Nelle discussioni di queste ultime settimane si fa spesso riferimento a due eventi storici nei quali, in un certo senso, troverebbero radici gli avvenimenti di questi giorni: la nascita dell’Ucraina per volontà del Partito comunista ai tempi di Lenin e la dissoluzione dell’URSS del 1991.
Pubblichiamo due testi che, succintamente, rendono conto di questi due avvenimenti, richiamandone tuttavia gli aspetti fondamentali. Entrambi sono dello storico Aldo Bronzo. (Red)
Lenin e il nazionalismo. L’antefatto storico della vicenda ucraina
La posizione di Lenin e dei bolscevichi in generale sul problema delle nazionalità e dell’Ucraina in particolare assunse connotazioni specifiche già negli anni antecedenti la presa del potere. Più in dettaglio per tutto il periodo antecedente gli avvenimenti rivoluzionari del 1917 Lenin sostenne con vigore le spinte nazionalistiche che pervadevano l’impero tzarista, in quanto valutava quelle spinte alla stregua di una potenziale forza dirompente nei confronti delle mene dittatoriali dell’autocrate moscovita che dal suo canto soffocava ogni sollecitazione autonomistica ricorrendo alla repressione più spietata. Ma il tutto rientrava, nella riflessione del leader bolscevico, nell’ambito di una strategia rivoluzionaria complessiva che ancorava le aspirazioni nazionali a quelle sociali e in particolare alla rivendicazione che si basava sull’esproprio della terra dei latifondisti e l’assegnazione della terra stessa ai contadini che ne erano privi. Di qui prese le mosse la teoria bolscevica dell’autodeterminazione che, concepita in termini differenziati e dinamici, valutava il problema dell’autonomie nazionali in maniera estremamente articolata, connettendola in ultima analisi al carattere della società in cui il diritto stesso veniva rivendicato, alle dinamiche sociali e politiche in corso e, all’occorrenza, alle esigenze strategiche della lotta rivoluzionaria.
Tutto ciò peraltro era destinato a ricevere un’applicazione peculiare per via del rapido passaggio del processo rivoluzionario russo, tra il febbraio e l’ottobre del 1917, dalla fase democratico-borghese a quella socialista, nel senso che le connotazioni internazionaliste assunte dagli avvenimenti in corso sembravano caratterizzare le stesse rivendicazioni nazionaliste come un passo transitorio obbligatorio, cioè come una sorta di inevitabile interlocuzione temporale verso l’internazionalismo socialista. In pratica appariva plausibile come tutto ruotasse attorno all’assunto ormai consolidato secondo il quale il movimento operaio internazionale, una volta consolidatasi in Russia la caratterizzazione socialista del processo rivoluzionario, si sarebbe opposto al principio della separazione, mentre a ragion veduta avrebbe optato per le superiori esigenze della solidarietà internazionale grazie al ricorso a soluzioni rivoluzionarie di matrice proletaria. In definitiva, nello schema strategico di Lenin e dei suoi seguaci, bisognava che il diritto all’autodeterminazione continuasse a essere riconosciuto, restando comunque inteso che la sua attuazione concreta andava correlata agli equilibri della situazione internazionale e alla prevedibile estensione del processo rivoluzionario su scala mondiale.
