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Dalla probabile ma problematica adesione della Finlandia alla Nato, fino alle crisi esplosive in Pakistan e Sri Lanka, ai riflessi dell’ondata di Covid in Cina, alle tensioni “nucleari” tra le due Coree e alle manovre militari russe nelle isole Kurili, gli sviluppi internazionali delle ultime due settimane dipingono una forte instabilità, ricollegabile in vari modi alla guerra in Ucraina.

All’ombra della guerra in Ucraina stanno maturando nel mondo diverse altre situazioni di crisi, alcune con coordinate manifeste, altre in modo più latente. Nelle sole due ultime settimane si è evidenziata una serie di eventi, qui passati in rassegna, che testimonia l’estrema fragilità di equilibri fino a ieri dati per scontati. La loro natura variegata è sintomatica delle problematiche che pesano in questo momento sulla situazione mondiale.

Partiamo dall’Europa e da alcuni sviluppi direttamente collegati alla guerra in Ucraina. In Finlandia il governo è ormai chiaramente intenzionato ad aderire alla Nato, con il supporto di un’ampia maggioranza della popolazione. Anche in Svezia è emersa una linea politica simile, anche se in termini comparativamente più moderati. In Finlandia è particolarmente viva la memoria dell’invasione del paese da parte dell’Urss nel 1939 che aveva visto i finlandesi resistere in massa con modalità simili a quelle degli ucraini oggi, pur con le notevoli differenze di contesto storico. L’intenzione di aderire all’alleanza atlantica tuttavia si scontra con un semplice problema pratico: sebbene le forze armate finlandesi siano già a livelli tecnici e di preparazione idonei per un ammissione alla Nato, il processo richiederebbe comunque molti mesi per essere portato a compimento, esponendo così il paese al rischio di essere oggetto di pesanti ritorsioni o addirittura di un intervento armato della Russia nel periodo di limbo prima che scatti la protezione dell’”ombrello” Nato di mutua assistenza in caso di attacco militare. A complicare ulteriormente il processo è il requisito dell’approvazione di ogni nuovo membro da parte dei parlamenti di tutti i paesi dell’alleanza. A tale proposito, la rielezione alcuni giorni fa di Viktor Orban in Ungheria con un’ampia maggioranza rischia di essere di grosso ostacolo ai progetti del governo di Helsinki e al desiderio dei finlandesi. Come è noto, Orban ha forti legami economici e ideologici con la Russia di Putin, e in occasione della sua rielezione ha esplicitamente citato Volodymyr Zelensky come uno dei suoi principali nemici. Più complessa la situazione in un altro membro Nato e Ue, la Bulgaria, dove nella coalizione di governo i filo-atlantisti convivono con i socialisti filorussi che godono di fatto di un potere di veto, rafforzato dalle posizioni analoghe alle loro del presidente Rumen Radev e dall’importante ruolo che svolge all’opposizione il partito dell’estrema destra filoputinista Vuzrazhdane. A causa di questi equilibri instabili, tra le altre cose, il governo di Sofia ha rifiutato la richiesta Usa di fornire missili a Kyiv, ma potrebbe presto inviare armi leggere. In mezzo a questi due paesi, la netta vittoria registrata in questi giorni da Aleksandar Vucic in Serbia, che non è membro né della Nato né dell’Ue, ma è membro della Partnership per la Pace e ha formalmente richiesto l’adesione all’Unione, ed è allo stesso tempo uno dei più espliciti simpatizzanti di Vladimir Putin e Xi Jinping in Europa, rafforza il ruolo di un’altra pedina di Mosca nel continente. Tutti questi sviluppi in aree apparentemente marginali d’Europa contribuiscono ad aumentare la già altissima tensione nell’area.

