari: ricreare un impero russo di impronta zarista, impedire ogni contagio democratico proveniente dai paesi vicini e potenzialmente, in futuro, ripristinare almeno in parte le leve di controllo che l’Urss deteneva sull’area dell’Europa Orientale.
Da un punto di vista tecnico più immediato, i preparativi per la guerra contro l’Ucraina sono iniziati con un ingente dispiegamento di truppe ai suoi confini nella primavera 2021. Nel giugno dell’anno scorso il leader russo ha cercato di spianare la strada ai preparativi con un incontro dai toni distensivi con Joe Biden che gli ha consentito di agire in tranquillità per alcuni mesi. In quanto dirigente profondamente imbevuto di ideologia, Putin si è inoltre sentito in dovere a luglio di pubblicare quello che è poi si è rivelato essere il “manifesto” di questa guerra, un lungo articolo al cui centro vi è il concetto, ripetuto con argomentazioni farraginose e ossessive, secondo cui l’Ucraina sarebbe un tutt’uno con la “madre” Russia e la Bielorussia, e gli ucraini non avrebbero diritto all’esistenza come nazione a sé stante. L’intensificazione dell’ammasso di truppe e dispositivi logistici alle frontiere dell’Ucraina a partire da novembre è stata rilevata dagli Usa, che hanno lanciato l’allarme. Alla disponibilità degli Usa e dei suoi alleati a trattare, Putin ha risposto a metà dicembre con la richiesta nero su bianco di un ritiro immediato di tutte le forze Nato dall’Europa Orientale, chiaramente irricevibile e mirata quindi a respingere le aperture di Washington a una trattativa. Se ne deduce chiaramente che il leader russo non era interessato a concessioni riguardanti la Nato, ma a ben altro, come i precedenti passati e alcuni sviluppi nel corso di questa guerra confermano pienamente (si veda più sotto). Gli Usa hanno poi detto esplicitamente alla Russia che avrebbero tollerato un’azione militare di Mosca in Ucraina a patto che fosse di entità limitata, suscitando le ire di Zelensky. Poi, dopo che Mosca ha continuato fin all’ultimo a dire che al confine stava facendo solo manovre, o addirittura che stava ritirando le truppe, è arrivato il suo riconoscimento ufficiale delle “repubbliche” separatiste del Donbass, che molti hanno pensato fosse il preludio a un intervento esclusivamente in tale regione, mentre un paio di giorni dopo è iniziata l’aggressione a tutto campo contro l’Ucraina. Durante l’intero periodo da fine novembre 2021 a fine febbraio 2022 l’Ue e gli stati europei della Nato hanno ritenuto che quello di Putin fosse solo un bluff, comportandosi di conseguenza, cioè cercando la via diplomatica con Mosca e mostrando scetticismo verso gli allarmi lanciati da Washington.
Perché è importante riassumere tutto questo? Innanzitutto perché solo ponendo la guerra nel contesto di un continuum in atto da anni tempo è possibile comprenderne la vera natura di intervento neoimperiale, e non di reazione all’allargamento della Nato come sostiene la maggioranza della sinistra (avevamo argomentato maggiormente nei dettagli questo aspetto nel nostro recente editoriale, al quale rimando). Inoltre, ciò consente di individuare a ritroso alcuni importanti errori di valutazione di Putin. Innanzitutto, si è illuso ingenuamente che il fingersi bluffatore per poi agire a sorpresa avrebbe scompigliato la compagine occidentale. Ma nel suo accecamento ideologico si è dimenticato che oggi non siamo più negli anni ’50 della Guerra di Corea, quando il geniale generale cinese Peng Dehuai aveva letteralmente fatto fesso il suo collega americano Douglas McArthur riversando centinaia di migliaia di soldati nella Corea del Nord senza che gli Usa se ne accorgessero e dilagando poi nel paese con una guerra lampo. Oggi ci sono i satelliti. Gli Usa hanno così potuto prepararsi per mesi all’eventualità di un’aggressione in grande stile e sono stati immediatamente pronti a esercitare forti pressioni sugli europei per una decisa reazione unitaria. In secondo luogo, i paesi Ue, messi subito e brutalmente di fronte alla realtà di essere stati fatti non un po’, ma completamente fessi, hanno avuto una reazione dettata dall’istinto di sopravvivenza, e si sono immediatamente agganciati agli Usa. In terzo luogo, Putin ha sbagliato nell’andare oltre ogni limite nel cantare in coro con Xi, durante l’incontro tra i due leader a inizio febbraio, l’amore illimitato tra i due paesi, mettendolo poi in imbarazzo con una guerra che ha subito evidenziato le inefficienze militari di Mosca. Xi è diventato così un altro “fatto fesso collaterale” (resta poi da capire se fatto fesso perché non adeguatamente informato, oppure perché convinto che Putin avrebbe fatto una guerra lampo subito vittoriosa). Il risultato è che da oltre un mese Xi non sa andare oltre a balbettamenti confusi e non sta fornendo alcun aiuto concreto a Putin. Ciò vale in parte anche per un altro potenziale alleato della Russia come il premier indiano Narendra Modi. Alla fine, tra tanti fessi, quello che si è rivelato esserlo più degli altri è quindi proprio colui che pensava di essere il più furbo, cioè Putin.