Confortati da quest’impostazione di massima i bolscevichi, dopo la presa del potere, sembrarono voler confermare il criterio dell’autodeterminazione, per cui il III Congresso Panrusso dei Soviet del gennaio del 1918 adottò una “Dichiarazione dei Popoli Oppressi e Sfruttati” che precisava come “tutte le nazioni della Russia hanno il diritto di decidere liberamente se partecipare, e su quale base, al governo federativo e alle altre istituzioni federative sovietiche”. Tuttavia fu subito evidente come questo assunto programmatico di fondo dovesse commisurarsi in tempi brevi con una situazione molto articolata che andava maturando nella difforme realtà dell’ex impero tzarista e soprattutto in Ucraina. Infatti la particolare strutturazione sociale e la composizione specifica della popolazione ucraina contribuirono in maniera significativa a conferire al movimento nazionalista connotazioni assolutamente peculiari e politicamente ambigue, dal momento che prendevano corpo tendenze e proiezioni sostanzialmente antisemite, mentre la componente favorevole ai bolscevichi rimaneva tutto sommato esigua anche per la scarsa presenza di uno strato sociale proletario che fosse coinvolgibile in un impegno politico rivoluzionario e internazionalista. E questo anche prima degli avvenimenti dell’ottobre russo, dal momento che già dopo la rivoluzione di febbraio si era venuta a costituire una “Rada” che dichiarava il paese una “repubblica autonoma” con un proprio “Governo Provvisorio” che comunque intendeva governare “senza separazione dalla Russia e senza uscita dallo stato russo”. Nondimeno dopo gli avvenimenti rivoluzionari dell’ottobre russo i rapporti conobbero un rapido deterioramento in quanto, di fronte alla costituzione di raggruppamenti non molto consistenti favorevoli al potere bolscevico, la “Rada” reagì con più accentuate formulazioni “indipendentiste” e soprattutto agevolando le operazioni militari delle forze controrivoluzionarie di Kornilov e Kalidin. Inoltre la “Rada” cercò di procedere alla formazione di un esercito separato previo il richiamo in Ucraina di tutti i propri effettivi che militavano nell’Armata Rossa bolscevica, mentre disarmava le unità sovietiche e della “Guardia Rossa” che operavano nel territorio ucraino e ostacolava i movimento del neonato esercito sovietico; al tempo stesso la “Rada” non disdegnava di agevolare il transito delle truppe cosacche dirette verso il Don dove avrebbero dovuto ricongiungersi ai contingenti controrivoluzionari di Kaledin. Di qui la replica del potere bolscevico costituitosi di recente che il 17 dicembre 1917 ingiunse alla “Rada” di por termine a tutte le iniziative “controrivoluzionarie”, preavvertendo come, in caso contrario, la “Rada” stessa sarebbe stata considerata in “stato di guerra contro il potere sovietico in Russia e in Ucraina”.
Tuttavia la situazione ebbe a presentare aspetti ancora più complessi in quanto il perdurante atteggiamento ostile della “Rada” – che nel frattempo aveva stabilito rapporti abbastanza significativi con le gerarchie militari francesi a seguito della visita del generale Tabonis – indurrà il potere sovietico ad istituire in Ucraina un “Congresso Generale dei deputati dei soldati e dei contadini” che, ritiratosi a Charkov , ebbe a proclamare un nuovo “Congresso generale ucraino dei soviet” che si affrettò a telegrafare a Pietroburgo di “avere assunto i pieni poteri in Ucraina”, anche se per rendere efficace l’intera operazione fu necessario chiamare in causa i contingenti sovietici che circondarono Kiev l’8 febbraio 1918, rovesciarono la “Rada” e insediarono il nuovo governo sovietico ucraino.
Dal suo canto la “Rada” non ebbe a demordere. Anzi trovò il modo di inviare una delegazione a Brest-Litovsk, dove stabilì intese con la delegazione tedesca; e a conferenza conclusa i tedeschi, con l’evidente consenso della “Rada”, invasero l’Ucraina per stabilirvi un governo asservito ai loro poteri, per esercitare nei confini nazionali un ruolo confacente agli interessi dei grandi e medi proprietari terrieri locali. Nondimeno il successivo collasso tedesco fornì nuovo spazio alle forze locali favorevoli ai bolscevichi, sino a giungere alla costituzione di un “governo provvisorio degli operai e dei contadini” a Kursk, sotto la presidenza di Piatakov, di lì a poco sostituito da Rakovsky. Alterne vicende successive portarono alla sconfitta delle armate controrivoluzionarie di Denikin, alla invasione da parte dell’esercito polacco e al deperire progressivo del ruolo delle forze rappresentative della nascente borghesia autoctona, troppo evidentemente asservite agli interessi dei potentati occidentali. Tutto ciò permise ai bolscevichi di rafforzare la propria posizione in Ucraina. Nondimeno ciò non affrancava Lenin e i suoi dall’obbligo di definirsi rispetto ad alternative cruciali, dopo che lo sviluppo degli avvenimenti poneva in buona sostanza al governo sovietico due possibili soluzioni: o incorporare l’Ucraina nelle strutture statuali russe o dare corso alle non sopite aspirazioni nazionaliste previo la costituzione di un’unità sovietica ucraina separata, ma correlata al potere bolscevico in Russia. Lenin, in sostanziale assonanza alle posizioni assunte sin dall’epoca prerivoluzionaria, propenderà risolutamente per la seconda per cui, in opposizione al radicalismo sommario di Bubnov e Rakovsky, intervenne ad una conferenza espressamente convocata a Mosca dopo la disfatta di Denikin, per ribadire esplicitamente questa sua specifica propensione per la risoluzione della vicenda ucraina; il tutto correlato ad un atteggiamento molto cauto che prevedeva cha la terra venisse distribuita ai contadini, che la costituzione dei “sovkoz” venisse limitata allo “stretto necessario” e che si procedesse alle requisizioni di grano solo “nei casi strettamente necessari”. In breve, una posizione ispirata alla massima cautela che derivava dalla percezione di una situazione assolutamente specifica, dove il consolidamento della posizione bolscevica in Ucraina appariva abbastanza precaria.
