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Dopo tre mesi di importanti successi, la resistenza ucraina sta attraversando un momento delicato. Le forze russe avanzano nel Donbass con una dirompente forza distruttrice, ma a ritmo lento. Le richieste di “fare parlare la diplomazia”, avanzate in modo particolare in Italia, appaiono ridicole, visto che la diplomazia è stata incessantemente attiva fin da prima della guerra e si è sempre scontrata con il muro del Cremlino. Intanto Putin sta lavorando a un mondo di guerra generalizzata, basandosi su una micidiale arma composta da tre elementi: ricatto energetico, minaccia di un uso del nucleare a fini offensivi, conquista di un monopolio di fatto in fondamentali settori della produzione agricola per tenere in scacco il mondo.

A tre mesi dal suo inizio la guerra scatenata dal Cremlino contro l’Ucraina sembra essere giunta a uno snodo critico. Per più di due mesi in primo piano vi è stata soprattutto la grande inefficienza delle forze armate russe, che ha avuto il suo culmine simbolico nel clamoroso affondamento dell’incrociatore Moskva il 14 aprile. Prima c’era stata la secca sconfitta del tentativo di Mosca di impossessarsi di Kyiv e di altri importanti centri urbani con un attacco su più fronti, e del progetto di decapitare la dirigenza ucraina demoralizzando l’intero paese. La reazione del popolo ucraino, delle sue forze armate e del suo presidente è stata a ogni livello più che gagliarda, bene organizzata, e dopo avere mandato a monte la guerra lampo in cui sperava Putin ha potuto fare conto su importanti armamenti, soprattutto leggeri, forniti dagli Usa e dai paesi Ue. Le forze russe hanno dovuto ritirarsi prima della fine marzo verso il territorio bielorusso e del proprio stesso paese. Ma nel sud, nella regione di Kherson e Zaporizhzhya, avevano conquistato con facilità vasti territori, mentre nella regione di Lugansk, sebbene in misura molto più limitata, erano avanzate in modo sensibile. La riorganizzazione delle truppe russe in vista del nuovo obiettivo dichiarato del Donbass, ed eventualmente di tutte le altre regioni meridionali che si affacciano sul Mar Nero, è stata lenta, con una prima tappa raggiunta tra la metà e la fine di aprile, e una seconda solo da un paio di settimane. Gli ucraini hanno continuato a difendersi bene anche su questi fronti, dove le forze di Mosca hanno continuato a mostrare i propri grandi limiti organizzativi e tattici. Inizialmente le truppe russe hanno attaccato su più fronti del Donbass, in particolare da nord, est e sud. Ma gli avanzamenti sul terreno della regione sono stati estremamente limitati, e a sud praticamente nulli. I combattenti ucraini dell’Azovstal hanno tenuto incredibilmente impegnate per oltre due mesi le soverchianti forze russe a Mariupol, impedendo un loro dispiegamento altrove. Più a ovest, i tentativi russi di sfondare in direzione di Odessa e di Zaporizhzhya si sono mostrati vani.

Questo è il riassunto più che sommario dei primi due mesi e mezzo di guerra, ma ci sono segni che ora le cose stiano probabilmente cambiando. In un primo tempo, il fatto che le forze russe verso la fine della prima settimana di maggio avessero ridotto il proprio campo di azione effettiva all’area intorno a Severodonetsk, nella regione di Lugansk, è stato interpretato dai più “in automatico”: Putin è costretto a limitare ancora una volta i suoi obiettivi. Non è esattamente così, purtroppo. Cerco di riassumere in breve una situazione che è comunque alquanto articolata e ancora in evoluzione. Con la concentrazione dello sforzo bellico sul Donbass ora le forze armate dell’aggressore possono contare su un retroterra logistico molto più vicino, incentrato sulla città di Rostov sul Don, a sud e, soprattutto, su Belgorod a nord, entrambe in sicuro territorio russo (un po’ meno sicuro nel caso di Belgorod, molto vicina al confine in corrispondenza di Kharkiv). Ciò, insieme al disimpegno e alla ridislocazione delle forze precedentemente impegnate a Mariupol, consente loro di concentrare un’enorme potenza di fuoco sui propri obiettivi. La scelta di ridurre (per ora, come vedremo) il grosso dell’attacco alla zona di Severdonetsk non è un segnale di sconfitta, bensì una decisione del tutto razionale. Conquistando la città ormai completamente assediata le forze russe accorcerebbero il fronte e potrebbero poi più facilmente procedere a conquistare l’intero Donbass “a fette”, mettendo progressivamente fuori uso importanti contingenti ucraini (a Severodonetsk ci sarebbero circa 15.000 soldati ucraini tra quelli più preparati, qualcuno arriva addirittura a dire 20.000) per concentrarsi poi su una catena di singoli obiettivi fino alla eventuale conquista delle roccaforti di Kramatorsk e Slavyansk. Se tutto andrà loro bene, e non è affatto detto, lo sottolineo, le forze armate di Putin potrebbero arrivare a un controllo completo del Donbass, nonché della maggior parte delle contigue regioni di Zaporizhzhya e Kherson, già prima della fine dell’estate. Se a livello di uomini e tecnica di base la prevalenza russa è solo limitata, e praticamente annullata dalla minore motivazione dei soldati russi e separatisti rispetto a quelli ucraini, quella in termini di artiglieria e munizioni è molto grande. Inoltre Mosca in questa regione, a differenza che in quella di Kyiv, può contare su una pressoché assoluta libertà di azione aerea: non a caso uno dei fattori principali dell’attuale avanzata sono i raid aerei, oltre 100 al giorno in quest’ultimo paio di settimane. Si tratta di grandi handicap per la difesa ucraina, che tra l’altro in Donbass ha linee di rifornimento molto più lunghe di quelle che aveva a marzo a nord. Il fatto che la nuova tattica dei comandi russi stia portando apparentemente a degli importanti successi, tutti ancora però ancora da realizzare appieno, non vuol dire che le forze di Mosca abbiano fatto grandi progressi nella gestione del conflitto. Gli ampi materiali informativi disponibili dicono univocamente che stanno subendo forti perdite in termini sia di uomini sia di mezzi (carri armati, blindati da trasporto ecc.). Il problema è che ora questo vale anche per le forze ucraine, a differenza che a marzo-aprile. Inoltre, le retrovie ubicate in prossimità in Russia consentono più rapide sostituzioni dei mezzi e degli uomini persi. Resta comunque il punto di domanda del periodo di tempo per il quale Mosca potrà andare avanti con un tale dispendio di forze. Inoltre, se le forze di Kyiv dovessero trovarsi in grado di sferrare un attacco in qualche misura efficace nell’area di Kherson, come alcune voci ipotizzano, l’esercito russo sarebbe costretto a spostare truppe dal Donbass perdendo forza su quest’ultimo fronte.