Le difficoltà militari
Ancora oggi è difficile capire con precisione quali fossero le reali intenzioni iniziali di Putin sul piano militare all’avvio dell’invasione. Le teorie secondo cui avrebbe avuto l’intenzione di prendere subito Kyiv decapitando con un’azione lampo la dirigenza ucraina, e conquistando magari al contempo la seconda città del paese, Kharkiv, per ottenere un completo tracollo psicologico degli ucraini, potrebbero apparire a prima vista un po’ traballanti. Se questo era il suo obiettivo perché sferrare un attacco contemporaneo lungo migliaia e migliaia di chilometri: da Cernihiv, fino a Sumy, Kharkiv, il Donbass, e anche a sud dalla Crimea in tre direzioni, verso Mariupol a est, verso Odessa a ovest e verso Zaporizhzhia a nord? In tutto quasi una decina di direzioni, una dispersione enorme. Tuttavia ci sono svariati particolari molto concreti che confermano l’ipotesi che Mosca puntasse a una guerra lampo con decapitazione della leadership. Prima la classica “messa a terra” dell’aviazione con attacchi sugli aeroporti, seguiti dal tentativo di fare scendere i paracadutisti su quello di Hostomel nei pressi della capitale per consentire l’immediato sbarco di forze per via aerea. Poi le colonne di blindati diretti verso il centro rispettivamente a Kyiv e a Kharkiv nell’evidente tentativo di prendere il controllo dei centri nevralgici di governo e nell’altrettanto evidente convinzione che ci sarebbe stata solo una reazione minima. Anche altri fattori confermano chiaramente che veniva messa in conto una guerra lampo: per esempio l’avvio delle operazioni proprio a fine febbraio, quando si sapeva ci sarebbe stato solo circa un mese prima dello scioglimento della neve che avrebbe reso più difficile fino a maggio lo spostamento di carri armati e blindati. Infine, l’esercito russo ha quasi subito registrato grossi problemi logistici, soprattutto nel campo dei rifornimenti – problemi che permangono ancora oggi, ma l’immediatezza del loro manifestarsi è una conferma del fatto che Putin pensava a una breve guerra di conquista.
