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Come considerare il conflitto in quanto militante anticapitalista? Di ritorno dall’Ucraina, Olivier Besancenot ritiene che le forze progressiste del continente europeo debbano sostenere più apertamente il popolo ucraino, vittima dell’imperialismo russo. Olivier Besancenot si è recato in Ucraina tra il 3 e l’8 maggio, insieme a rappresentanti di vari partiti della sinistra europea, tra cui il movimento Ensemble.

Perché andare oggi in Ucraina, come militante di un partito politico?

Abbiamo risposto a un invito del Movimento sociale, un’organizzazione della sinistra ucraina, in collegamento con la Rete europea di solidarietà con l’Ucraina e contro la guerra. Ci siamo confrontati con attivisti politici e sindacalisti. Abbiamo anche incontrato due collettivi femministi (Feminist Worshop e Bilkis), i quali hanno evocato con grande emozione la sorte delle donne violentate nelle zone di occupazione o di quelle catturate dalle reti di prostituzione quando fuggono dal Paese.
Ci sono anche molte donne coinvolte nei combattimenti e ci hanno raccontato dei riflessi sessisti che esistono all’interno dei battaglioni ucraini. Soprattutto, queste donne ci hanno ricordato che non si tratta di “fratelli russi” che attaccano altri “fratelli ucraini”, ma di soldati russi che attaccano uomini e donne ucraini.

Cosa l’ha sorpresa di questo Paese che l’Occidente conosceva poco, prima della guerra?

La cosa più sorprendente è vedere come la vita politica continui nonostante il conflitto, con realtà differenti a seconda ovviamente della zona del Paese in cui ci si trova. Le questioni sociali non sono scomparse a seguito dei combattimenti. I sindacalisti che abbiamo incontrato, coinvolti nella resistenza contro Putin, continuano a lottare contro le politiche neoliberali portate avanti dal presidente Zelensky. Ad esempio, il suo governo sta sfruttando il contesto della guerra per facilitare i licenziamenti in diverse imprese.
Altri militanti ecologisti protestano contro il taglio delle foreste, tagli che erano stati sospesi prima della guerra e che ora sono stati nuovamente autorizzati. Queste battaglie non sono irrisorie. Da un punto di vista politico, questi militanti della sinistra ucraina vogliono anche far capire alla sinistra francese ed europea che l’aggressione russa ha un nome: è un’offensiva imperialista.

A più di trent’anni dalla caduta dell’URSS, è ancora delicato dichiararsi di sinistra in Ucraina…

I militanti con i quali abbiamo parlato si rivendicano del socialismo. In Ucraina è stata votata [nel 2015 – ndr] una legge sulla “decomunistizzazione”: tutti coloro che si richiamano al comunismo sono considerati alleati dei russi, anche quelli che resistono all’invasore. Affermare questa identità politica, tuttavia, conserva ancora tutto il suo senso strategico. Questi militanti si oppongono all’imperialismo russo e rivendicano una società democratica che non ha, evidentemente, nulla a che fare con i sistemi burocratici e totalitari del passato. Si collocano quindi, a loro modo, nella continuità di una sinistra antistalinista che è sempre esistita in Ucraina, e più ampiamente nell’Europa dell’Est. Hanno anche stabilito relazioni con alcuni gruppi socialisti indipendenti e dissidenti in Russia, anche se oggi è molto complicato. Molti di questi russi vivono attualmente in clandestinità o sono fuggiti all’estero.

Esiste un’eredità di Nestor Makhno, il celebre anarchico, e di questo movimento oggi in Ucraina?

Ho incontrato due militanti “antiautoritari”, legati a un battaglione anarchico della difesa territoriale, posizionato a sud di Kiev. In tutta Europa si organizzano collette per inviare attrezzature a questo battaglione, elmetti, droni o giubbotti antiproiettile. Questi combattenti devono praticamente organizzarsi da soli, come molte unità di difesa territoriale. È stato quindi lanciato un appello ai libertari e agli antifascisti europei per chiedere aiuto.
Questi militanti insistono sulla necessità di non rimanere ciechi di fronte alla resistenza ucraina, focalizzandosi solo sul battaglione Azov. Le milizie Wagner, inl campo russo, sono della stessa pasta. In particolare, sottolineano soprattutto il fatto che nelle unità di difesa territoriale si trovano anche attivisti di sinistra. Nella città di Kryvyi Rih, per esempio, i sindacalisti hanno inviato molti dei loro membri a combattere nelle unità della regione.

Qual è la posizione dell’NPA sulla guerra che si svolge in Ucraina dal 2014?