Per concludere il quadro va menzionata anche la situazione nella regione di Kharkiv. Qui le truppe ucraine sono avanzate di molto su tutto l’arco a nord-est, est e sud-est della città, anche grazie al fatto che le forze armate russe hanno spostato le loro migliori risorse presenti in questa regione sul fronte del Donbass, lasciandovi principalmente truppe separatiste mal addestrate e mal armate. Il primo successo conseguito è stato quello di liberare Kharkiv, la seconda città del paese, dagli ininterrotti bombardamenti a cui era sottoposta. Il secondo è che a est ora le truppe ucraine si sono molto avvicinate alla linea stradale lungo la quale nel arrivano nel Donbass i rifornimenti militari russi da Belgorod – se dovessero riuscire a interromperla per l’esercito russo sarebbe un disastro. Le forze di Mosca ora hanno rafforzato il fronte di difesa per impedire la marcia ucraina verso tale linea, e per il momento sono riusciti a fermarla. Quando gli ucraini riceveranno dagli Usa e da altri paesi pezzi di artiglieria di ultima generazione, capaci di colpire con precisione a 40 km. di distanza (quelli russi arrivano al massimo a 25 km.), potrebbero riuscire a interrompere tale linea di rifornimento, o comunque a sconvolgerla, nonché più in generale a causare grandi danni alle truppe russe su tutto il fronte del sud-est. Affinché però le armi vengano messe a disposizione, i militari ucraini vengano addestrati al loro uso e le armi stesse giungano al fronte, ci vorrà almeno un mese, e nel frattempo può succedere di tutto. In linea generale le armi ricevute finora da Kyiv si dimostrano inadeguate per il nuovo tipo di guerra nel Donbass. Evitano forse una disfatta, ma non consentono una stabile tenuta delle posizioni. Infine, un’ultima nota generale. A quanto sopra descritto va aggiunto che, come è noto, nelle guerre di terra del tipo di quella in atto in Ucraina è più facile difendere il territorio sotto il proprio controllo che avanzare per (ri)conquistare quello sotto il controllo del nemico. Se dovessero perdere tutto il Donbass, che andrebbe così ad aggiungersi alle altre regioni del sud già occupate, le forze di Kyiv, anche con il possesso di armi più potenti, si troverebbero di fronte a un compito di riconquista molto più impegnativo di quello di difesa o al massimo di contrattacco locale svolto finora.

L’aspetto delle forniture occidentali di armamenti va messo nel contesto più ampio dello stress a cui è sottoposta la macchina dei rifornimenti militari occidentali. L’industria e la logistica militare dell’Ue e, soprattutto, visto il loro ruolo centrale, degli Usa è già pesantemente sotto stress. Negli anni passati non era stato messo in conto un conflitto come quello in corso, che implica un grande dispendio di mezzi, soprattutto di munizioni e missili leggeri o a breve gittata. Le scorte di molti armamenti sono prossime all’esaurimento e l’industria non è pronta alla loro sostituzione. I missili e certe armi più sofisticate non possono essere prodotti in breve tempo con uno schiocco delle dita, per molti di loro ci voglio tanti mesi, o addirittura anni, per ricostituire un livello sufficiente di disponibilità. Gli Usa hanno dovuto per esempio nelle ultime settimane sospendere le forniture di importanti armamenti a Taiwan, e in generale tutta la loro logistica militare in un’area di primaria importanza come l’Asia Orientale è fortemente sotto stress. Se scoppiasse un conflitto ampio in una qualsiasi parte del mondo si troverebbero in enormi difficoltà. Lo stesso vale solo in parte per la Russia, che ha accumulato negli anni un’enorme quantità di munizioni, ennesimo segno del fatto che si preparava da lungo tempo a una guerra di questo tipo contro l’Ucraina. Solo che a causa delle proprie inefficienze le sta sprecando in grandi quantità. Le centinaia di missili di precisione di cui disponeva si sono ridotte nel solo primo mese di guerra a un livello minimo oltre il quale non può più scendere, come dimostra anche il fatto che i suoi tiri sono sempre più inesatti. Per ricostituire una tale disponibilità avrà bisogno di un bel po’ di anni di tempo. In generale la qualità del suo arsenale, dei suoi aerei, delle sue navi andrà sempre più degradandosi perché a causa delle sanzioni non è più in grado di acquistare i necessari semiconduttori sofisticati e altri materiali indispensabili.