Un altro sviluppo non previsto da Mosca e che ha scompigliato i suoi evidenti piani di guerra-lampo è stato il rifiuto da parte di Zelensky delle proposte occidentali di rifugiarsi all’estero. Putin evidentemente pensava che tutti i governanti siano come il suo protetto Yanukovich, il quale nel 2014 si era dato immediatamente alla fuga a gambe levate di fronte alla vittoria di piazza del movimento di Maidan. Zelensky in generale si è dimostrato subito molto efficace nel fare da perno di riferimento per l’unità degli ucraini. Un politico come l’ex presidente ucraino Poroshenko, con il suo passato di businessman strettamente legato all’oligarcato e con la sua pesante retorica tradizionalista, sicuramente non sarebbe stato all’altezza del compito. Ed è stata quindi anche questa compatta unità, evidenziatasi con chiarezza anche nelle aree russofone, a mandare all’aria, insieme a tutti gli altri fattori elencati, i piani iniziali di Putin. Quella in atto in Ucraina è infatti una vera lotta unitaria di popolo contro l’aggressore, una lotta vasta che va dall’esercito, all’adesione in massa alla difesa territoriale, alle attività di assistenza alle persone colpite dalle bombe o strette dagli assedi, alla mobilitazione mediatica dal basso per ottenere la necessaria solidarietà internazionale, che trova in Zelensky un efficace amplificatore a livello istituzionale. Il confronto tra questa articolata lotta unitaria dal basso e le livide immagini di un Putin rinchiuso nel Cremlino, o in uno stadio che ricorda le adunate convocate a viva forza da Kim Il Sung nella Corea del Nord, dove farnetica di “quinte colonne” da sputare via come moscerini mentre indossa un piumino da oltre 10.000 euro, condite in TV con talk-show di oligarchi che ipotizzano l’uso dell’arma nucleare, o immagini di patriarchi ortodossi con i loro discorsi deliranti su un occidente corrotto dai gay, dipinge perfettamente l’essenza ultima di questa guerra: la mobilitazione di un intero popolo per la propria libera sopravvivenza contro un cane rabbioso che è l’incarnazione stessa dell’imperialismo più reazionario. Lo confermano anche le immagini delle manifestazioni a Kherson e in decine di altre aree occupate del sud, dove la popolazione locale sfida con enorme coraggio a mani nude gli invasori russi con i loro blindati e i loro kalashnikov.
Sanzioni, prospettive economiche e “cortile di casa”
Oltre che sul terreno militare, Putin ha sbagliato i conti, e di molto, anche sul piano internazionale. Era evidentemente convinto che ci sarebbe stata qualche forma di divisione tra i paesi Nato, in particolare tra quelli europei. Su questo non gli si può dare del tutto torto, nel 2014 si era annesso la Crimea e aveva invaso il Donbass ucraino senza nessuna reazione sostanziale degli occidentali. La Nato è da lungo tempo in crisi di identità e sempre meno efficace nella sua coordinazione, in conseguenza tra le altre cose anche del suo allargamento a Est. L’Ue da parte sua ha fatto delle contraddizioni interne quasi un’arte fin dalla sua nascita. Putin però ha fatto un doppio e grosso errore: da una parte quello già ricordato di avere sottovalutato che gli Usa erano ben preparati in conseguenza della visibilità dell’enorme ammasso di truppe ai confini ucraini, dall’altra non si è adeguatamente preparato all’eventualità, comunque non da escludersi, che la reazione occidentale fosse più forte di quella che lui a somme linee preventivava. Se si fosse limitato a obiettivi di minore entità rispetto all’invasione/distruzione di tutta l’Ucraina, per esempio solo una conquista di tutto il Donbass, avrebbe di sicuro ottenuto il risultato di dividere il fronte nemico e di essere oggetto delle solite sanzioni inefficaci, per poi magari mercanteggiare su altri aspetti “geopolitici”. Ma né il solo Donbass, né la neutralità dell’Ucraina erano gli obiettivi che si proponeva, quindi in questo non ha sbagliato, dal suo punto di vista – si è solo dimostrato incapace di prepararsi adeguatamente alle conseguenze del suo progetto imperiale.
Tra tutte le sanzioni occidentali, quella che più ha colpito il ventre molle dello stato russo è stata la decisione di bloccare circa metà delle riserve che Mosca teneva all’estero, su un totale di circa 630 miliardi di dollari. Lo stesso ministro degli esteri Lavrov ha dichiarato recentemente che nessuno al Cremlino aveva previsto un tale sviluppo, la cui portata ha totalmente sorpreso la dirigenza russa. Queste riserve, accumulate negli anni facendo fare un balzo indietro nel livello di vita della popolazione, con un calo dei suoi redditi reali del 30% in una manciata di anni, dovevano servire a permettere alla Russia di mantenere una certa stabilità economica per qualche mese di guerra (e sono per inciso una conferma del fatto che questa guerra si inserisce in un continuum iniziato anni fa). Ora il paese da questo punto di vista è in forte difficoltà, perché la metà di quella cifra non consente alcuno spazio di manovra per sostenere contemporaneamente i costi della guerra, la stabilità del rublo e quella del bilancio. Basti ricordare che nel 2015 la Cina, solo per sostenere il renmimbi e la borsa, ha bruciato nel giro di circa uno o due mesi 1 trilione di dollari di riserve, un quarto di quelle che deteneva allora.
