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Il 24 aprile Marcon ha visto la sua scommessa: essere rieletto superando l’ostacolo delle elezioni presidenziali, e questo nonostante la profonda ostilità popolare.

Con il 58,46% dei voti espressi, più del 17% lo separa da Marine Le Pen.

Ma più del 34% dell’elettorato si è astenuto o ha votato bianco o nullo. Macron supera a malapena questa percentuale, dato che viene eletto solo dal 38,52% degli elettori registrati. È quindi il peggiore presidente eletto nelle undici elezioni della Quinta Repubblica (a parte il gollista Georges Pompidou, eletto con il 37% nel 1969). Il PCF, allora la principale forza di opposizione, invito esplicitamente all’astensione).

Non solo Macron è stato eletto male, ma la metà dei voti ottenuti al secondo turno non rappresentano in alcun modo un sostegno al suo operato o al suo programma. Essi provengono da un voto di sbarramento teso ad impedire l’elezione di Marine Le Pen, un’elezione che i sondaggi, la sera del primo turno, presentavano come una possibilità da prendere seriamente in considerazione. Macron ha giocato su questo rischio per 15 giorni, diventando il campione della lotta contro l’estrema destra, dichiarando che il programma della Le Pen “è un programma razzista, che mira a dividere la società, oltre ad essere molto brutale“.  Con un cinismo senza limiti, lui e i suoi ministri hanno fatto di tutto per dare un’immagine a 180 gradi della loro politica degli ultimi cinque anni, diventando improvvisamente oppositori radicali di una gestione violenta e autoritaria della società, mostrandosi offesi, ad esempio, per le dichiarazioni della Le Pen contro il diritto delle donne musulmane a portare il velo in pubblico.

La maggior parte dei media mainstream hanno giocato lo stesso ruolo contribuendo a “ridiabolizzare” urgentemente il Rassemblement Nationala di Marine Le Pen (RN), “dimenticando” che essi stessi avevano incoraggiato la banalizzazione delle idee e del programma dell’estrema destra, largamente compiacenti per anni verso le idee di Le Pen o di Zemmour sulla sicurezza, l’Islam e l’immigrazione.

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Anche se il rischio di un’elezione della Le Pen si era allontanato nei giorni precedenti il secondo turno, il risultato è comunque chiaro. Con 13,3 milioni di voti, l’estrema destra ha ottenuto il 24 aprile il suo miglior risultato in un’elezione presidenziale, con 2,6 milioni di voti in più rispetto al 2017, mentre lo stesso Macron ne ha persi quasi 2 milioni. Nel 2002, Jean-Marie Le Pen aveva creato un vero e proprio cataclisma ottenendo un risultato ben inferiore a quello di sua figlia, cioè 5,5 milioni di voti.

Ma riuscendo a far sì che, a malincuore, una parte dell’elettorato di sinistra votasse per lui, Macron ha raggiunto il proprio obiettivo: assicurarsi uno scarto sufficiente con Marine Le Pen perché la sua vittoria apparisse indiscutibile e per evitare che il numero delle astensioni fosse superiore a quelli da lui ottenuti. Questo risultato non può tuttavia nascondere una realtà evidente: il voto per Emmanuel Macron al secondo turno, indipendentemente da coloro che hanno votato per bloccare Marine Le Pen, pende chiaramente in direzione di un voto borghese, o di un voto classe o, ancora, di un voto “securitario” da parte dei pensionati e degli strati più privilegiati dei salariati.

Dall’altra parte, l’ostilità verso Macron è largamente dominante tra le classi lavoratrici e l’estrema destra ha potuto beneficiare di un voto che, almeno per la metà, non viene da un’adesione al suo programma ma dal rifiuto di un secondo quinquennio di Macron. L’estrema destra è riuscita ad occupare una posizione politica che ha permesso di sfruttare al massimo questo voto, cercando di trasformare questo suo nuovo fallimento per le presidenziali in un trampolino di lancio per le prossime imminenti scadenze delle elezioni politiche, senza dimenticare quelle presidenziali del 2027. La mappa dei risultati elettorali mostra una maggioranza di voti per Marine Le Pen in 30 dipartimenti su 100, in particolare nelle regioni popolari del Nord della Francia e della costa mediterranea. Con questa elezione, il partito di estrema destra è riuscito a fare ulteriori passi decisivi nella sua “banalizzazione”, grazie alla presenza della candidatura Zemmour, che ha potuto dare a Marine Le Pen l’immagine di un politico rispettabile, in particolare grazie al fatto di detestare apertamente Macron, facilitando in questo modo il ricorso alla scheda elettorale con il suo nome con l’obiettivo di “far fuori Macron”.