Ho messo per il momento volutamente tra parentesi, in questa panoramica, la situazione in termini di controllo russo del Mar Nero, perché è strettamente collegata all’importante tema del “ricatto agricolo” che tratto specificamente più sotto.

Il fronte interno russo, il “cortile di casa” di Mosca, la Cina

Nel titolo di questa minisezione parlo solo del fronte interno russo perché su quello ucraino c’è pochissimo da dire: è ancora compatto, a livello sia di dirigenza sia di popolazione. Nel momento in cui scrivo si è evidenziato un attrito tra l’attuale presidente Zelensky e l’ex presidente Poroshenko, in seguito alla pubblicazione da parte del governo di Kyiv di dichiarazioni dell’ex oligarca filorusso Medvedchuk su presunti nessi tra Poroshenko e Mosca. Ma appare più che altro un evento episodico, tanto più che la parola di Medvedchuk vale zero sotto tutti i punti di vista.

Sul fronte interno Putin appare a prima vista godere di una totale sicurezza. Niente manifestazioni contro la guerra, cori a favore dell’aggressione contro l’Ucraina, dirigenza compatta, economia stabile. Il padrone del Cremlino si mostra spavaldo e dice di non avere problemi a portare avanti questa guerra anche a lungo. In realtà a uno sguardo più attento le cose non sono affatto così semplici, anzi, sono estremamente complicate per Putin. La situazione più opaca è quella nelle alte sfere della macchina statale, dove se sicuramente non esiste una fazione organizzata anti-Putin vi sono chiaramente malumori. Oligarchi che prendono le distanze, altri vittime di strani omicidi-suicidi, un alto diplomatico all’Onu che si dimette con parole durissime, scioperi, sabotaggi, segnali di rivolta nei media ferreamente controllati dall’alto, una serie di grandi attentati incendiari contro obiettivi del complesso militare-industriale (l’ultimo pochi giorni fa) e contro altri obiettivi, ex alti gradi dell’esercito che criticano duramente la conduzione della guerra, arresti o rimozioni misteriose di alti gradi dell’intelligence. E anche negli ambienti dell’estrema destra contigua a Putin c’è un’esplicita forte insoddisfazione per quella che viene da essi considerata una guerra troppo “timida”. I segni di potenziali aperte crepe sono davvero moltissimi, sebbene ancora allo stadio embrionico. Riguardo all’opposizione popolare alla guerra, sebbene al momento non sia una minaccia diretta per Putin, ha tutte le coordinate per diventarlo: quello esistente ora è un attivismo “polifonico” molto coraggioso e lucido, che mette radici un po’ in tutte le sfere della vita del paese, dalle donne agli studenti, dai lavoratori ai media, dalle minoranze nazionali ai giovani sabotatori. Su questo, rimando alla recente rassegna pubblicata in Crisi Globale, “L’opposizione alla guerra in Russia e nei territori ucraini occupati”.

Altrettanto complessa e rischiosa è per Putin la situazione economica. Molte valutazioni fatte in un primo momento di fronte alle sanzioni senza precedenti varate dall’occidente si sono rivelate sbagliate sul breve termine. Tra quelle errate c’è anche la mia, in realtà diffusa anche tra tanti esperti, secondo cui il blocco di circa la metà delle riserve russe (cioè di 300 miliardi di dollari) che Mosca tiene all’estero avrebbe causato un grave e immediato colpo alla sua economia, così come al rublo che Mosca non sarebbe più stata in grado di sostenere in tali condizioni. Non è andata così. La mossa di costringere tutte le aziende che incassano valuta estera a cambiarla immediatamente in misura dell’80% in rubli ha portato seduta stante il rublo a quotazioni addirittura più alte di quelle di prima dell’inizio della guerra. In realtà non si tratta affatto di una mossa vincente, se non a livello propagandistico e sul breve termine. Con i rubli che si ritrovano in mano le aziende non possono acquistare praticamente nulla all’estero, vista la circolazione internazionale pressoché inesistente della moneta russa. Se un giorno Mosca dovesse consentire alle aziende di riconvertire in valuta parte delle loro entrate convertite in rubli, la moneta nazionale tracollerebbe immediatamente. Inoltre, anche con un’improbabile (semi)libera disponibilità di valuta, viste le sanzioni a tutto campo la Russia potrebbe comprare ben poco: niente chip per i propri missili, niente pezzi per le proprie auto, niente medicinali specialistici e così via in un’infinita serie. Certo, esistono anche canali clandestini, come insegnano i casi dell’Iran e della Corea del Nord, ma hanno costi altissimi, possono essere utilizzati solo per una piccola parte del fabbisogno, sono precari e implicano tortuosi e lenti percorsi di approvvigionamento. La Cina, che ha problemi economico-sociali enormi e non da ieri, si guarda bene dall’esporsi più di tanto con aiuti alla Russia: ha fatto incetta di petrolio russo, a quanto pare, ma a prezzi notevolmente ribassati, sta dando una mano per l’eventuale futuro dello stabilimento Renault temporaneamente nazionalizzato da Mosca, ma niente di più. Si sta altrimenti guardando bene dall’esporsi finanziariamente nei rapporti con la Russia – per esempio, la sua grande società di carte di credito UnionPay avrebbe potuto facilmente approfittare a marzo-aprile del vuoto completo lasciato dalle varie Visa, MasterCard ecc. per conquistare un monopolio in Russia, ma ha categoricamente rifiutato di farlo per il timore di diventare vittima delle sanzioni occidentali. E a parte il singolo caso Renault, Pechino sta sistematicamente evitando di approfittare dei buchi lasciati vuoti dalle aziende occidentali del settore industriale o dei servizi che abbandonano la Russia per penetrare economicamente nel paese. Né vi è segno di alcuna fornitura militare cinese alla Russia. D’altronde, anche se la Cina volesse dare sostegno a Mosca, potrebbe farlo solo in misura limitata visti i problemi interni che la assillano e i suoi punti deboli in molti campi, per esempio in quello tecnologico. In pratica, se le sanzioni proseguono, la Russia è messa molto, molto male sul medio termine. E già oggi l’inflazione, per citare solo uno dei tanti indicatori importanti che la popolazione sente direttamente sulla propria pelle, oscilla tra più del 15% e poco meno del 20%.