Spostiamoci ora in Asia, con altri esempi di problematiche molto variegate e potenzialmente esplosive. Il Pakistan, paese di 220 milioni di abitanti e potenza nucleare eternamente in conflitto con la vicina India, anch’essa potenza nucleare, è in preda a una gravissima crisi politica. Il primo ministro Imran Khan si è dimesso e il parlamento è stato sciolto, dopo che il premier aveva perso il sostegno della potente lobby militare, mentre il paese è in preda a una profonda crisi economica che lo ha costretto a chiedere un intervento di salvataggio del Fmi e mentre la popolazione è sempre più infuriata per la conseguente crisi sociale. A svolgere un ruolo importante nelle dimissioni di Khan è stata la sua alleanza sempre più stretta con la Cina, che settori dei vertici militari vedono di cattivo occhio. Nel paese ci saranno elezioni anticipate, e non è in alcun modo chiaro quali saranno gli esiti di questa crisi generalizzata, in termini sia di chi prenderà le redini del paese e del conseguente orientamento internazionale del Pakistan, sia di futuri sviluppi della esplosiva crisi economico-sociale. Ciò avrà riflessi anche sull’India che, come avevamo già riportato in “Crisi Globale”, nelle scorse settimane aveva sparato “per sbaglio” un missile sul Pakistan. Per avere un’idea del groviglio di relazioni internazionali nell’area basta questo schematico riassunto: il Pakistan ha stretti legami con la Cina, ma tra i militari che hanno smesso di sostenere Khan è forte l’orientamento verso gli Usa; l’India, acerrima nemica del Pakistan, dipende dalla Russia per le proprie forniture di armi, ma vuole allo stesso tempo mantenere le buone relazioni con gli Usa nell’area a causa dell’ostilità nei confronti della Cina, con la quale ha avuto scontri militari un paio di anni fa; la Cina sostiene il Pakistan, ma ha anche ottime relazioni con la Russia che appoggia l’India, ed è in conflitto diplomatico-economico con Ue e Usa, ai quali però è fortemente legata a livello economico… È evidente che un degenerare della crisi in un paese apparentemente lontano come il Pakistan può avere riflessi notevoli sul contesto della guerra in Ucraina. Va inoltre ricordato che persiste la situazione di guerra interna nel Myanmar, dopo il golpe dei militari dell’anno scorso che ha incontrato una massiccia resistenza popolare, sia pacifica che armata. Qui la Russia sostiene incondizionatamente i golpisti, la Cina li appoggia ampiamente a livello economico e militare, ma dà sostegno militare anche a gruppi armati di nazionalità oppresse in lotta contro il governo centrale. Da parte sua, la resistenza popolare contro la giunta golpista ha espresso a chiare lettere la propria vicinanza ai resistenti ucraini. Sempre in questa area, intesa in senso ampio, si trova ormai letteralmente sull’orlo del baratro lo Sri Lanka, colpito da una crisi economica devastante con la moneta nazionale a picco, il governo totalmente allo sbando e uno stato di insurrezione generalizzato che ha visto nei giorni scorsi anche un tentativo di assalto alla sede della presidenza. Oltre a problemi politici interni di lunga data, il fattore che ha fatto scattare questa radicale crisi è l’onda lunga degli effetti economici della pandemia. Il caso dello Sri Lanka è con ogni probabilità un esempio di ciò che potrebbe attendere molti paesi fragili quando a livello economico si faranno sentire con più forza le conseguenze della guerra in Ucraina, in termini in particolare di rincari dei prodotti e di carenze di beni alimentari.

