Dopo due mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, l’escalation militare sembra non avere fine. Sempre più evidente è lo scontro fra la Russia e i paesi NATO guidati dagli Stati Uniti che inviano armamenti pesanti e sofisticati all’Ucraina, favorendo la permanenza del conflitto. Una situazione pericolosissima che richiama la mancanza dell’etica di responsabilità, quella che dovrebbe costringere a pensare alle conseguenze che determinate azioni e scelte possono avere per l’umanità. Con disinvoltura si discute dell’uso di armi nucleari, ipotesi prevedibile data l’imprevedibilità e l’irresponsabilità degli apparati burocratici-militari delle superpotenze. Questi ultimi, mentre propagandano la pace preparano e alimentano la guerra. Il governo italiano è parte di questo gioco pericoloso.
Il nuovo decreto governativo per far fronte alle conseguenze della guerra vale circa nove miliardi di euro, quasi il doppio della cifra inizialmente prevista. Si tratta di spese per l’invio di armi: missili antiaerei, munizioni per artiglieria pesante, mine, teleradio, fucili di precisione. Non basta spegnere i condizionatori per fermare la guerra, anzi si cerca la “pace” sostenendo la guerra, nonostante la maggioranza degli italiani, resistendo all’ostinata propaganda dei media, continui ad essere contraria all’invio di armi.
L’avanzare dell’economia di guerra ripropone l’incubo della stagflazione: recessione + inflazione. Diversi gli indicatori preoccupanti. Si prevede un prodotto interno lordo del + 2,2%, un punto e mezzo in meno di quello adombrato due mesi fa. Una discesa che potrebbe annunciare la necessità di uno scostamento del bilancio, cioè un aumento della spesa in deficit. Dopo quella provocata dalla pandemia, quando si persero quasi nove punti di ricchezza, una nuova recessione non è da escludere nel caso di un embargo totale di importazioni di gas dalla Russia.
Contemporaneamente l’inflazione è schizzata in aprile al 6,2%, una tendenza già in atto prima della guerra e ora eccitata dal rialzo dei prezzi delle materie prime e dalla crisi della catena globale dell’industria. L’inflazione è la peggiore delle “tasse”, la si paga con una riduzione del potere d’acquisto e colpisce chi ha un reddito fisso o la pensione. Con l’inflazione al 6,2% si ha un incremento di spesa dell’8,3% per le famiglie, quelle vicine al limite della povertà. Senza aumenti salariali e delle pensioni un “pezzo” consistente di quel mondo rischia di sprofondare nella povertà, trascinando con sé la caduta della domanda interna già messa a dura prova dal calo del valore degli stipendi dell’8,3% negli ultimi dieci anni. Poco compensative sono le misure momentanee adottate dal governo, per altro comprensive della riduzione in tre anni della spesa per la scuola (dal 4% del Pil al 3,5%) e la sanità (dal 7% al 6,2%).
Il premier Mario Draghi propone un “patto sociale”, riprendendo l’esempio dell’accordo siglato il 31 luglio 1992 tra l’allora governo Amato, i tre maggiori sindacati e la Confindustria che abolì la scala mobile, quel meccanismo che consentiva ai salari e alle pensioni di tenere il passo con l’aumento dei prezzi. Occorrerebbe ben altro per assicurare una vita dignitosa alla stragrande maggioranza della popolazione: adeguamenti salariali mediante una vivace contrattazione, reintroduzione di un “motore” simile alla scala mobile, piano generalizzato di assunzioni stabili e non precarie, redistribuzione del lavoro a parità di salario. Per questo è necessario costruire dal basso, se i vertici dei sindacati maggioritari non vorranno farlo, lo sciopero generale contro la guerra e l’economia di guerra del prossimo 20 maggio indetto per ora dai sindacati di base e appoggiato da organizzazioni sociali e politiche di sinistra.