Alcune brevi considerazioni vanno fatte anche su quello che la Russia considera il suo “cortile di casa”. Mosca ovviamente ha perso ogni credibilità (per usare un frettoloso eufemismo!) in Ucraina, e questo come minimo per i decenni a venire. A seconda degli esiti della guerra, o distruggerà (quasi) completamente il paese, o se lo troverà ai confini riarmato e completamente schierato con l’Occidente. Se lo dividerà, avrà per sé le zone del sud e sud-est ridotte a un semideserto, utile al massimo come campo agricolo da colonizzare e/o come resort nelle aree lungo la costa (è la proposta del capo-aguzzino della Repubblica Popolare di Donetsk, Denis Pushilin, per Mariupol distrutta). Anche la Bielorussia, fino a poco fa “feudo” sicuro, è ormai lontana mille miglia da Putin in termini di masse di popolazione (Lukashenko è fedele, ma l’esperienza dice che proverà a sgattaiolare via alla prima occasione): il livello di solidarietà attiva mostrato nei confronti dei fratelli ucraini dai bielorussi, reduci da una recente rivolta, è stato eccezionale e una delle poche cose belle di questa tragica guerra. Sono molto evidenti i malumori, sia a livello popolare che a livello di dirigenza, in Kazakistan, dove i sentimenti di solidarietà con l’Ucraina e il timore di diventare la prossima vittima di Mosca (i canali della propaganda statale mediatica del Cremlino hanno formulato precise minacce in tal senso) stanno portando a proteste e ad altre forme di prese di distanza dalla guerra, non solo a livello popolare, ma anche da parte di un governo che solo qualche mese fa è stato salvato dalle truppe russe. E quelli elencati sono solo i tre principali paesi del “cortile di casa” di Mosca. Malumori malcelati si registrano anche in Uzbekistan e Kirghizistan, nonché a un livello minore in Armenia. Almeno nei casi di Bielorussia e Kazakistan, non si vede come Mosca, che tra l’altro andrà indebolendosi ancor più in termini economici con il passare dei mesi, possa riportarli a una sottomissione se non con l’uso della forza. India e Cina sono sponde di appoggio alquanto deboli, perché la prima economicamente conta poco, e tra l’altro è reticente, mentre la seconda è presa da troppi enormi problemi interni, che vanno da quelli politici immediati come la rielezione di Xi Jinping a ottobre e del suo successivo consolidamento, a quelli economici come il crollo verticale del settore immobiliare colonna portante dell’economia (gli ultimi dati sono disastrosi) o l’assenza di un livello di consumi interni sufficiente per sostenere il paese in sostituzione delle esportazioni in un mondo dalle tendenze sempre più protezioniste. In realtà alla Cina in questa fase converrebbe molto di più prendere tempo mediante una riconciliazione almeno parziale con gli Usa per ribilanciare la propria economia ed evitare una diserzione degli investitori esteri, e di sicuro ai suoi vertici c’è chi pensa a quest’opzione, ma oltre al fatto che Xi non può astrarre da un’impostazione politica opposta che è da tempo il suo brand, pesa probabilmente la sfiducia nei confronti di una Washington dove potrebbe presto tornare al potere Trump.