Questa crescente “banalizzazione” è stata abbastanza forte da permettere che “voto per Marine” rafforzasse il proprio impatto nei quartieri popolari. La crescita del voto a favore della Le Pen è arrivato nelle ultime settimane, legata in particolare alla scottante questione del potere d’acquisto e dal desiderio dichiarato da Macron, durante la sua campagna, di aumentare l’età pensionabile a 65 anni: elementi che hanno fortemente e ulteriormente esacerbato la rabbia popolare. Marine Le Pen ha cercato nella campagna per il secondo turno di rivolgersi in modo prioritario all’elettorato di, mettendo in sordina il più possibile gli aspetti islamofobici e le questioni di sicurezza a favore delle questioni sociali, in particolare quelle del potere d’acquisto e delle pensioni, cercando in questo modo di trasformare il voto in suo favore in una sorta di voto di classe deviato.

Questa strategia non è tuttavia andata in porto in molte urbane, come, ad esempio, la regione di Parigi nella quale Mélenchon era arrivato davanti a Macron al primo turno, contando in particolare sul voto di dipartimenti popolari come Seine Saint Denis e Val de Marne. L’astensione non è aumentata al secondo turno e l’elettorato di Mélenchon è andato in gran parte a Macron che ha ottenuto il 73% dei voti. Lo stesso è avvenuto in città come Lille e Marsiglia.

Ma il controesempio più spettacolare lo abbiamo avuto nei dipartimenti francesi delle Antille, della Guyana o sull’isola de La Réunion. In questi territori, anche se l’astensione è stata nettamente maggioritaria in entrambi i turni, il voto anti-Macron è stato massiccio al primo turno, provocato dalla gestione della crisi sanitaria, dal movimento dei gilets jaunes a La Réunion; e, nelle Antille, dallo scandalo della distribuzione dell’acqua, da quello del pesticida clordecone, per non parlare delle diverse settimane di sciopero generale dello scorso autunno. La rabbia sociale si è trasformata in un voto maggioritario per Mélenchon al primo turno. Al secondo turno, lo spostamento è stato quasi automatico verso il voto per Le Pen.

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Macron inizia dunque il suo nuovo mandato sulle ceneri del PS e della LR (Les Republicains), ma sotto queste ceneri c’è un letto di brace sociale che lui stesso ha alimentato durante il suo mandato quinquennale; sarà confrontato a due poli politici, uno di estrema destra, l’altro di una sinistra che si dichiara radicale e antiliberale. Avrà ottenuto esattamente l’opposto di quello che aveva promesso il 7 maggio 2017, la sera della sua elezione: “Farò di tutto perché non ci sia più motivo di votare per gli estremi“. Cinque anni dopo, ha contribuito a smantellare ulteriormente la credibilità politica della socialdemocrazia e della destra gollista, ma, soprattutto, le sue politiche hanno esacerbato le tensioni sociali e accentuato le divisioni.

Su tutti i fronti, ci sono problemi urgenti e il bilancio del governo Macron è chiaro. La situazione si è aggravata a seguito della pandemia nei quartieri popolari e nei comuni, e l’unica risposta è stata il ricorso a leggi razziste e alla violenza della polizia; a questo va aggiunto l’aumento del costo della vita, i bassi salari, l’aumento delle disuguaglianze, la precarizzazione dei contratti di lavoro e gli attacchi ai diritti dei disoccupati. Le uniche promesse di Macron per il suo secondo mandato sono di fatto nuovi attacchi alle pensioni, al sistema sanitario pubblico e al sistema educativo nazionale. Per imporre l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni, il ministro uscente dell’Economia, Bruno Le Maire, non esclude il ricorso all’articolo 49-3 della Costituzione, che gli permetterebbe di aggirare il dibattito e il voto parlamentare.

