La Russia ha aggredito e occupato l’Ucraina. Per molti giorni sembrava che gli allarmi lanciati dai Paesi occidentali, prima di tutto dagli USA, dall’Unione Europea e dalla stessa NATO sulle esercitazioni in territorio russo ai confini dell’Ucraina, fossero parte di una grande scenografia messa in atto dagli occidentali per giustificare la loro voglia di espansione militare ad Est.
Per molti giorni i dirigenti russi, in primis Putin e Lavrov, ministro degli esteri, hanno replicato che non avevano alcuna intenzione di invadere e aggredire l’Ucraina, anzi denunciavano l’uso strumentale delle paure riguardo alle esercitazioni russe come una inaudita intromissione, visto che ogni Stato ha il diritto di mettere le sue truppe dove gli pare nei suoi confini.
In quei giorni, la Russia ha colto l’occasione, che gli veniva data dall’innalzamento della tensione verbale, per riproporre il discorso della sua sicurezza e che l’eventuale adesione alla NATO dell’Ucraina avrebbe determinato un accerchiamento militare ai suoi confini inaccettabile per qualunque Stato sovrano. I dirigenti russi insistevano nello spostare lo scontro su questo punto, ricacciando l’Ucraina sullo sfondo.
In quei giorni, effettivamente, i dirigenti russi hanno molto ben giocato le loro carte, sfruttando il fatto che l’Occidente e le sue istituzioni, come i singoli Paesi uscivano dalla sconfitta cocente e degradante subita in Afghanistan, da un lato. Dall’altro, ovviamente puntavano a sfruttare il fatto che ormai da almeno un decennio l’Occidente aveva con la Russia dei rapporti in buona sostanza di partenariato sia sul piano economico che militare in molte aree del mondo.
Queste due considerazioni, visto che quelle etiche non appartengono a nessuno dei due contendenti principali in campo, hanno spinto Putin a mettere in atto un grande inganno di cui nessuno si è accorto – neanche noi –: se si grida al lupo e dopo giorni di urla anche scomposte la bestia non si vede, si pensa ad un falso allarme.
Pochissimi osservatori avevano colto, giustamente, che questa crisi era ben più grave, anche se molto simile per alcuni aspetti, di quella dei missili a Cuba nel 1962.
Fino al discorso di Putin del 21 febbraio scorso, la parte in campo più in difficoltà era effettivamente l’Occidente, amministrazione statunitense in primis.
Il resto dell’Occidente si è fatto bellamente beffare dal vecchio amico di tante scorribande imperialiste, Vladimir Putin: la fiducia riposta nell’autocrate ex KGB era stata ben riposta tante di quelle volte che in definitiva i dirigenti europei ritenevano impensabile di non riuscire a trovare un accordo. Questi ultimi basavano questa fiducia nel fatto che in aree delicatissime hanno lasciato, per interesse, il ruolo predominante alla Russia – in Medioriente con la tragedia siriana, dove la Russia ha sperimentato le sue armi e addestrato le sue forze armate per sette anni, in Africa con la presenza in Libia del famigerato battaglione Wagner, mercenari al soldo del Cremlino ed oggi anche in Sahel dopo la partenza dei francesi e, infine, ma non per importanza in Donbass. La merce di scambio è stata ovviamente l’annessione della Crimea, a cui l’Occidente di fatto non ha reagito.
Ma il 21 febbraio Putin in un discorso solo apparentemente alla nazione, ma in realtà una sorta di Urbi et Orbi ha iniziato a gettare la maschera. Facendo una ricostruzione dell’origine dell’Ucraina come nazione sovrana inscrivendola negli errori di Lenin, ha in parte salvato – come era prevedibile – l’opera di Stalin. Ha poi aggiunto che lui riteneva tout court l’intera Rivoluzione d’ottobre 1917 e la costruzione statuale che ne è seguita come l’origine di tutti i problemi russi, cui lui si riteneva incaricato di porre rimedio. Al termine di cinquantacinque minuti di discorso, dando seguito ad un voto di qualche giorno prima della Duma russa, ha riconosciuto le “Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk” con tanto di firma del decreto in diretta TV (dal sapore berlusconiano e delle firme in diretta televisiva dei “contratti con gli italiani”). Ha, contestualmente, dichiarato che le truppe russe sarebbero entrate in Donbass come forza di Peace Keeping, per evitare che quelle aree fossero vittime della ritorsione ucraina, visto che lì sono otto anni (e 14.000 morti) che si trascina la guerra. Ma fino a quel punto, per l’Occidente, malgrado la “mossa sgradita” a sorpresa ancora la questione era parte di un discorso molto incendiario, ma, forse, privo di reali azioni concrete. In definitiva Donetsk e Lugansk non erano tutto il Donbass, se volevano due “Repubbliche popolari”, di fatto in due città-Stato, alla fine facessero pure.