“Bisogna far parlare la diplomazia”: perché è uno slogan senza senso

Finora i paesi occidentali risultano compatti nel mantenere la politica delle sanzioni contro la Russia e dei rifornimenti di armi all’Ucraina, fatta eccezione per l’ungherese Viktor Orban. Tuttavia si sono evidenziati nelle ultime settimane alcuni segnali di insofferenza o cedimento di diverso tipo. Per esempio, le “rivelazioni” pubblicate alcune settimane fa dal New York Times sul presunto ruolo degli Usa nell’aiutare Kyiv a colpire alti ufficiali russi, che hanno messo in forte imbarazzo la Casa Bianca e la hanno costretta a impegnarsi a non fornire a Kyiv questo tipo di intelligence, erano un chiaro segnale di malumori all’interno delle alte sfere del paese, di cui il quotidiano è spesso il canale. E non a caso sono state seguite a breve giro da un editoriale della stessa testata sulla non realisticità della vittoria ucraina, con tutte le altre implicite considerazioni del caso, nonché a ruota da dichiarazioni di Henry Kissinger ancora più esplicite, che andavano tutte nello stesso senso: scendere a patti con Putin, l’Ucraina deve sacrificare suoi territori. In Italia queste voci sono state molto più esplicite e insistenti, a livello sia di forze parlamentari sia di esponenti della galassia pacifista o di accademici e così via. Il ritornello è sempre lo stesso, “bisogna fare parlare la diplomazia”, coniugato in tutte le forme possibili. Trovo queste posizioni francamente ridicole, sia perché la via diplomatica è stata e viene ancora costantemente cercata, sia perché sono posizioni che si limitano a una vuota retorica senza scendere nei dettagli. Mi spiego meglio qui di seguito.

Questa guerra è stata probabilmente tra le guerre degli ultimi decenni una di quelle che hanno visto più tentativi di percorrere la via diplomatica. Tanti sono stati questi tentativi che per descriverli ci vorrebbe un intero articolo a parte. Mi limito ai seguenti esempi salienti. Prima della guerra c’è stata un’intensa attività diplomatica fin dal dicembre 2021 da parte sia degli Usa che dell’Ue, e questo fin all’ultimo secondo, con la disponibilità ad ampie discussioni. Per esempio, il 17 febbraio, esattamente una settimana prima dell’inizio della guerra, il segretario di stato Usa, Antony Blinken, e il ministro degli esteri russo, Sergey Lavrov, si erano dati appuntamento per incontrarsi la settimana successiva, ma l’incontro non si è mai svolto per il semplice motivo che la Russia ha invaso l’Ucraina. Fin dai primissimi giorni di guerra ci sono stati contatti diplomatici di ogni tipo, proseguiti per settimane. Zelensky si è detto subito disponibile a prevedere una neutralità dell’Ucraina, poi più avanti anche a discutere con Mosca soluzioni per la Crimea e il Donbass. Delegazioni di Russia e Ucraina si sono incontrate svariate volte per una discussione a tutto campo. Scholz e Macron si sono prodigati in contatti e telefonate con Mosca, il secondo con un’insistenza tale da diventare per questo oggetto di barzellette. Turchia e Israele si sono attivati con impegno nel fare da mediatori. Il segretario dell’Onu Gutierres ha visitato in successione Mosca e Kyiv per vedere se era possibile aprire un canale. Perfino il Papa si è messo in posizione negoziale stendendo un tappetto rosso verso Mosca. C’è stata a maggio anche una telefonata tra i responsabili della difesa di Washington e Mosca per sondare il terreno. E alla fine è arrivato perfino Di Maio con il suo piano di pace. La diplomazia ha parlato tantissimo. Solo che è stata quella occidentale e di Kyiv a farlo in modo continuativo. La Russia si è seduta per un po’ al tavolo con Kyiv solo nel momento in cui, fallito il suo tentativo di conquistare la capitale ucraina, aveva bisogno di prendere tempo. Altrimenti Mosca ha sempre sbattuto la porta in faccia a ogni possibilità di discussione. Nel caso di Guiterres, ha mandato un messaggio chiarissimo in tal senso: ha lanciato un missile a poca distanza dal suo albergo appena era arrivato a Kyiv dopo essere stato a Mosca. E il piano di Di Maio è stato rifiutato da Dmitriy Medvedev, vicecapo del consiglio di sicurezza russo, con parole sprezzanti.