Putin ha messo in conto che gli europei avrebbero continuato a comprare il suo gas e altre fonti energetiche, permettendogli così di continuare a finanziare le spese di guerra e altre spese statali. In questo ci ha azzeccato, ma solo in parte. Infatti scatenando una guerra di vasta portata, e senza riuscire a chiuderla in brevissimo tempo, aggiungendo come se non bastasse una reiterata minaccia nucleare nei confronti dell’intero continente, ha spinto i paesi Ue a mobilitarsi per cercare alternative stabili alle forniture di gas russo, e questo oltretutto mentre le sue vendite di petrolio sono oggetto di sanzioni. Sebbene sia un obiettivo che richiederà del tempo, in prospettiva rischia di tagliare in termini economici le gambe allo stato russo, che non ha altro di sostanziale di cui nutrirsi. Il gasdotto Sibir 2, che potrebbe in alternativa erogare la produzione di gas della Russia europea alla Cina, è ancora allo stadio di progetto e diventerà operativo, se tutto va bene, come minimo tra dieci anni. E con l’esperienza storica di questa guerra alle spalle a Pechino, una volta arrivati a tale appuntamento, si guarderanno bene dal diventarne dipendenti, a meno che non siano altrettanto stupidi di Putin. Naturalmente a tutto questo va aggiunta la diserzione in massa degli investitori stranieri dalla Russia, un paese tecnologicamente arretrato che in futuro ne pagherà ampiamente il prezzo in termini di capacità di stare a galla rispetto ai paesi concorrenti.
La guerra di Mosca ha fatto emergere segni di insofferenza anche in quello che considera essere il suo cortile di casa. Uzbekistan e Kazakistan si sono rifiutati di inviare truppe e in generale di dare sostegno alla guerra di Putin. Quest’ultimo ha decretato la sospensione delle forniture di grano a quasi tutti i paesi dell’Asia Centrale ex sovietica, una mossa che gli alienerà ancora di più le potenziali simpatie delle loro dirigenze, per non parlare delle popolazioni di questi paesi. Lukashenko ha fatto dello stato bielorusso un’obbediente portaerei della guerra russa di aggressione, ma anche in questo caso i segni di insofferenza sono numerosi. Il viceministro della difesa e capo di stato maggiore dell’esercito si è dimesso nelle prime settimane di guerra, e dalla Bielorussia giungono notizie di diserzioni e altre forme di boicottaggio da parte dei soldati, nonché di sabotaggio delle linee ferroviarie da parte dei lavoratori del settore. Inoltre, in Ucraina operano svariati gruppi di volontari bielorussi, e anche georgiani, che combattono al fianco della difesa territoriale e dell’esercito ucraino.
Il bilancio finora è che con la sua guerra Putin, nell’ordine: ha fortemente ricompattato l’asse euroatlantico, ha incassato sanzioni impreviste e potenzialmente micidiali per la sua economia sul medio termine, ha provocato insofferenza e diserzioni nei paesi del suo cortile di casa, ha messo in profondo imbarazzo la Cina che si sta guardando bene dall’aiutarlo, al di là delle parole confuse che pronuncia. Insomma, una débâcle.