Di fronte alla miseria nella quale si trova il sistema sanitario, la pandemia e gli scandali apparsi negli ultimi mesi nelle EHPAD [Case anziani NdT], dopo anni di penuria e di soppressione di posti letto, rendono sempre più evidente la richiesta di creazione di nuovi posti letto negli ospedali, di assunzioni, di un sistema pubblico basato sui bisogni sanitari effettivi della popolazione. Un altro settore, la Convenzione dei cittadini per il clima, e nonostante essa sia stata organizzata da Macron nel 2019, ha visto il 90% delle sue raccomandazioni respinte e la Francia condannata due volte per la sua inazione climatica. Nessuna delle questioni sollevate dai Gilets jaunes è stata risolta e alcune sono state addirittura aggravate dalla pandemia e dai recenti aumenti di alimenti ed energia. I femminicidi, gli stupri e la violenza contro le donne, lungi dal diminuire, sono aumentati negli ultimi anni e molti nuovi drammi evidenziano la mancanza di risposta alle denunce, la passività di fronte ai criminali sessuali e la mancanza di protezione per le vittime.

Nonostante le forti mobilitazioni nelle Antille, l’unica risposta è stata una giravolta politica tesa a promettere l’autonomia, senza tuttavia nessuna risposta sulle questioni sociali urgenti, i risarcimenti richiesti sul clordecone, le questioni dell’acqua, i danni arrecati della crisi sanitaria. In Kanaky, lo pseudo-referendum sull’indipendenza lascia aperta la questione del percorso verso la sovranità kanak. Allo stesso modo, in Corsica, ogni dialogo è stato interrotto con la maggioranza nazionalista. È veramente lunga la lista dei motivi di rabbia di cui è responsabile il governo Macron. Tutte una serie di rivendicazioni, rimaste senza risposta per molti anni, hanno logorato le basi sociali dei partiti tradizionali e provocato la loro crisi. Una crisi accentuata da un sistema politico che concentra tutto il potere politico reale a livello nazionale. Questo sistema aumenta la rabbia contro i partiti che pretendono di gestire lo stato. Macron ha evitato di essere chiamato a rispondere delle sue politiche liberali e autoritarie, laddove PS e LR, che hanno in passato adottato politiche simili, sono stati fortemente ridimensionati. Ma questa capacità di Macron di schivare le conseguenze della sua politica non durerà a lungo di fronte alla rabbia sociale.

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I prossimi appuntamenti politici saranno le elezioni legislative del 12 e 19 giugno, con l’elezione dei 577 deputati che formano l’Assemblea Nazionale, la Camera legislativa, a cui risponde, nel sistema politico francese, il governo.

Anche se dall’introduzione del mandato presidenziale quinquennale vi è sempre un forte premio per il partito del presidente appena eletto che ha limitato i risultati delle le opposizioni, vi è oggi la speranza che il particolare contesto di queste elezioni presidenziali possa modificare questa situazione. In generale, le elezioni legislative hanno un tasso di astensione più alto delle presidenziali, più del 51% al primo turno cinque anni fa. L’elezione è un voto maggioritario a due turni e al primo turno si deve ottenere almeno il 12,5% dei voti degli elettori registrati per potersi ripresentare al secondo turno. In pratica, per un tasso di astensione equivalente a quello del 2017, questo rappresenterebbe, in media, più del 25% dei voti espressi. Si tratta ovviamente di un sistema che porta a una scrematura radicale e necessiterebbe quindi di ampie alleanze elettorali per affermarsi al primo turno. La massima probabilità è dunque una nuova maggioranza per il partito presidenziale, combattuta dalla stragrande maggioranza degli elettori; una maggioranza che imbavaglierà tutto il dibattito politico per cinque anni e rappresenterà un rullo compressore che spingerà per l’approvazione delle riforme liberali… a meno che le prossime sei settimane riescano a sconvolgere questo scenario.

Ci sono molte questioni in gioco in queste elezioni e parecchi chiarimenti avranno luogo solo nei prossimi giorni.