A parte questo, è facile dire genericamente “facciamo parlare la diplomazia” senza scendere nei dettagli. La diplomazia spesso è una trappola, molto spesso è un modo per prendere fiato e rilanciare la guerra, magari ampliandola. Nel concreto, la guerra in corso è una guerra apertamente di aggressione, con la quale la Russia mira a distruggere, e lo sta già ampiamente facendo, l’Ucraina e il suo popolo come entità capaci di vita autonoma, non un conflitto originato da divergenze di qualsivoglia tipo tra due generici contendenti. Non solo, è anche una guerra che dura di fatto da almeno il 2014, quando vi è stata l’annessione della Crimea e la separazione per mano militare del Donbass mirata a una sua futura annessione con un ripetuto uso della forza. Quando nel piano di Di Maio, per fare un esempio di cosa comporti anche la diplomazia un po’ meno generica come la sua, si prevede per esempio un’autonomia per il Donbass con la preservazione di forze di sicurezza o militari e simili, e un’analoga autonomia per la Crimea, ci troviamo nuovamente di fronte a belle parole che però fanno a pugni con un’orrenda realtà. I separatisti che comandano il Donbass dal 2014 si sono imposti con la violenza, autoproclamandosi abusivamente rappresentanti di quella che, oltretutto, era una minoranza degli abitanti, i russi. Hanno saccheggiato il paese e ucciso o torturato migliaia di persone, causando la fuga dalla regione di quasi metà della sua popolazione. Ora il Donbass è in gran parte raso al suolo. Nessuna “diplomazia” è possibile senza la condizione preliminare a chiarissime lettere dell’incarcerazione dell’intera attuale dirigenza separatista e di tutti i manovali sotto il loro diretto comando, nonché senza il pagamento di decine e decine di miliardi di euro di danni causati. Senza chiare garanzie in tal senso, nessun profugo mai ritornerà e la guerra russa contro il Donbass verrà così legittimata. Qualsiasi soluzione diplomatica che consenta alla Russia, o ai suoi luogotenenti “separatisti”, di mantenere un piede in Ucraina vuol dire aprire le porte a una futura nuova guerra di conquista e distruzione da parte della Russia. Per quanto riguarda la Crimea, che è un caso diverso dal Donbass non perché la Russia se la è annessa direttamente, ma perché i russi vi sono maggioranza, sebbene di poco, è ovvio che dopo quello che è successo in questi mesi in cui è stata una portaerei per le stragi e le distruzioni di Putin, ogni eventuale proposta diplomatica deve avere come base irrinunciabile la sua smilitarizzazione, il ritiro di ogni forza di Mosca e lo smantellamento totale della base di Sebastopoli, oltre ovviamente all’incarcerazione dei leader mai eletti da nessuno e responsabili di un regime criminale come Aksenov, insediato da Mosca. Inoltre, sappiamo tutti benissimo che una regione autonoma, per essere tale, deve avere poteri di veto in ambito nazionale: ogni soluzione di autonomia senza le summenzionate basi minime, consegnerebbe con tale potere di veto a Mosca un potere di controllo sulla vita politica ucraina. Ma sono ragionamenti anche questi alla fine inutili. Perché Mosca ha dimostrato con i fatti di non essere interessata ad alcuna pace. Rifiuta sistematicamente le trattative e, se ci si basa non sulla fantasia ma su quanto sta avvenendo concretamente sul terreno, mira a distruggere tutto il sud-est dell’Ucraina per poi annetterselo insieme al sud già per metà sotto il suo controllo. Arrivato a quel punto, Putin sceglierà se andare oltre, oppure fermarsi, aprire trattative, riprendere fiato e poi proseguire ulteriormente, in Ucraina e/o altrove, probabilmente con effetti a catena ancora più ampi. Gli sviluppi militari e politici in corso non consentono altra interpretazione che abbia basi coerenti. L’unica speranza di pace può essere data da una piena vittoria della resistenza armata ucraina che comporti un indebolimento sostanziale del regime di Putin e possibilmente una sua caduta, sull’onda delle ampie forme di resistenza evidenziatesi nella stessa Russia e intorno a essa.

È del tutto illusorio pensare di tornare al mondo di prima, apparentemente più tranquillo, ma che alla fine è il mondo che ci ha portato proprio a questa guerra. Inoltre, come vado a esporre ora, Putin e il suo regime si stanno chiaramente posizionando per un mondo fatto di guerra generalizzata, terrore atomico e carestie che faranno morire centinaia di migliaia di persone.

La Russia mira a un futuro di guerra generalizzata

Con il passare dei mesi la Russia ha costantemente incattivito le proprie posizioni a ogni livello. La guerra di artiglieria che sta provocando distruzioni devastanti ne è una delle dimostrazioni, ma non la sola.

Andiamo per punti. Putin e i suoi hanno avanzato un intero caleidoscopio di giustificazioni per la loro guerra, fino al punto da rendere inintelligibili gli intenti ufficiali. Ma con i loro atti pratici stanno dimostrando chiaramente quello a cui mirano. Innanzitutto, come ho già accennato, puntano a distruggere l’Ucraina, la sua economia, le sue infrastrutture e la sua popolazione in misura tale da renderla incapace per decenni di un’esistenza autonoma. In soli tre mesi, la guerra di Putin ha ridotto circa 15 milioni di persone alla condizione di profugo, all’estero o nel paese: si tratta di più di un terzo della popolazione dell’Ucraina. Le distruzioni causate sono già ora tali da fare sì che gran parte di queste persone o non avrà dove tornare, o se anche potrà farlo, non avrà di cosa mantenersi. La situazione più acuta è nel Donbass, circa 6,5 milioni di abitanti, ma riguarda molte alte aree del paese e le distruzioni causate dalla macchina bellica di Mosca sono ancora ben lontane dall’essere al loro termine. A questo si aggiunge che la Russia si sta chiaramente preparando ad annettersi nei prossimi mesi, come hanno dichiarato i rispettivi “governatori” da essa insediati, le regioni di Kherson e Zaporizhzhya, oltre naturalmente all’intero Donbass, tutte regioni nelle quali è stato introdotto a forza l’uso del rublo ed è stata avviata l’emissione di passaporti russi: è chiaro che i profughi non torneranno in queste regioni dal momento in cui diventeranno parte di uno stato straniero ucrainofobo. I danni diretti causati fino a inizio maggio all’economia ucraina sono stati stimati da più fonti come pari approssimativamente a 500-600 miliardi di dollari, ma secondo il FMI raggiungeranno presto il traguardo di 1 trilione. Nella situazione mondiale di crisi economica, inflazione, catene di approvvigionamento nel caos e problemi nei rifornimenti energetici e alimentari, è praticamente da escludersi che dall’estero arrivino aiuti sufficienti per la ricostruzione. A questo va aggiunto che le forze russe stanno distruggendo intenzionalmente silos, campi agricoli, macchinari per l’agricoltura ecc., con il chiaro obiettivo di distruggere una delle colonne portanti dell’economia ucraina e di destinare alla fame la sua popolazione. Inoltre, i russi hanno annunciato che la centrale nucleare di Energodar attualmente sotto il loro controllo taglierà l’alimentazione elettrica alle zone non controllate da Mosca e le riprenderà eventualmente solo dietro pagamento. Se in più si inquadra tutto questo nel recente passato, dalla rivoluzione arancione passando per la guerra scatenata dalla Russia nel 2014 fino a quella di oggi, l’intenzione del Cremlino di impedire l’esistenza autonoma dell’Ucraina, da un ventennio considerata fonte di un possibile contagio democratico per la Russia, è chiarissima. E la parola “genocidio” non suona affatto fuori luogo.