Le inefficienze militari messe a nudo non precludono un successo finale della Russia
Sul piano strettamente militare, le forze armate russe hanno messo a nudo di fronte al mondo intero i propri punti deboli. Sono emersi già nei primissimi giorni, quando il loro tentativo di conquistare in modo stabile l’aeroporto di Hostomel, nei pressi di Kyiv, per sbarcarvi truppe aerotrasportate in funzione di una rapida conquista della capitale ucraina sono falliti. Dopo averne preso il controllo lo hanno subito perso, e gli ucraini hanno distrutto le piste prima che i militari russi lo riconquistassero, rendendo così impossibile l’atterraggio dei loro aerei. Sono poi subito emersi enormi problemi nei rifornimenti logistici, in parte per il fatto che Mosca evidentemente prevedeva una guerra lampo, ma in buona parte anche perché la logistica dei rifornimenti è uno dei punti deboli dell’esercito russo, come segnalavano gli esperti ben prima di questa guerra. Le problematiche della logistica sono state esasperate anche dalla decisione di avviare l’aggressione in contemporanea su una decina di direzioni. Inoltre, nonostante una superiorità aerea di dieci a uno in termini di numero di velivoli da combattimento, da moltiplicarsi ulteriormente in considerazione della ampiamente maggiore qualità dei dispositivi dell’aviazione russa, la Russia non è riuscita né a mettere completamente a terra gli aerei ucraini, che continuano a svolgere azioni di disturbo, né a distruggere in misura sufficiente la contraerea di Kyiv. Gli aerei e gli elicotteri di Mosca sono così costretti a condurre operazioni a bassa quota e spesso di notte, quindi con minore efficienza e con un forte rischio di essere colpiti dai dispositivi lanciamissili leggeri e portatili non identificabili. Un’eccezione parziale è la parte sud-orientale dell’Ucraina, dove i jet russi operano con una maggiore libertà di azione. Ma in generale, come hanno descritto nei dettagli svariati esperti militari, l’aviazione russa ha forti carenze nella capacità di coordinarsi con le truppe di terra ai fini di un’efficace avanzata congiunta, ad esempio per evitare di colpire le proprie truppe con i propri aerei. Non a caso gli aerei russi si occupano, più che di dare supporto alle proprie forze di terra e di colpire obiettivi dell’esercito ucraino, di bombardare obiettivi civili, come accade per esempio a Mariupol.
Per attaccare obiettivi militari la Russia usa perlopiù missili di precisione a lunga gittata, ma non ne ha abbastanza per una guerra di lunga durata e, dovendoli risparmiare, è presto passata a un intenso uso di missili meno potenti e precisi, con tutte le relative tragiche conseguenze per la popolazione ucraina. Come se non bastasse, si sono evidenziate grandi carenze anche per quanto riguarda l’intelligence russa, incapace di prevedere il grado di resistenza per adeguare rapidamente e in modo coerente le tattiche sul terreno. Anche i sistemi di comunicazione criptata hanno mostrato ampie falle, con il risultato che molte unità vengono intercettate. Un altro dei problemi delle forze armate russe è l’eccessiva centralizzazione della catena di comando, che non consente alle unità operanti sul terreno di agire in modo rapido e flessibile. Questo aspetto sembra essere confermato dal numero inusuale di generali e alti gradi dell’esercito morti al fronte, sette od otto secondo gli ucraini, cifre non confermate da Mosca, ma nemmeno smentite. L’unico caso confermato dal Cremlino è però eloquente: un generale che era vicecomandante della flotta del Mar Nero ed ex vicecomandante delle operazioni in Siria, un pezzo grossissimo. Tutto lascia pensare che Mosca sia costretta a inviare direttamente in prima linea alti gradi perché la catena di comando centralizzata non funziona a dovere. E ogni perdita di tali alti gradi militari dotati di grande esperienza comporta una pari perdita di know-how per le forze armate russe nel loro complesso. Anche la marina militare si è rivelata non all’altezza dei suoi compiti e si è limitata al lancio di missili verso terra, che però non hanno ottenuto particolari risultati. Alquanto impressionante, a tale proposito, è stata la facilità con la quale a fine marzo la resistenza ucraina, probabilmente con un drone, è riuscita a distruggere una delle migliori navi da sbarco della marina russa ancorata nel porto di Berdyansk, facendone fuggire in tutta fretta altre due che avevano riportato evidenti danni. Infine, regna confusione anche nei centri di comando a Mosca. Non si capisce chi, a parte Putin, gestisca le operazioni russe. Il ministro della difesa Shoigu, uno dei tre uomini che possiede i codici nucleari di Mosca, è scomparso per oltre due settimane ricomparendo infine con modalità strane in un breve spezzone filmato, e circa dalla stessa data non si sa niente di Valery Gerasimov, capo dello stato maggiore delle forze armate. Ci sono inoltre stati licenziamenti di alti gradi dei servizi segreti e della Guardia nazionale. Nel complesso, con questa guerra il regime russo sta mostrando a tutto il mondo i grandi limiti della sua macchina militare, l’unica arma di pressione politica di cui dispone oltre alle forniture energetiche e, soprattutto, al suo arsenale nucleare, che non a caso ha minacciato di mettere in campo visti gli insuccessi delle prime due.