La nostra regola di base può sembrare elementare: siamo dalla parte degli oppressi, mai da quella degli oppressori. La mia speranza, per superare pregiudizi e preconcetti, consiste nel credere che, avviando un dialogo diretto con le militanti femministe o i sindacalisti in Ucraina, dei nuovi settori della sinistra sociale e politica francese arrivino a capire che esiste anche la sinistra ucraina. Da ferrovieri a ferrovieri, da infermiere a infermiere, da lavoratori dell’energia a lavoratori dell’energia, da accademici a accademici, si stanno già creando solidarietà concrete. Come NPA crediamo che il nostro ruolo sia quello di agire in solidarietà con i popoli che lottano per la loro emancipazione e la loro libertà, indipendentemente dallo statuto del loro oppressore.
L’imperialismo non è un anglicismo, non è riservato alla politica nordamericana sul continente latinoamericano. L’imperialismo francese esiste, quello russo pure. È una realtà realmente esistente, che risponde a obiettivi economici e che rinvia alla storia. Questo imperialismo russo si riallaccia alle tendenze espansionistiche zariste, che i bolscevichi avevano interrotto dopo il 1917 dichiarandosi a favore del diritto all’autodeterminazione, prima della contro-rivoluzione staliniana. Putin non ha d’altronde dimenticato di opporre Stalin a Lenin al momento della sua dichiarazione di guerra.

Cosa può insegnare questa guerra alla sinistra europea?

Non ho la pretesa di avere qualcosa da insegnare sull’argomento o di dare lezioni. Credo semplicemente che questa guerra sia una delle principali poste in gioco nella rifondazione della sinistra radicale europea. Il conflitto in Ucraina segna la fine di un ciclo, quello della “globalizzazione felice” dei capitalisti. La competizione tra i blocchi si è riaffermata negli ultimi anni e la Russia di Putin spera di trovare nuovi sbocchi al di fuori dei propri confini. Rosa Luxemburg spiegava d’altronde che le guerre sono spesso la continuazione sul terreno militare di una competizione che fino a quel momento si era svolta solo sul terreno economico. Questa competizione si sta giocando anche in Ucraina e l’esito di questa guerra avrà quindi un impatto sulle forze sociali e politiche di tutto il mondo. La situazione non sarà la stessa se l’imperialismo vince o se perde.

Qual è la sua opinione sulla posizione de La France Insoumise (FI formazione diretta da Mélancon NdT)) rispetto a questo conflitto e questo conflitto ha influito sui disaccordi durante le discussioni con l’NPA in occasione delle elezioni legislative?

Non Posso parlare a nome de La France Insoumise e non intendo distribuire consigli. Quello che so è che abbiamo bisogno di un movimento collettivo, il più ampio e il più unitario possibile, per realizzare azioni di solidarietà effettive con questa sinistra ucraina. Questo deve andare al di là delle differenze di parte.
Oggi, una forma di paralisi politica attanaglia la sinistra francese: se sei a favore del ritiro delle truppe russe, sei necessariamente un agente della CIA; e, viceversa, se denunci la Nato come parte del problema, sei visto come un agente dell’FSB (acronimo dei servizi segreti russi NdT). Abbiamo bisogno di riconnetterci con la complessità, di capire che qualcosa sta succedendo laggiù e che questa guerra non è un argomento vergognoso che si attacca a noi come un pezzo di cerotto indesiderato.

Qual è la sua posizione sulle forniture di armi all’Ucraina e sulle sanzioni economiche contro la Russia? Queste ultime potrebbero portare a un’inflazione elevata nei paesi occidentali e, a termine, colpire le popolazioni più fragili dal punto di vista economico…

Troviamo comprensibile che gli Ucraini chiedano armi, soprattutto armi difensive che permettano loro di controllare i cieli. Coloro con i quali abbiamo parlato in loco ripetono che non intendono che forze diverse dalle loro si sostituiscano alla resistenza ucraina.
Per quanto riguarda le sanzioni economiche, ci stiamo battendo per sanzionare gli oligarchi, ma siamo ancora lontani dall’obiettivo. In Gran Bretagna, a Cipro, è stato fatto solo un centesimo di quello che si potrebbe fare.
I militanti ecologisti ucraini spiegano anche che è urgente trarre tutte le conseguenze, sia della nostra dipendenza dai combustibili fossili, dal gas, ma anche dai pericoli del nucleare. Immaginate se le centrali nucleari fossero state colpite durante i combattimenti? La guerra in Ucraina solleva ancora una volta la questione della transizione energetica. I sindacalisti ucraini sono orgogliosi del loro sistema industriale, di produrre dell’energia, ma questi ultimi, nell’ambito del Movimento Sociale, non hanno alcun problema a discutere con i militanti ecologisti.