Aggiungo che le idee sull’allargamento della Nato come fattore che avrebbe spinto Putin a reagire con questa guerra, e che hanno mandato in orgasmo la stragrande maggioranza della sinistra radicale, si confermano nuovamente del tutto errate. Avevamo già esposto nei dettagli in Crisi Globale perché si trattava di una spiegazione campata in aria, per una nutrita serie di motivi, primo tra tutti il fatto che l’allargamento della Nato è terminato nella sua essenza nel 2004 e oggi siamo nel 2022. Oggi si aggiunge in più il fatto che di fronte a uno sviluppo di grande portata, come l’entrata della Svezia e della Finlandia nella Nato, causata tra l’altro da una prevedibile ondata di sostegno popolare per tale opzione dovuta ai timori causati dallo stesso Putin con la sua guerra, il presidente russo di fatto si è stretto nelle spalle e ha accettato l’adesione dei due paesi all’alleanza atlantica, nonostante in particolare nel caso della Finlandia comporti un’enorme estensione dell’area in cui la Nato confina direttamente con la Russia.

Ma quello della distruzione dell’Ucraina come entità autonoma è oggi ormai solo uno degli obiettivi di Putin. Si sta delineando con chiarezza anche l’obiettivo di affermare la potenza dello stato russo a livello mondiale facendo leva su tre massicci fattori di ricatto di cui Mosca dispone: i rifornimenti energetici e di materie prime, la minaccia dell’uso di armi nucleari, il controllo delle forniture agricole. Ognuno di questi fattori è singolarmente di portata enorme, ma presi nel loro insieme diventano un vero e proprio incubo. Quello forse un po’ meno incisivo, se considerato isolatamente, è il potenziale di ricatto incentrato sulle forniture energetiche e di materie prime, perché la Russia stessa è destinata al crollo economico senza gli introiti delle relative vendite. Ma i rubinetti di tali forniture possono essere chiusi e aperti in via alternata, giocando di sponda con paesi come la Cina, l’India e i paesi del Golfo in qualità di acquirenti o membri del cartello dei produttori, causando impennate dei prezzi e crisi nei rifornimenti, ma tenendo allo stesso tempo a galla le casse della Russia. Quindi già questa è una leva di ricatto enorme, e lo è ancora di più in un periodo di crisi e stagnazione senza vie di uscita come quello che il capitalismo mondiale sta attraversando da una quindicina di anni. Crisi in rifornimenti vitali come quelli energetici e delle materie prime si trasformeranno facilmente in guerre vere e proprie.

Il secondo fattore, quello della minaccia atomica, è stato messo in campo da Mosca come mai nessun altro aveva fatto in passato, nonché con un’insistenza senza precedenti. Le minacce ripetute pronunciate non da personaggi secondari o solamente contigui al regime, bensì dai massimi vertici dello stato, Putin compreso, sono un chiaro segno del fatto che per Mosca l’uso delle armi nucleari non è solo un fattore di deterrenza e che il Cremlino mette in conto anche un loro uso come arma di aggressione. Non vanno nemmeno sottovalutate le minacce ancora più esplicite, corredate da agghiaccianti materiali iconografici, effettuate da commentatori e conduttori televisivi: non sono degli Orsini russi, sono veri e propri organi della propaganda del Cremlino interamente sotto il controllo di quest’ultimo. Le minacce implicite ed esplicite di un uso non difensivo dell’arma nucleare sono state fatte lungo tutti i tre mesi di questa guerra, non sono state di carattere episodico, e non è affatto da escludersi che Mosca le concretizzi ulteriormente con l’uso di missili nucleari tattici sull’Ucraina. Inutile dirlo, una tale escalation non potrà che trovare un’analoga eco negli Usa, in India e tra i tanti altri Stranamore in giro per il mondo.