Tuttavia, sarebbe errato pensare per questo che una vittoria sia preclusa alla Russia. Anzi, resta uno degli esiti più probabili. Se è in effetti straordinario il grado di coraggio e tenacità degli ucraini nel difendersi dall’invasione russa, in molti casi la percezione della reale situazione sul terreno può essere alterata dal fatto che la resistenza ucraina, per ovvi e giustificati motivi, fa circolare solo immagini e notizie sui propri successi. Non è affatto chiaro in quale stato si trovino le sue forze armate e su quanti rifornimenti possano contare. Hanno subito svariati duri colpi: per esempio, la distruzione di un grande centro di addestramento a ovest, dal quale forse passavano anche forniture dall’Occidente, o più recentemente la distruzione del comando delle forze aree e del più grande serbatoio di carburante dell’esercito ucraino. Non si sa nemmeno fino a che punto le forniture di armamenti di difesa promesse dalla Nato vengano effettivamente erogate e, soprattutto, se stiano giungendo a destinazione con efficace rapidità. L’attuale situazione in cui le forze armate russe sembrano in questo momento arenate può essere effettivamente spiegata con il fatto che si stiano riorganizzando e rifornendo in vista di un nuovo massiccio attacco. A differenza di quello ucraino, l’esercito russo ha riserve enormi di uomini e mezzi, in entrambi i casi perlopiù di minore qualità rispetto a quelli finora dispiegati (riservisti e soldati di leva, o mezzi militari non di ultima generazione), ma sufficienti per sostenere un’operazione bellica di vasta portata, dalla distruttività devastante e di lunga durata. Per ora sul fronte interno la Russia ha il vantaggio di non avere alcuna consistente opposizione alla guerra, e di non avere alcuna opinione pubblica di cui temere eventuali pressioni per una moderazione o chiusura del conflitto. L’eventuale messa in campo di forze più massicce e inesperte, con il conseguente aumento delle vittime, potrebbe però alterare con il tempo questa situazione interna.
Quali sono gli esiti possibili di questa guerra?
Allo stato attuale è possibile rispondere a questa domanda solo con altri punti di domanda, ai quali però è possibile premettere un paio di considerazioni di base sicure. L’obiettivo principale della Russia, riscontrabile chiaramente anche dalla sua circonvoluta retorica, era quello di rendere la nazione ucraina incapace di vita autonoma e di metterla sotto il giogo di Mosca, in funzione di un progetto mirato a ricreare un impero russo in versione moderna. Da questo punto di vista Putin ha senz’altro già ottenuto un obiettivo minimo, quello di causare ampie distruzioni che minano alla base la futura capacità di autonomia dell’Ucraina, che già aveva un’economia semi disgregata. Queste distruzioni riguardano la maggior parte delle maggiori città ucraine, e molti centri medio piccoli, ma non hanno ancora toccato il centro e l’ovest del paese. La Russia dispone di tutto il potenziale bellico necessario per portare a termine il compito, non ci si può fare illusioni su questo. Oltretutto i paesi Nato non solo hanno escluso con chiarezza ogni ipotesi di intervento diretto (anche solo una “no fly zone”) se non verranno attaccati sui loro territori, ma non intendono nemmeno inviare all’Ucraina aerei che decollino dai loro aeroporti. Su un altro lato, invece, ogni eventuale ipotesi di Mosca di prendere il controllo del paese direttamente o tramite qualche governante-fantoccio, si scontra con l’evidenza della reazione unitaria e coraggiosa di tutti gli ucraini: se la Russia riuscirà a stabilire qualche forma di controllo sul paese, dovrà inevitabilmente mettere in conto diffuse forme di resistenza, anche armata. Nessun governante-marionetta di Mosca potrebbe godere di effettiva autorità. Tuttavia, questi aspetti potrebbero cambiare anche non di poco in presenza di un’escalation che arrivi all’uso di armi chimiche o perfino nucleari, oppure di cedimenti della dirigenza ucraina su aspetti fondamentali nell’ambito di trattive per una tregua o un accordo di pace, con il conseguente effetto divisione interna e demoralizzazione. Conta molto anche il fronte interno in Russia, per ora nel complesso compatto, ma che potrebbe col tempo logorarsi non poco, sia in termini di popolazione che di vertici statali.