Ovviamente per Macron, la posta in gioco alle elezioni legislative è la conquista di una maggioranza assoluta (oggi ha solo 267 deputati, anche se altri 79 deputati centristi fanno parte della maggioranza presidenziale); l’obiettivo è quello di attirare quanto più possibile a propri margini politici, cioè da una parte sulla destra gollista e dall’altra sul PS, per cercare di allargare la sua base con adesioni individuali. Anche se le elezioni legislative sono una continuazione delle elezioni presidenziali, il peso residuo a livello locale e regionale per il PS e LR è ben superiore a quello ottenuto dai loro candidati nelle elezioni presidenziali. Il PS, i repubblicani (LR) e i loro relativi rappresentanti eletti sono molto più presenti nelle istituzioni dipartimentali e regionali di En Marche, il partito di Macron: 685 consiglieri dipartimentali per il PS e 838 per LR, (e un numero equivalente per i consigli regionali), ben più dei 400 consiglieri dipartimentali e 118 consiglieri regionali di En Marche. Allo stesso modo, nelle città con più di 30’000 abitanti, ci sono 50 sindaci PS e affini, 99 LR e affini, 3 En Marche e affini.

La rete politica istituzionale è ancora appannaggio dei due vecchi partiti tradizionali, anche se il loro peso è crollato su scala nazionale. En Marche deve quindi fare uno sforzo, non avendo un’alleanza nazionale con il PS o LR, ma cercando di far pesare le sue personalità locali, poiché i deputati di En Marche hanno spesso l’immagine di eletti senza una rete di riferimento locale. Macron vuole evitare di non riuscire a ottenere una maggioranza assoluta.

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All’estrema destra, la linea è semplice. Non ci sarà nessuna alleanza tra la RN e Reconquest, il partito di Zemmour e Marion Maréchal. L’obiettivo di Marine Le Pen è addirittura quello di soffocare Zemmour imponendo, come nelle elezioni presidenziali, un voto utile al primo turno per garantire la presenza dell’estrema destra al secondo turno. Marine Le Pen è arrivata prima in 260 circoscrizioni legislative nelle elezioni presidenziali, e i primi sondaggi le danno la possibile elezione di 75 – 100 deputati. Ma le elezioni non corrispondono ad una rigida proiezione del voto nazionale. Presentando candidati ovunque, il RN non si illude di avere una maggioranza all’Assemblea, ma piuttosto di moltiplicare forse per dieci il numero dei suoi deputati (oggi sono solo otto all’Assemblea nazionale uscente). Inoltre, il finanziamento pubblico dei partiti politici (66 milioni di euro all’anno) è calcolato per metà sul numero di voti ricevuti nelle elezioni legislative e per l’altra metà sul numero di deputati eletti.

Per Zemmour, come per Le Pen, la questione è anche finanziaria, visto che il 55% delle risorse dichiarate del RN provengono da finanziamenti pubblici (cioè 5 milioni di euro). Il RN intende trasformare la sua sconfitta presidenziale in un trampolino per le elezioni legislative e consolidarsi, nonostante la sua recente crisi. Anche il RN, come En Marche, ha una debole base istituzionale locale e conta sulle prossime elezioni per costruirsi, avendo come obiettivo le presidenziali del 2027 (forse con una quarta candidatura di Marine Le Pen). In ogni caso, chiudere la parentesi Zemmour è il suo obiettivo immediato. Quest’ultimo non ha prospettive per il momento, e ancor meno per le prossime elezioni.

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Per i repubblicani (LR) la situazione è drammatica. La pressione non viene tanto dal RN quanto dalla maggioranza presidenziale. Nicolas Sarkozy, l’ultimo presidente eletto del partito LR, una vera “figura di comandante” del partito gollista, ha chiaramente ostentato la sua sfiducia nella campagna e nel candidato ufficiale di LR (Valerie Pecresse) dichiarando pubblicamente il proprio sostegno a Macron. Non nasconde, come molti altri leader di LR, il suo desiderio che i gollisti si integrino in un modo o nell’altro nella maggioranza presidenziale. I dirigenti del partito, divisi, vorrebbero cercare di salvare i mobili e l’esistenza del partito come partito indipendente, come hanno fatto nel 2017 quando erano riusciti a mantenere poco più di cento deputati. Ma quest’anno questo numero sarà probabilmente dimezzato. Il risultato è quindi incerto. Così, il presidente del gruppo parlamentare, Damien Abad, sembra essere favorevole a saltare il fosso e unirsi, già oggi, a Macron.