Il 23 febbraio, secondo un copione molto ben rodato in epoca sovietica, l’agenzia TASS annunciava che Donetsk e Lugansk hanno chiesto “il fraterno aiuto russo contro l’aggressione ucraina”.
Le truppe russe in quella notte hanno invaso il territorio ucraino da più punti.
Putin lascia gli scacchi e siede al tavolo di poker…
La domanda è: cosa ha spinto il gelido calcolatore, quel capo autocrate che riesce a giocare su diversi tavoli di alleanze variabili, a prendere una decisione tanto azzardata. Sicuramente una delle ragioni l’aveva chiaramente espressa il 21 febbraio nel descrivere gli antichissimi rapporti tra Russia e Ucraina in termini culturali e di tradizioni. In altri termini il primo e più grosso errore di calcolo è stato quello di pensare che in Ucraina – dove la popolazione di origine russa e russofona non è concentrata solo in Donbass, ma è sparsa in tutto il Paese – l’arrivo dell’esercito russo sarebbe avvenuto tra folle festanti accolto come liberatore. Invece, così non è stato. La resistenza dell’esercito ucraino (in gran parte con armamenti dati dalla stessa Russia prima del 2014), l’azione dei gruppi paramilitari è stata molto più efficace del previsto, l’accoglienza da parte della popolazione ucraina delle truppe russe segnata dalla rivolta contro queste. Il primo calcolo, quello di una “faccenda rapida” si è infranto subito.
Inoltre, tanto i dirigenti politici e militari russi erano sicuri della “guerra lampo” che la gran parte delle truppe è formato da giovani soldati al terzo, ed ultimo, anno di leva quindi poco preparati e non addestrati agli imprevisti.
Fare una esatta replica di ciò che i russi hanno per anni fatto in Siria, ossia stragi di massa e svuotamento delle città da conquistare dopo averle rase al suolo, in Ucraina è difficilmente proponibile perché un Paese prima lo invadi e poi lo devi occupare e una occupazione militare non è facile da mantenere solo usando le stragi generalizzate.
Anche gli assedi delle città, altra specialità russa molto sperimentata in Siria, è ben difficile da fare per lunghi periodi quando gli assediati parlano la lingua degli assedianti e magari sono anche lontani parenti. Anche se occorre tenere presente che in ogni caso le truppe che dal 24 febbraio invadono l’Ucraina rappresentano solo una minuscola parte del potenziale militare russo e nessuno può con certezza sostenere che Putin e/o i suoi generali non decidano di usare ben più forza.
Putin da amico e partner a paria internazionale
In pochi giorni tra sanzioni economiche ed esclusione della Russia dal consesso civile internazionale, stiamo assistendo ad una reazione che concentra tutto ciò che se applicato almeno negli ultimi quindici anni, per non tornare indietro all’aggressione russa alla Cecenia, avrebbe molto probabilmente fatto capire a Putin, l’amico/nemico, che l’espansionismo militare russo non restava impunito. Avrebbe dato un segnale anche, anzi soprattutto, che le vittime civili di un’aggressione militare (chiunque ne sia il responsabile) sono tutte uguali agli occhi di quella parte del mondo che pretende di rappresentare la democrazia, la civiltà e il Diritto e non il contrario. Questa non è una questione oziosa e spiega lo shock che deve aver subito Putin quando da partner (politico, economico e militare) si è ritrovato nelle vesti paria mondiale.
Ovviamente, dire questo non significa pensare che le sanzioni non fossero necessarie, anzi il contrario; significa però chiedersi cosa avverrà alla prossima guerra d’aggressione contro un popolo sovrano, o che aspira a diventarlo, se l’aggressore sarà diverso.
In altri termini, se oggi il messaggio è che l’Occidente, dopo aver ritrovato la sua unità politica proprio grazie a Putin, non tollererà più simili atti di protervia sarà pronto a replicare questo atteggiamento così determinato? A giudicare da quanti conflitti sono oggi in atto nel mondo e che vedono nelle vesti di aggressori alleati dell’Occidente, se non membri della stessa NATO, i dubbi sono molti.
Il punto vero è che l’attacco all’Ucraina è visto come un possibile primo passo da parte della Russia sulla strada di una riconquista di altri Paesi che prima facevano parte dell’URSS e dell’ex Patto di Varsavia e che oggi sono membri dell’UE e anche della NATO.