Nel momento in cui scrivo la Russia ha detto di volere concentrare d’ora in poi le proprie azioni nel Donbass, affermando che quest’ultimo è il vero obiettivo della sua guerra e che il mese precedente di combattimenti a tutto campo era stato solo un periodo preparativo per tale obiettivo ultimo. Quest’ultima è chiaramente una spiegazione grottesca alla luce degli sviluppi militari dell’ultimo mese. Rimane interamente da vedere se la Russia effettivamente procederà in tal modo, o se si tratta solo di una diversione temporanea. Un ripiego del genere era comunque nell’aria già da un po’. Nel paio di settimane precedenti a tale annuncio la propaganda interna russa aveva spostato il proprio discorso dalla “denazificazione dell’intera Ucraina” e dall’abbattimento del suo “governo di drogati” al fine di riportare il paese al suo “legame eterno con la Russia”, al solo obiettivo di “liberare il Donbass”. La conquista dell’intero Donbass potrebbe essere quindi presentata al popolo della Russia come una vittoria. Permetterebbe poi di aprire trattative che potrebbero spaccare la compattezza occidentale, far cadere il governo di Kyiv nella trappola di concessioni eccessive che gli sottrarrebbero autorevolezza a livello interno, e comporterebbero inevitabilmente un proseguimento della guerra a un’intensità più bassa per poi rilanciarla all’occasione in futuro. Per questi motivi è un’ipotesi che ha notevoli probabilità di essere perseguita dalla Russia. Sarebbe una grossa sconfitta per Mosca, ma le permetterebbe di salvare parzialmente la faccia a livello di immagine, soprattutto interna. Se avesse perseguito fin dall’inizio questo obiettivo con ogni probabilità Mosca avrebbe evitato di mettere a nudo le grandi inefficienze delle proprie forze armate, di provocare un ricompattamento degli occidentali e di mettere in profondo imbarazzo un potenziale alleato come la Cina. Ma come ho già osservato, i suoi obiettivi erano (e forse sono ancora) altri.
Il presidente ucraino Zelensky è stato molto abile nel proporre molto presto la neutralità dell’Ucraina nell’ambito dei colloqui con Mosca, affermando chiaramente che ora il paese non è più interessato a un’eventuale futura adesione alla Nato, dopo avere visto che l’alleanza non ha intenzione di difendere l’Ucraina. La Russia ha praticamente ignorato questa apparentemente importante concessione nel corso delle trattative apertesi già un mese fa. Ha così messo a nudo per tutti quello che era già chiaro a un attento esame, e cioè che l’allargamento della Nato a Est non è in alcun modo la motivazione, o una delle motivazioni, della sua guerra, la cui natura è esclusivamente di aggressione imperiale e non di difesa, anche solo indiretta. Anche in questo caso, come in quello del Donbass descritto sopra, la neutralità dell’Ucraina potrebbe essere una foglia di fico propagandistica rispetto a una sostanziale sconfitta subita sul terreno, soprattutto nell’ambito di un accordo con altri attori internazionali che ponga l’Ucraina sotto qualche forma di tutela multinazionale e le impedisca un’effettiva autonomia mantenendo al contempo la Russia in gioco. Ma questa foglia di fico sarebbe ben poco efficace a livello interno, visto che mai Mosca ha posto tali aspetti tra i propri obiettivi e che sia la popolazione sia tutti i cani rabbiosi della base ultrareazionaria che sostiene Putin, sono infinitamente più sensibili ai progetti di ricostruzione della potenza imperiale russa di quanto non lo siano alle capacità del Cremlino di spingere verso compromessi diplomatici.