In definitiva si andava a delineare una situazione estremamente contraddittoria e carica di incertezze. E questo in primo luogo perché l’esperienza diretta aveva dimostrato come l’affermazione dei principi dell’autodeterminazione successivamente al crollo del regime tzarista aveva avviato la costituzione di tendenze tutt’altro che irrilevanti a riconoscersi entro i margini della regolamentazione borghese e quindi a trasformarsi in organismi statuali perfettamente asserviti ai potentati occidentali, purché gli interessi delle nascenti borghesie autoctone fossero adeguatamente tutelati. Un dato di fatto empirico che si differenziava non poco dalle precedenti valutazioni di Lenin formulate prima della presa del potere. Tuttavia la debolezza politica complessiva di questi potentati autoctoni in fase di costituzione aveva consentito il consolidamento di posizioni peculiari, tutto sommato favorevoli al potere bolscevico al potere in Russia; ma al tempo stesso si era venuta a determinare una situazione non priva di incertezze in quanto la trasformazione “socialista” che si avviava in Ucraina equivaleva alla stregua di una sorta di assimilazione perlomeno indiretta e ad un ridimensionamento delle aspirazioni autonomistiche ucraine, anche perché il regime che si veniva a costituire a Kiev era costituito al vertice quasi interamente da elementi “grandi-russi” ai quali d’ora innanzi il corpo sociale ucraino era tenuto a fornire osservanza. E questa non era una difficoltà che si poteva superare agevolmente.
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A trent’anni dalla fine dell’Urss. Le ragioni del crollo
Solo che quella rivoluzione nei paesi capitalisti avanzati non ci fu e il potere bolscevico vittorioso in Russia rimase drammaticamente isolato. Un contesto specifico che ebbe immediate ripercussioni nella Russia postrivoluzionaria, dove presero rapidamente corpo spinte centralistiche ed involutive che portarono in tempi brevissimi alla costituzione di un apparato burocratico sul ceppo dello stato operaio nato al termine dell’esperienza rivoluzionaria, di cui Stalin divenne rapidamente l’incarnazione tangibile e la rappresentazione emblematica.
Ben presto il potere burocratico si presentò rispetto al corpo sociale come un organismo totalmente autoritario, avulso da ogni controllo da parte dei comuni lavoratori e dei ceti popolari. E questo potere gestiva i meccanismi dell’economia di piano con criteri verticistici che privilegiavano per forza di cose l’industria pesante e i beni d’investimento, dove non mancarono successi clamorosi, a dispetto dell’apatia crescente che i comuni lavoratori manifestavano nelle loro attività produttive dove a comandare era sistematicamente il burocrate di turno; e a quest’apatia i vertici del regime staliniano reagirono con misure repressive di inaudita violenza, scaricando sul modo del lavoro quello che né più né meno era la conseguenza diretta della conduzione burocratica del potere postrivoluzionario. Come che sia per tutta una fase abbastanza lunga la burocrazia staliniana si manifestata come un ostacolo “relativo” allo sviluppo produttivo, nel senso che la crescita dell’economia sovietica avrebbe potuto essere maggiore e più bilanciato se la conduzione del potere fosse stata effettuata con criteri ispirati alla democrazie socialista patrocinata a suo tempo da Lenin, capace di coinvolgere l’intero corpo sociale nell’edificazione di un potere che rappresentasse effettivamente i ceti popolari e le masse diseredate. Ciò non toglie che lo sviluppo ci fu e, anche se circoscritto ai beni di investimento, trasformò l’Unione Sovietica nella seconda potenza economica mondiale, alle spalle solo degli Stati Uniti.
Alla resa dei conti le spinte regressive si fondevano con una crescita circoscritta ai soli beni d’investimento, mentre i privilegi dei burocrati di tutte le risme crescevano a dismisura e mentre nelle campagnole “fattorie collettive” o le “cooperative” garantivano una produzione di prodotti alimentari che rimaneva largamente al di sotto delle esigenze del corpo sociale.