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Infine, la grande novità potrebbe venire dalla sinistra e dalla sinistra radicale. Tra i due turni delle elezioni presidenziali, la France Insoumise (FI) ha proposto un fronte comune per le elezioni legislative al PCF, all’NPA e l’EELV per un’unione intorno alle linee principali del programma “L’Avenir en commun” presentato da Jean-Luc Mélenchon, con l’obiettivo di una maggioranza dell’Unione Popolare all’Assemblea Nazionale che imponga Mélenchon come primo ministro.

Il PCF ha risposto positivamente, senza esprimere alcuna differenza con il quadro proposto dalla France Insoumise. Per quanto riguarda EELV, la questione è più complessa. Il partito verde è fortemente indebitato, avendo ottenuto meno del 5% dei voti. Il partito verrà così rimborsato per le sue spese di campagna sulla base di 800’000 euro e non di 8 milioni di euro, somma sulla quale aveva costruito il suo bilancio. La leadership ha deciso di “salvare la baracca”, di aprire discussioni con la France Insoumise (LFI), malgrado il proprio candidato alla presidenza, Yannick Jadot, abbia insistentemente segnalato i propri disaccordi con Mélenchon durante tutta la campagna, in particolare sul rispetto del quadro istituzionale dell’Unione europea o sulla pensione a 60 anni. Inoltre, si sentono molte voci discordanti, con lo stesso Yannick Jadot che si oppone alla leadership di Mélenchon in questa possibile alleanza. Nel merito, EELV si divide tra una linea chiaramente compatibile con il liberalismo sociale e una linea più radicale vicina a LFI, rappresentata, durante la fase delle primarie nel partito, da Sandrine Rousseau. Anche qui, le cose non sono chiare e definitive, tutt’altro.

Una sorpresa è poi arrivata qualche giorno fa dal PS, che non era considerato nella proposta di alleanza lanciata dalla France Insoumise. Il 19 aprile, un Consiglio nazionale del partito, facendo il punto sul disastro finanziario e politico della candidatura di Anne Hidalgo (1,75%), ha deciso a maggioranza di chiedere alla France Insoumise di partecipare alla discussione per le elezioni legislative, nonostante il notevole disaccordo di Anne Hidalgo e di diversi dirigenti storici del partito. Mentre LFI aveva detto fino ad allora che l’accordo non poteva essere esteso ai social-liberali, Jean-Luc Mélenchon, due giorni dopo, si è dichiarato a favore di un’ampia alleanza, da Lutte Ouvrière al PS. Manuel Bompard, portavoce della France Insoumise (LFI) per questo negoziato ha tenuto a precisare, di fronte a questi sviluppi della situazione, che l’accordo implicherebbe per il PS di pronunciarsi per l’abrogazione della legge sul lavoro El Khomri (un cocktail di attacchi sociali ai diritti collettivi nelle imprese), imposta dal governo di François Hollande, per riportare il il diritto al pensionamento a 60 anni e la cancellazione della riforma della ministra socialista Marisol Touraine sulle pensioni che, sempre sotto la presidenza Hollande, aveva aumentato il diritto al pensionamento a  62 anni e una riduzione delle pensioni; infine, il PS dovrebbe aderire al progetto di VI Repubblica avanzato da LFI, rimettendo così in discussione la Costituzione del 1958.

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Complessivamente, queste discussioni intorno a un’Unione Popolare allargata, spinte da un reale slancio popolare sviluppatosi attorno alla campagna di Mélenchon, mescolano dinamiche militanti con calcoli di bottega dei diversi partiti per salvare l’apparato e mantenere i gruppi parlamentari. La questione è sapere quale delle due dinamiche prevarrà.