Il terzo fattore è quello del ricatto agricolo e si sta delineando sempre più prepotentemente nelle ultime settimane. Mosca ha il controllo di tutto il Mar Nero settentrionale e centrale (tra l’altro ormai riempito di mine), e lo sta sfruttando intenzionalmente per bloccare le esportazioni agricole ucraine mentre allo stesso tempo, come abbiamo visto, sta distruggendo le infrastrutture di tale settore economico su terra. I rifornimenti agricoli dall’Ucraina, come ha ricordato di recente l’Onu, consentono di sfamare in totale 400 milioni di persone nel mondo. Attualmente siamo già nella situazione in cui l’impossibilità di effettuare la semina in ampie zone dell’Ucraina e la chiusura dei suoi sbocchi di esportazione sul mare, nonché i conseguenti forti rialzi dei prezzi, causeranno sicuramente decine, se non centinaia, di migliaia di morti per fame in Africa e nel Medio Oriente, e saranno tutte morti attribuibili direttamente a Putin. L’alternativa del trasporto via treno dei raccolti ucraini, ampiamente diminuiti per via della guerra, oltre a comportare enormi aumenti dei costi, non è praticabile perché è in grado di sostituire solo una minima percentuale dei normali trasporti via mare. È ormai troppo tardi per porre rimedio a questa situazione tragica. Ma non si tratta di una tragedia transitoria, per quanto immane. Mosca sta chiaramente agendo per conseguire l’obiettivo di eliminare l’Ucraina come unico effettivo concorrente della Russia nella produzione di grano e di altri importanti prodotti agricoli, diventando così il solo grande produttore a livello mondiale. Oltretutto, Mosca è allo stesso tempo di gran lunga il maggiore fornitore mondiale di gas, materia prima senza la quale non è possibile produrre i fertilizzanti che garantiscono una sufficiente resa dei raccolti. Putin potrà utilizzare questa arma di ricatto in vari modi: facendo crescere i prezzi a piacere, interrompendo forniture a determinati paesi a favore di altri e così via, provocando carestie in determinate aree o addirittura causando una fame di portata mondiale. Degli sconvolgimenti che una politica del genere può avere abbiamo avuto un anticipo con la cessazione delle esportazioni di grano da parte dell’India, altro grande produttore, sebbene non in grado di fare concorrenza alla Russia, che di fronte alla crisi all’orizzonte se lo vuole tenere per sé. La Cina, da parte sua, aveva fatto alla fine dell’anno scorso grandi accaparramenti di grano e altri prodotti agricoli: lo farà sicuramente in misura ancora maggiore in futuro, se riuscirà.

Considerate nel loro insieme, queste tre leve di ricatto, o meglio armi, creano un dispositivo micidiale che va molto al di là del solo possesso di un arsenale nucleare. Il modo in cui Mosca sta già ora dispiegando tale dispositivo è l’indice del fatto che ci attendono altre guerre e devastazioni, sia militari sia economiche, in un mondo sempre più tendente allo scontro tra blocchi protezionistici e alle mosse avventate per via della crisi globale che morde ogni giorno di più. Putin non si sta muovendo in questa direzione perché è “cattivo”. Di sicuro lo è, ma non è questo il motivo fondamentale. Semplicemente, lo stato di cui ha il comando può sopravvivere in un contesto di crisi economica globale solo in questo modo, dopo avere miseramente fallito ogni tentativo di sviluppare la propria economia ed essendo per sua natura incapace di crearsi una base sociale solida, al di là delle ripetute ventate di nazionalismo sciovinista e delle occasionali quanto anemiche elezioni plebiscitarie. È un regime che si fonda esclusivamente sull’arma nucleare, sulle materie prime, sull’apparato militare e quello della sicurezza interna. Non esistono basi per riformare questo saldo intreccio, può solo disfarsi e crollare su sé stesso. L’obiettivo che bisogna porsi è che ciò accada prima che causi altri e ancora peggiori disastri.

Di fronte a tutto questo, gli inviti alla diplomazia, ad andare incontro agli interessi russi, a non fornire armi all’Ucraina per non portare a un’escalation (escalation che in realtà sta procedendo da tre mesi a velocità supersonica sul lato russo) sono solo ed esclusivamente sciagurati. Chi li pronuncia si illude di portare avanti lentamente la carretta come in passato, ma non si accorge di stare andando di corsa verso il baratro. Oltre ai motivi elencati sopra, aggiungo qui che ogni congelamento del conflitto ottenuto andando incontro a Putin e tenendo così in vita il suo regime, comporterà come minimo un nulla osta all’infinita serie di suoi simili, da Erdogan fino a Xi o al-Sisi, per nominare solo tre di una nutrita schiera, ad agire in maniera sempre più disinibita sulle orme di quanto ha fatto il padrone del Cremlino. Solo una disfatta completa della guerra voluta da Putin, e quindi del suo intero regime, può salvarci da un futuro fatto di devastazioni e guerre di ogni tipo: non sarà una garanzia di pace e libertà, ma creerà le condizioni irrinunciabili per la loro conquista. Per tale sconfitta sono necessarie armi per l’Ucraina, a questo punto anche di tipo potente – sarebbe bello che non fosse così, ma è una strada che ha scelto e imposto Putin. Tuttavia, una vera e ampia vittoria sarà possibile solo se a imporla saranno non i burocrati degli stati seduti a un tavolo negoziale, ma la resistenza ucraina, insieme a quella altrettanto coraggiosa dei bielorussi e degli oppositori russi, nonché possibilmente anche quella di altri popoli delle ex repubbliche sovietiche. Purtroppo nel futuro intravedibile saranno tutti soli, come lo sono oggi: il movimento “pacifista” occidentale e gli altri cosiddetti movimenti sociali stanno disertando convintamente da ogni dovere di solidarietà, si può solo sperare che non passino in un modo o nell’altro in massa a un appoggio esplicito a Putin.

*articolo apparso su https://crisiglobale.wordpress.com/ il 27 maggio 2022