Anche in questo caso, le righe precedenti, non significano ritenere in alcun modo che la reazione dell’Occidente contro la Russia oggi sia esagerata, ma pensare con rammarico che in questi giorni il cliché molto gettonato è dire che è “intollerabile l’aggressione Russa perché riporta la guerra nel cuore dell’Europa”. Delle due l’una: o le guerre d’aggressione contro Paesi sovrani sono sempre intollerabili o no. Le mezze misure, o meglio la vecchia politica dei due pesi e delle due misure, significa scegliere cinicamente quando dichiarare un’aggressione intollerabile.
Intollerabile è il metro di giudizio secondo cui gli ucraini sono come noi e quindi meritevoli del nostro appoggio incondizionato, mentre altri popoli (palestinesi, siriani, curdi, ceceni…ecc.) invece no.
Bisogna, anche, per il verso opposto, non cadere nella trappola per cui per opporsi oggi all’invasione dell’Ucraina, quasi seguendo un rito liturgico catartico, sia sempre necessario elencare le colpe dell’Occidente che decide di sanzionare la Russia o di sostenere anche con l’invio di armi l’esercito ucraino. Proprio perché diversamente dalle ipocrisie occidentali, come si chiedevano le sanzioni contro Israele o verso Assad, oggi non possiamo, anche noi, rifiutare ciò che è nella logica base della solidarietà internazionalista. Anche perché oggi le sanzioni contro la Russia sono indirizzate non contro l’intera popolazione russa, ma contro l’oligarchia al potere in quel Paese. Nulla hanno a che vedere con l’embargo totale che da decenni soffoca Cuba o ha strangolato l’Iraq dopo il 1991 o la Striscia di Gaza dal 2007. Ottenendo, per altro risultati esattamente opposti agli obiettivi dichiarati.
Il dibattito che sta attraversando l’arcipelago pacifista sulla scelta dell’UE di inviare armi in Ucraina, onestamente fa pensare alla massima di Tito Livio: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata), che è stata per decenni l’atteggiamento caratteristico dell’Unione Europea. L’elenco degli esempi sarebbe troppo lungo. Ovviamente, oggi la UE si offre di fare ciò che la NATO non può permettersi, se non a rischio di uno scontro diretto con la Russia. Ma detto questo, chi oggi invoca (abbastanza a sproposito l’articolo 11 della Costituzione italiana), dovrebbe dire in che modo si dovrebbero difendere le città ucraine dagli attacchi di missili, cannonate, ecc.
Ora, se noi fossimo in grado di offrire mezzi di difesa agli ucraini al posto della UE sarebbe meglio, ma così non è. Quindi la domanda è: con quale coraggio ci possiamo assumere la responsabilità di negare mezzi di difesa ad una popolazione aggredita? È una contraddizione manifestare per la fine dell’aggressione russa e accettare l’invio di armi di difesa? No.
Diversamente, è illudersi di poter convincere un lupo a diventare vegetariano, o peggio ancora, pensare in contraddizione manifestare per la pace e aiutare un popolo ad autodifendersi: questa è semplicemente una sciocchezza.
Perché una cosa è certa: la Russia deve essere costretta al ritiro immediato, incondizionato e dall’intero territorio dell’Ucraino, Crimea e Donbass compresi.
La combinazione di questi due aspetti, inoltre, non può che aiutare coloro che in Russia si oppongono alla guerra che è per noi quindi un compito fondamentale e lo deve diventare per chi scenderà nelle piazze nei prossimi giorni.
La guerra di Putin non legittima il riarmo!
Tutto questo non è in contraddizione anche con altre battaglie che oggi sembrano lontane anni luce e che invece vanno riprese.
Chiedere lo smantellamento della NATO come passo necessario per la denuclearizzazione generalizzata. In caso contrario evidentemente, come già sta avvenendo, vi sarà la ripresa della corsa agli armamenti. Ossia, lo sperpero delle già ridotte risorse economiche degli Stati. Queste scelte sciagurate altro non faranno che aggravare la già pesantissima crisi economica pre e post-pandemia.