L’NPA, fin dall’inizio, si è dichiarato disponibile a un accordo che, basato sul programma “l’Avenir en Commun“, potrebbe concretizzarsi solo attraverso la rottura delle basi social-liberali del PS, e anche con una chiarificazione in seno a EELV. Ha pure affermato che ogni partito dovrebbe poter mantenere la propria identità e che non ci dovrebbe essere l’obbligo di partecipare e di essere solidali con il governo che potrebbe emergere dalla conquista di una maggioranza da parte di questa alleanza.

Per raggiungere l’obiettivo elettorale di una maggioranza “dell’Unione Popolare” all’Assemblea nazionale appare necessario realizzare, in poco più di un mese, una mobilitazione militante locale eccezionale, in particolare se confrontata con l’abituale lentezza delle elezioni legislative, tanto più che Mélenchon si è imposto solo in 105 circoscrizioni legislative su 577. In ogni caso, la posta in gioco politica è reale. Per la prima volta a sinistra, da molto tempo, appare la possibilità di costruire un fronte politico e sociale, un fronte di azione comune intorno ad assi politici e sociali di rottura con il social liberalismo, anche se il quadro è circoscritto alle elezioni legislative e quindi limitato a un obiettivo puramente istituzionale. Il programma di Mélenchon e la costruzione della France Insoumise sono stati realizzati in esplicita rottura con il quinquennio 2012/2017 di François Hollande e la deriva social-liberale del PS.

Anche se il programma “L’Avenir en commun” è sostanzialmente un programma elettorale che l’Unione Popolare prevede di attuare ottenendo una maggioranza parlamentare, la polarizzazione politica delle ultime settimane solleva questioni che vanno oltre la scadenza di giugno, sull’onda delle lotte sociali degli ultimi anni. La sfida potrebbe essere, su una scala più ampia e andando oltre a ciò che è stato fatto da La France Insoumise con il suo parlamento dell’Unione Popolare, quella di creare un crogiolo politico e sociale che permetta la presenza e l’attività di un fronte d’azione militante nelle città e nei quartieri popolari. La sfida sarebbe quella di cambiare la situazione, in particolare di fronte all’estrema destra e alle derive reazionarie, permettendo a temi fondamentali della giustizia sociale, dei diritti sociali e democratici, della lotta contro l’esclusione e la discriminazione di imporsi nel dibattito pubblico intorno alle lotte sociali e nelle mobilitazioni che riuniscono correnti militanti attualmente frammentate. Un fronte comune per le elezioni legislative potrebbe quindi essere un trampolino di lancio per un tale progetto, a condizione naturalmente che la presenza del Partito Socialista non offuschi l’immagine di questa alleanza e la trasformi in un indigesto “pastone elettorale” senza principi, l’antitesi delle lotte sociali degli ultimi anni.

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Molte delle questioni proposte dalla campagna France Insoumise riecheggiano le posizioni e le rivendicazioni avanzate dall’NPA e da Philippe Poutou durante la sua campagna. Su altri punti, l’NPA sviluppa un programma anticapitalista che, ovviamente, va oltre e, soprattutto, lega questo programma alla necessità di mobilitazioni sociali, anche per raggiungere i più elementari obiettivi di giustizia sociale, così come la necessità di confrontarsi con il potere e le leve politiche a disposizione dei capitalisti.

Tutto ciò non rappresenta solo una questione di maggioranza parlamentare ed è in linea le deludenti esperienze di Syriza e Podemos. Tuttavia, anche un accordo elettorale su alcuni punti chiave sarebbe un passo avanti concreto. Inoltre, se all’indomani del 19 giugno, un ampio fronte attorno all’Unione Popolare riuscisse a disporre di 100, 50 o anche solo 30 deputati, la prospettiva che si aprirebbe per tutti sarebbe quella della costruzione di un fronte militante politico e sociale.

Molte cose saranno chiarite nei prossimi giorni e fino al 7 maggio, termine ultimo per un accordo che permetta di lanciare la campagna. Molte correnti militanti sperano in un esito positivo di questo processo.

*articolo apparso il 28 aprile su ESSF. La traduzione in italiano è stata curata dal segretariato MPS