Spostiamoci ancora più a est, e questa volta non per parlare di Taiwan, menzionata costantemente dai media in relazione all’Ucraina in quanto esposta a minacce militari simili, ma dove altrimenti in questo momento la situazione è paradossalmente più pacifica che nello scorso anno a causa del diradarsi delle incursioni aeree di Pechino e, in parallelo, dei passaggi di navi militari occidentali. Cominciamo invece proprio dalla Cina. In quest’ultimo paese si sta sempre più aggravando la crisi generata dall’ondata della variante omicron del virus Sars-Cov-2. Nel momento in cui scrivo i casi ufficiali sono attestati a circa 20.000 al giorno, un livello mai visto dopo Wuhan, ma restano svariati punti di domanda rispetto ai dati forniti da Pechino. Per esempio, le autorità riferiscono di un’incidenza dei casi sintomatici rispetto a quelli asintomatici (che non vengono inclusi nelle statistiche, unico caso al mondo) addirittura di solo il 2%, una percentuale bassissima mai vista altrove. L’intera Shanghai con i suoi 25 milioni di abitanti è sotto lockdown totale a tempo indefinito. Sul social Weibo sono stati diffusi video di proteste nella città, accompagnati da numerose denunce di morti da Covid tenute segrete, nonché di morti di persone con altre malattie che non sono state soccorse. Sono in lockdown da settimane città un po’ ovunque, in particolare quelle molto grandi del nord-est, dove tra i tanti altri centri, Changchun, metropoli industriale di 4,6 milioni di abitanti, è in lockdown “duro” da 26 giorni. Se fino a quest’autunno il governo di Pechino aveva fatto ricorso a strumenti più elastici, come gli immediati test di massa e i lockdown limitati a quartieri, ora è tornato allo strumento del lockdown totale. I lockdown cinesi sono molto più duri di quelli sperimentati per esempio in Europa. Non è possibile uscire dal proprio appartamento, si è sotto sorveglianza del responsabile di caseggiato del Partito Comunista a sua volta sotto controllo di quello di quartiere, dalle buone relazioni con i quali dipendono per intero i rifornimenti di cibo. I positivi, anche asintomatici, vengono deportati in appositi centri, spesso improvvisati e fatti di container o di tende, molto simili a centri di reclusione. I bambini, ivi compresi quelli di soli 2-3 anni vengono separati dai genitori. Inoltre i lavoratori, all’emergere di un caso nel loro luogo di lavoro o nel relativo circondario, sono il più delle volte costretti anche senza preavviso a rimanere a tempo indefinito sul posto, il che spesso vuol dire dormire sul pavimento dell’ufficio o della fabbrica. È ovvio che una tale gestione, accompagnata oltretutto da una totale inadeguatezza del sistema sanitario, rischia di generare forti tensioni a livello sociale. Ma quello su cui in questo articolo ci concentriamo sono i possibili effetti internazionali. Nel caso dell’ondata di Covid in Cina questi effetti sono di due ordini. Il primo è un aggravarsi della situazione già molto difficile delle catene di approvvigionamento internazionali incentrate sulla Cina. Il nord-est in lockdown è per esempio uno dei più importanti centri mondiali della produzione automobilistica, già in difficoltà in seguito alla guerra in Ucraina. Ma è anche un importante centro della produzione di cereali e altri alimenti, che copre il 20% del fabbisogno nazionale. Il settore agricolo dell’area ha drasticamente ridotto le sue attività a causa dei lockdown, rimanendo tra l’altro privo di consegne di fertilizzanti (prodotto già carente o comunque sempre più costoso a causa dell’aumento dei prezzi del gas che serve per produrli) e ciò proprio quando la stagione della semina è alle soglie. Tutto questo avviene mentre la Cina è già in una posizione delicata in termini di rifornimenti alimentari a causa dei carenti raccolti dell’anno scorso, motivo per cui sta da tempo accaparrando riserve. I grossi problemi della Cina rischiano di aggravare ulteriormente gli sconquassi causati dalla guerra in Europa, dove proprio l’Ucraina e la Russia non riusciranno quest’anno a coprire adeguatamente la loro funzione di “granai del mondo”. Un secondo aspetto della crisi del Covid in Cina è quello del prestigio nazionale. Da due anni il regime cinese ha incentrato in buona parte le tesi della superiorità del proprio modello (e implicitamente quella dei cinesi in quanto tali) proprio sulla “sconfitta del Covid”. Se l’ondata in corso dovesse durare a lungo, o addirittura trasformarsi in contagi costanti come altrove, l’autorevolezza del “modello” sarebbe fortemente intaccata a livello interno e internazionale. Questo in un contesto mondiale in cui vi sono altre grandi potenze che basano la loro ideologia sulla “superiorità” di modelli nazionali: lo si vede in modo macroscopico in questo momento nel caso della Russia, ma sono in competizione su basi di natura simile anche gli Usa. In maniera più direttamente geopolitica la Cina rischia di perdere prestigio anche per quanto riguarda il suo grandioso progetto delle “nuove vie della seta”, già comunque in crisi: basti dire che paesi già citati come Ucraina, Pakistan e Sri Lanka ne sono snodi fondamentali.