A ciò si aggiungono delle decisioni altrettanto pericolose, mascherate dietro gli aiuti militari agli ucraini. La Germania a 77 anni dalla fine della seconda guerra mondiale decide di destinare 2 punti di PIL (che non è una bazzecola!) alle spese militari, l’Italia decide di incrementare le spese nel settore militare, la Francia, per bocca del suo presidente Macron, ripropone la vecchia e mai abbandonata idea di un esercito europeo, camuffata con l’elegante formula della “Difesa comune europea”. Anche se questo obiettivo sarà di difficile realizzazione perché, a parte questo “momento unificante” contro la Russia, i Paesi europei sono in concorrenza perpetua su tutto. Ma visti i governi che oggi sono in carica nei 27 Paesi UE, la prospettiva di una unione militare fa rizzare i capelli. Anche perché a sette mesi dalla vergognosa fuga dall’Afghanistan e dalle conseguenze in termini di credibilità per i politici e i generali occidentali, in pochi sembra ne abbiano tratte le necessarie, quanto evidenti, conclusioni. Anzi all’opposto, vista anche l’instabilità del quadro politico internazionale (ed in alcuni casi anche istituzionale), partendo dagli Stati Uniti, la netta impressione è che si trovi una soluzione che è ben peggiore del male.
Profughi…di serie A e di serie B
Fin dall’inizio della crisi, anche prima dell’invasione russa, si aleggiava, come una promessa o una minaccia, che un’aggressione militare all’Ucraina avrebbe determinato un numero elevatissimo di profughi, stimato in cinque o sei milioni di persone che avrebbero cercato di sfuggire alla guerra. Cosa che evidentemente a invasione avvenuta si è puntualmente verificata. I giornalisti e le giornaliste in questi giorni di guerra in Ucraina stanno “miracolosamente” scoprendo che i civili fanno di tutto per mettersi al riparo dai bombardamenti sotto la metropolitana di Kiev o nei vecchi rifugi dell’epoca sovietica. Ci stanno facendo “scoprire” che i bambini hanno paura del rumore delle bombe e che per distrarli le mamme, i papà e i nonni ne inventano di tutti colori nelle lunghe giornate inoperose del coprifuoco, imposto o “intuitivo” che sia.
Ma oltre ogni limite vanno quelli e quelle che seguono le colonne di profughi in marcia con ogni possibile mezzo verso la Polonia, la Romania, l’Ungheria e la Moldavia. Questi “principi” e “principesse” addormentati e addormentate per decenni solo oggi vedono “l’incredibile spettacolo”. Sempre sottolineando l’intollerabile “sono come noi – bianchi – quindi meritevoli di accoglienza e compassione”, mica sono i poveri siriani della “rotta balcanica” del 2015, o le centinaia di afghani, pachistani e di altre neglette nazionalità che solo qualche mese fa sono morti di freddo, compresi molti bambini, donne e vecchi, nelle foreste tra Polonia e Bielorussia. In quel caso il governo polacco arrestava chiunque tentasse di tendere una mano di aiuto a quelle masse di disperati. Per fortuna i polacchi che vivono sulla frontiera si inventarono il “movimento delle lanterne”: luci accese dietro i vetri delle finestre ad indicare ai profughi che in quelle case si offriva rifugio. Ma ovviamente i profughi salvati furono poche decine. Non per cattiva volontà delle persone, ma per impossibilità. Solo le manifestazioni che si svolsero coraggiosamente a Varsavia e in altre città polacche spinsero il governo, di ultra nazionalisti, a fare dei campi di tende riscaldate dopo molti morti e soprattutto dopo che moltissimi profughi furono costretti a scegliere il “rimpatrio volontario” per sfuggire a morte quasi certa.
Ma ora è diverso per noi dalla pietà selettiva. Anche perché le colonne di profughi ucraini sono in maggioranza composte da donne, bambini e uomini oltre i 60 anni, perché la mobilitazione generale decretata dal governo Zelensky impedisce agli altri di fuggire.
È assai probabile che chi è in grado di combattere comunque non fuggirebbe, ma la caratteristica sopra detta rende sia per i governi che per le opinioni pubbliche europee più “accettabili” quei disperati. Tanto che già l’Unione Europea sta studiando uno status ad hoc per loro, mentre già alcuni governi hanno stabilito che per i profughi ucraini i mezzi pubblici, treni, bus, metropolitane, saranno gratuiti. Ben vengano queste decisioni. Per noi i profughi che fuggono da guerre (nelle quali quasi sempre anche noi europei abbiamo delle responsabilità dirette o indirette), dalla fame, dai cambiamenti climatici che rendono i loro Paesi inospitali, dalle dittature sono tutti uguali e meritevoli del nostro aiuto.
Anche in questi giorni della grande fuga dall’Ucraina altri disperati bussano alle “nostre porte immacolate” e dobbiamo quindi batterci perché gli status ad hoc siano estesi a tutti i rifugiati. Altrimenti saremo complici di qualcosa di inaccettabile, che alla lunga ci si ritorcerà contro.
*articolo apparso sul sito rproject.it