C’è poi la variante di una messa fuori gioco di Putin a livello interno, con un colpo di stato o qualche altra iniziativa simile. È di sicuro il sogno degli occidentali, soprattutto degli europei, che potrebbero così fare marcia indietro sulle sanzioni e fare rientrare tutti i problemi legati al gas, tornando a occuparsi di altro e consegnando gli ucraini a un pessimo destino di dipendenza da una Mosca un po’ più presentabile, ma di natura quasi uguale. Ai vertici della Russia però non sembra esserci alcun gruppo compatto in grado di organizzare con sufficiente efficienza un tale cambiamento e di garantirne la stabilità. Non c’è nemmeno, a differenza che in Cina, un partito articolato con una presenza capillare a ogni livello della società, che arriva fin dentro le case della gente, e che quindi è in grado di gestire in qualche modo la transizione in assenza del “grande capo”. E in più l’autorevolezza delle forze armate e dell’intelligence russe è stata fortemente degradata dalla guerra in corso. Non dimentichiamoci poi che sotto un certo punto di vista dal 2000 e fino a ieri Putin è stato un beniamino dell’occidente, perché dopo gli anni di totale caos di Eltsin ha garantito per oltre un ventennio la stabilità del paese geograficamente più grande del mondo e delle forniture di materie prime nonché, fino a ieri, un controllo sicuro del suo potenziale nucleare. Una sua scomparsa dalla scena comporterebbe il rischio di una Russia nuovamente nel caos. Da un punto di vista democratico, questa ipotesi potrebbe essere valida solo se accompagnata da un crollo dello stato russo che ne decostruisca il potenziale oppressivo e aggressivo, lasciando ai popoli del suo cortile di casa maggiori spazi di autonomia. Ma al momento appare come una prospettiva più che improbabile.
L’ultima ipotesi, purtroppo non da scartarsi, è che Putin proceda a una guerra di pura distruzione dell’Ucraina. Le varianti sono diverse. Potrebbe per esempio distruggerla e poi ritirarsi con qualche pretesto, oppure occuparla per intero o a metà come una potenza coloniale risucchiandone tutto il poco rimasto e opprimendo il popolo con un regime militare incaricato di condurre una guerra a bassa densità e di lunga durata, ovviamente però dai costi enormi per Mosca. Potrebbe infine ottenere più in fretta e con minori costi risultati di natura analoga utilizzando armi chimiche o addirittura nucleari. Quest’ultime potrebbero essere usate in misura limitata sfruttandone l’effetto di per sé annichilante a livello psicologico e politico, per esempio una o due piccole testate tattiche in zone scarsamente abitate, che comporterebbero “solo” qualche migliaia di vittime immediate, nella speranza (non irrealistica) che i paesi occidentali non intervengano. A tale proposito è particolarmente inquietante che non si capisca più chi decida cosa ai vertici russi in termini militari, così come sono inquietanti le sparizioni prolungate e non decifrabili di loro figure di comando di primo piano. In un contesto di crescente ed estrema difficoltà Putin potrebbe decidere perfino azioni come, per esempio, il lancio (magari “per errore”) di uno o due missili non nucleari su un paese Nato di minore rilevanza, come ad esempio la Slovacchia o la Bulgaria, per le quali l’alleanza atlantica difficilmente rischierebbe di mettersi in guerra aperta con la Russia. Questo con l’obiettivo di costringere l’occidente a sedersi al tavolo delle trattative. Un’ultima variante possibile è che Mosca sottoscriva una soluzione diplomatica, sia essa una tregua o un accordo di pace, per poi riprendere in un futuro prossimo la propria guerra dopo essersi preparata meglio apprendendo dagli errori commessi in questo periodo.
L’unica variante auspicabile, molto più di quelle diplomatiche che non farebbero altro che rimandare a nuove guerre e oppressioni, o costituire il terreno di cultura per altre future stragi, sarebbe che gli ucraini riuscissero, anche con le forniture di armi e intelligence da parte dei paesi Nato o di chi altro, a provocare in un modo o nell’altro un pieno ritiro dell’esercito russo, lasciando la dirigenza di Mosca, con o senza Putin, a leccarsi le ferite per anni. Sarebbe una vittoria per tutti i democratici del mondo, un avvertimento a tutti gli altri paesi dalle mire imperiali, dagli Usa, alla Cina e a molti altri ancora, nonché a tutte le forze ultrareazionarie con i loro progetti di odio e distruzione. Un invito a desistere concreto ed efficace perché frutto di una resistenza di massa dal basso, e non di manovre di cancellerie diplomatiche o di pura retorica.
*articolo apparso il 29 marzo 2022 sul blog www. crisiglobale.wordpress.com