In chiusura, torniamo sugli ambiti direttamente militari per constatare alcuni altri preoccupanti sviluppi dell’ultima decina di giorni, sempre nell’area dell’est asiatico. Sta notevolmente aumentando la tensione tra le due Coree. Avevamo già accennato in “Crisi Globale” all’aumento esponenziale, da inizio anno, dei test di missili di ogni tipo, in grado di trasportare testate nucleari, effettuati da Pyongyang. In questo momento si pone la questione della manovre militari congiunte che Usa e Corea del Sud effettuano ogni anno nella parte meridionale della penisola coreana durante la stagione primaverile. Negli ultimi tre anni erano state fortemente ridotte in termini di portata, fino a diventare esercitazioni di natura principalmente informatica, al fine di non innalzare la tensione dopo che Pyongyang aveva cessato i test nucleari. Quest’anno pare che torneranno, se non ai livelli precedenti, comunque ad avere un rilevante profilo operativo sul terreno. Il regime di Kim Jong-un ha effettuato un’escalation dei suoi attacchi verbali contro il Sud, arrivando alcuni giorni fa a minacciare di distruggere Seul o di annientare la Corea del Sud con missili nucleari se la sicurezza del Nord dovesse essere messa in pericolo da un attacco. Contemporaneamente a questi sviluppi, il ministro della difesa sud-coreano sta prendendo parte oggi, ed è una prima assoluta, al vertice Nato a Bruxelles per parlare di Ucraina nonché, sicuramente, anche della situazione nella penisola Coreana. Manca ormai solo un mese, inoltre, all’insediamento del neoeletto presidente di destra sud-coreano Yoon Suk-yeol che sposterà con ogni probabilità molto più verso Washington e la linea dura contro Pyongyang rispetto al precedente presidente di centrosinistra. In questi giorni Yoon ha annunciato che una volta entrato in carica chiederà agli Usa di ridispiegare in Corea del Sud i bombardieri e i sottomarini nucleari ritirati da Washington negli anni ‘990.

Altri due eventi importanti di questi giorni vanno nel senso di un’escalation militare. L’Aukus, il patto per la sicurezza siglato l’estate scorsa tra Australia, Regno Unito e Usa in funzione anti-Cina, ha annunciato che avvierà un programma per lo sviluppo di missili ipersonici, un’arma pericolosa perché in grado di trasportare testate nucleari e di sfuggire ai sistemi antimissile. La Russia ne è già dotata da tempo e afferma di averne utilizzati due sul campo in Ucraina, mentre la Cina ne è dotata da tempi più recenti, ma ha messo a punto il modello più micidiale di tutti, in grado di trasportare testate nucleari multidirezionali. Infine, la Russia ha interrotto unilateralmente le trattative con il Giappone riguardanti l’arcipelago delle Kurili, attualmente per la maggior parte sotto il controllo di Mosca, ma che Tokyo rivendica per intero, e riguardo al quale dopo il 1945 non è mai stato firmato un trattato di pace. Immediatamente dopo la chiusura delle trattative, la Russia ha avviato manovre militari nelle Kurili, ancora in corso nel momento in cui scrivo.

*articolo apparso il 7 aprile 2022 sul blog crisiglobale.wordpress.com