Gli ucraini spiegano oggi che vogliono combattere fino alla vittoria. Alcuni diplomatici europei, invece, vogliono porre fine al conflitto trovando una via d’uscita per la Russia. Come fare la pace e a quale prezzo?

La decisione spetta alle Ucraine e agli Ucraini, non a noi. Dobbiamo abbandonare qualsiasi atteggiamento paternalistico nei loro confronti. La questione di una pace duratura riguarda tutti, ovviamente, ma implica la necessità di solidarizzare con i popoli che sono le prime vittime della politica di Putin, il popolo ucraino e anche il popolo russo. E il tempo stringe. In realtà, gli Ucraini che ho visto non hanno la stessa posizione dell’inizio della guerra. Le possibilità di un cessate il fuoco o di un accordo diventano sempre più remote con il passare delle settimane e il moltiplicarsi dei crimini…
Il diritto all’autodeterminazione non consisterà probabilmente solo nell’organizzare un referendum o nell’imporre una soluzione militare. Un vero processo democratico deve permettere a tutte le Ucraine e a tutti gli Ucraini, a Est come a Ovest, di riconoscersi nella soluzione trovata. Ciò necessità che li lasciamo decidere liberamente dell’Ucraina che verrà, una volta ottenuto il ritiro delle truppe russe. Senza trovarsi schiacciati tra l’imperialismo russo, che ha attaccato questo Paese, e gli interessi degli Occidentali. Senza che venga loro puntata una pistola alla tempia. Senza che il mondo intero, che fa i propri interessi, si presenti al tavolo per dire loro cosa fare.

Si sente in Ucraina una volontà di “di buttare all’aria il tavolo”, di organizzare un “reset” del sistema politico del Paese. La società si è organizzata per difendersi e la gente spiega che, dopo la guerra, dovrà liberarsi dall’influenza degli oligarchi. La gente vuole prendere in mano il proprio destino…

Il reset è un’espressione che ho effettivamente sentito. Molti vogliono sbarazzarsi degli oligarchi, una volta per tutte, e porre fine alla corruzione. La questione della cancellazione del debito imposto all’Ucraina è un punto chiave da questo punto di vista. L’idea dei membri del Movimento Sociale consiste nel fare emergere immediatamente tutte queste poste in gioco di società, senza indugiare. Questa vitalità democratica persiste anche in tempo di guerra
Da loro, non troviamo, da un lato, i soldati che vanno al fronte e, dall’altro, i militanti che alimentano le discussioni democratiche; in realtà, questi due mondi sono intimamente legati. Alcune unità di difesa territoriale hanno persino realizzato delle forme, molto parziali, di auto-organizzazione.

Svezia e Finlandia chiederanno certamente l’adesione alla NATO. Siamo costretti a scegliere tra Russia e NATO o possiamo criticare entrambe le parti?

Critichiamo la Russia e naturalmente la NATO, la quale non solo non è scomparsa dopo la fine del Patto di Varsavia nel 1991, ma ha continuato a svilupparsi, e non per la difesa dell’umanità… La NATO sarà sempre parte del problema e non della soluzione.

Cosa pensa dell’azione dell’Unione Europea (UE) nella guerra in Ucraina?

È assolutamente rivoltante permettere che i rifugiati vengano smistati in base al loro Paese d’origine alle frontiere dell’UE. All’inizio della guerra, il primo ministro Jean Castex ha spiegato che la Francia poteva accogliere 100’000 Ucraine e Ucraini, e tanto meglio. Quante volte ci è stato ripetuto che il principio della libertà di circolazione e di stabilimento che stavamo difendendo era certamente onorevole ma perfettamente inapplicabile. Per anni ho sentito dire: “Ci piacerebbe, ma è impossibile”.
Oggi abbiamo la triste prova che quando l’accoglienza dei rifugiati non ha funzionato per gli afghani, i curdi o i siriani, ad esempio, non è stato perché le autorità non potevano, ma perché non volevano farlo.
Per costruire un’altra Europa, dei lavoratori e dei popoli, che rompa con i trattati liberali, dobbiamo partire da cose terribilmente concrete. I nostri compagni in Ucraina chiedono molte cose e molti dibattiti. Vogliono conoscere i dettagli di ciò che ha significato l’integrazione europea, in termini di diritti sociali e democratici, per i Paesi dell’Europa dell’Est che hanno aderito all’UE. In effetti, anche tra coloro che sostengono l’adesione all’UE, molti non si fanno illusioni sul fatto che un rapporto di forza collettivo sarà comunque necessario per raggiungere orizzonti emancipatori condivisi da tutte e da tutti.

*intervista apparsa su Mediapart l’11 maggio 2022. Traduzione curata dal segretariato MPS