Tutte queste tendenze contraddittorie assunsero un carattere crescente dopo la morte di Stalin nel 1953, quando apparve chiaro che il processo produttivo, per continuare a garantire l’impetuosa crescita complessiva sinora conosciuta, imponeva l’adozione di una svolta drastica capace di assicurare rinnovo tecnologico ed efficienza produttiva. Cioè uno sviluppo intensivo in luogo di quello estensivo sino ad ora sperimentato che si era basato sui beni di investimento e lo sviluppo dell’industria pesante; il che mal si conciliava con la perdurante egemonia incontrastata della burocrazia dominante che si presentava all’intera società come un organismo compatto e coeso, mentre era frazionata in molteplici rivoli e camarille che patrocinavano iniziative contraddittorie e illogiche che poi davano luogo a inerzie ed irrazionalità di ogni genere, dando poi luogo a inefficienze di ogni genere e sprechi a getto continuo.
Un contesto specifico che ha visto sistematicamente naufragare le sortite innovative messe a punto da tutte le dirigenze poststaliniane che hanno avviato tentativi correttivi dei meccanismi funzionali dell’economia sovietica ricorrendo ad una sorta di “riformismo interburocratico“dove il tentativo di procedere ad un rilancio del processo produttivo veniva avviato senza mettere in discussione il ruolo e i privilegi della burocrazia in quanto tale. In pratica una vera e propria contraddizione in termini. Alla resa dei conti questi tentativi asfittici sono risultati privi di una progettualità credibile, culminando sistematicamente in sostanziali fallimenti; prima tra tutti quelli sperimentati dalla dirigenza kruscoviana che cercò di sperimentare un progetto innovatore soprattutto nel mondo rurale con tentativi intesi ad incrementare la produzione agricola grazie a concessioni ai membri delle “cooperative” ; con risultati tutt’altro che soddisfacenti che porteranno alla esautorazione dello stesso Krusciov da parte dei settori più conservatori dell’apparato dominante. Indubbiamente mentre l’epoca kruscioviana volge al termine i poteri vessatori finora applicati indiscriminatamente dalla G.P.U. hanno subito una qualche contrazione, ma lo sbilanciamento strutturale tra élite dominante e corpo sociale non ha registrato mutazioni sostanziali; anzi quell’élite si lascia andare ad una sorta di stabilizzazione conservatrice che pone termine ad ogni innovazione effettiva. E per sostenere lo sviluppo economico in netto declino la direzione che si compatta sotto l’egida di Brezniev non trova di meglio che svendere agli occidentali le materie prime di cui il paese abbonda, pur di importare prodotti ad alto contenuto tecnologico che la gestione burocratica del processo produttivo non è in grado di produrre.
Tuttavia l’aggravarsi progressivo della situazione imporrà una sorta di rilancio dell’esperienza “riformatrice” non fosse altro per contrastare l’inarrestabile declino economico che tendeva a mettere in discussione l’intero impianto sociale e mandava letteralmente in frantumi tutte le cementificazioni sociali e, soprattutto, rendeva praticamente impossibile l’aggregazione al centro moscovita delle varie nazionalità che a suo tempo erano state incorporate con procedure coercitive o, come per i paesi baltici, in applicazione degli accordi intercorsi tra Molotov e Von Ribbentrop. Questo il sostrato del riformismo di Gorbaciov che tenterà un rilancio produttivo associando una sorta di impulso tecnologico alla “perestroika”, cioè ad una vistosa contrazione dei sistemi in uso già da tempo. Una sorta di tentativo di coinvolgimento della società civile, finalizzato allo scopo di allargare i margini di consenso per innovare alla radice una situazione che diveniva sempre più ingovernabile. Tuttavia niente da fare. Ormai la situazione si era deteriorata a tal punto da trasformare il ruolo della burocrazia dominante da fattore parzialmente ostativo allo sviluppo economico e civile in elemento letteralmente paralizzante di ogni crescita economica e civile. Così la “perestrojka” fallirà. Anzi gli spazi partecipativi offerti dal riformismo gorbacioviano si trasformeranno in un viatico perché inarrestabili forze dell’immenso paese si radicalizzino ed accentuino il distacco dal centro moscovita. Spinte dissolutrici inarrestabili che implacabilmente si trasferiranno ai medesimi centri urbani della Russia.
L’8 dicembre 1991 l’Unione Sovietica non esiste più.