Il giudizio sulla giornata elettorale del 12 giugno deve partire dalla percentuale della partecipazione al voto: un dato molto negativo che conferma, la costante e inarrestabile crescita dell’astensione: un vuoto politico senza precedenti.
Per quanto riguarda il voto referendario siamo infatti sotto al 21%, con una partecipazione che ha raggiunto il 28% solo in Liguria e il 26% in Friuli e Veneto, le regioni a forte trazione politica organizzativa della Lega, il partito più coinvolto nella promozione e nel sostegno ai 5 referendum sulla giustizia.
Per quanto riguarda il voto dei Comuni l’asticella della partecipazione si è collocata poco sopra il 54% con una ulteriore riduzione della già scarsa percentuale di 5 anni fa (60%).
La disillusione, il disinteresse politico e la mancanza di alternative credibili rapportabili alla condizione di larghi settori popolari sono alla base di questa massiccia astensione, fenomeno per altro prodotto consapevolmente dalle classi dominanti con le loro scelte politiche di introdurre sistemi elettorali sempre meno democratici e rappresentativi. Una dinamica che si combina con gli effetti del “pilota automatico” dell’economia (patto di stabilità, fiscal compact, privatizzazioni, esternalizzazioni, trappola del debito ecc…) che riduce drasticamente gli spazi di manovra per gli amministratori. La percezione dell’inefficacia della politica non potrebbe essere più drastica e passivizzante di così presso ampi settori di elettorato popolare.
L’astensione nel referendum…
L’altissima astensione al voto sui referendum, per altro assolutamente annunciata, ha ulteriori e molteplici cause: la prima è data dal fatto che i due referendum su cui c’era stata una massiccia raccolta di firme popolari, sul fine vita e sulla legalizzazione della cannabis con una immediata percezione di massa della loro importanza, sono stati cassati dalla Corte Costituzionale; la seconda sta nella complessità e contraddittorietà dei 5 quesiti sulla giustizia, non facili da comprendere per un largo pubblico, alcuni molto lontano dagli interessi e dalla percezione dei cittadini in quanto del tutto interni all’apparato della magistratura; il terzo da uno scarso impegno da parte degli stessi promotori, le maggioranze di destra delle regioni che lo avevano proposto e i radicali, nella gestione della campagna stessa. Il fatto è che all’interno della stessa borghesia ci sono punti di vista diversi sulla riforma della giustizia e il passaggio referendario è stato anche uno strumento dello scontro interno agli apparati dello stato e della magistratura.
Questa situazione è stata utilizzata comunque dalla borghesia e dai suoi giornali per portare avanti un preciso obiettivo: svilire l’istituto stesso del referendum, un istituto democratico importante che ha visto una mobilitazione civile e popolare in numerose occasioni, (anche se non sempre), e che oggi appare tanto più pericoloso ai poteri costituiti perché attivabile attraverso la raccolta diretta delle firme digitali: E quanto è avvenuto l’anno scorso con una raccolta firme durata poche settimane sui quesiti sul fine vita e sulla cannabis; uno strumento quindi utile e alla portata di soggetti popolari, espressione di istanze democratiche e progressiste, che occorre continuare a difendere. Non è un caso che La Stampa arrivi a scrivere, quasi felicitandosi, che “potrebbe essere il giorno in cui è morto l’istituto del referendum, ucciso dall’indifferenza generale” Sic!
Un’ulteriore considerazione va fatta anche sul voto specifico sui singoli quesiti referendari; se da una parte le/i votanti hanno espresso una forte adesione ai 3 referendum interni al funzionamento della magistratura, si è invece registrata una consistente percentuale di voto avverso sulla custodia cautelare e sulla legge Severino, i due referendum che ponevano elementi di garantismo, non certo gradito a quella parte dell’elettorato di destra e leghista che si è recato a votare. Sono i due referendum il cui esito poteva avere reali ripercussioni sui singoli cittadini e sulla stessa vita politica elettorale.
Si apre ora il dibattito parlamentare sulla riforma Cartabia che non va certo nella direzione di fornire adeguate garanzie di giustizia per le classi lavoratrici e popolari. Ben altro indirizzo dovrebbe avere una riforma realmente democratica; impossibile da conquistare senza una diversa capacità di mobilitazione del movimento operaio e sociale.
… e quella nel voto amministrativo
Per quanto riguarda l’astensione per l’elezione dei consigli comunali e dei sindaci, oltre al dato generale richiamato all’inizio, pesa ormai da tempo il venir meno della identità politica ed ideologica dei partiti e dei soggetti che si misurano sul campo, l’intercambiabilità dei diversi protagonisti, la verifica ormai assodata che nessuna delle amministrazioni che arriva a governare, vuole o si dimostra capace di cambiate realmente quelle che sono le condizioni di vita quotidiana della stragrande maggioranza delle persone. Si moltiplicano le liste civiche e individuali, in cui tutto diventa grigio, scadente, interessato, subalterno all’esistente. Il forte taglio delle risorse stanziate per i comuni, l’infernale logica del patto di stabilità interno, la pressione costante alle privatizzazioni e il ruolo delle imprese, a partire dalle multiutility, rendono uniformi le scelte di fondo di tutte le giunte, piegate alla logica del sistema capitalista; lo scontro tra i partiti molte volte si misura solo nel grado di aggressività verso i migranti, i diversi e gli emarginati sociali e nelle misure restrittive per rendere “più sicure “le città. Chi ha le mani sulle città sono sempre i “soliti noti capitalisti”.
Solo una parte dei cittadini finisce per interessarsi dello scontro tra coloro che si contendono il governo delle città e dei comuni.
Queste considerazioni generali non impediscono però di comprendere che queste elezioni (si è votato in quasi mille comuni, tra cui 26 capoluoghi di provincia, coinvolgendo tutte le regioni del paese) abbiano avuto una grande importanza e che incideranno sugli sviluppi politici futuri del paese; sono state infatti un momento di scontro e di verifica dei rapporti di forza tra le coalizioni politiche più o meno costituite e dei singoli partiti all’interno di queste. In realtà tutti i maggiori partiti si candidano a gestire la realtà economica e sociale capitalista, tanto è vero che oggi, in una fase particolarmente critica stanno quasi tutti dentro il governo Draghi e chi non ci sta, come FdI, solo formalmente, ma non sostanzialmente è all’opposizione.
Dentro questa unità governativa e strategica della loro classe, ognuno dei partiti deve poi ricercare proprie specificità e ruolo al fine di poter conseguire i voti nelle prossime elezioni politiche.
Quali cambiamenti nei rapporti di forza tra i partiti
Le elezioni sono state dunque un primo momento di verifica tra il cosiddetto schieramento largo di Pd e M5S e la coalizione delle destre, e poi tra i diversi partiti che compongono i due campi. Il voto conferma la stabilità del PD come partito su scala nazionale e la debolezza estrema del M5S nelle elezioni amministrative; nel campo opposto si conferma la forte crescita anche al Nord dell’estrema destra della Meloni che supera in molte città la Lega, oggi in grande difficoltà e declino anche nelle sue roccaforti tradizionali. Ma la partita è ancora lunga: il M5S in un voto nazionale ha ancora uno spazio politico maggiore come i sondaggi hanno sempre mostrato e la Lega dispone ancor di solidi ancoraggi istituzionali ed economici.
Per aver il quadro complessivo dei rapporti di forza e della gestione delle città occorre attendere i risultati dei ballottaggi. Si votava in 26 città capoluogo, di cui solo 5 erano governate dal centro sinistra, 3 da candidati civici, tutte le altre dalle destre.
Una conferma già c’è stata, cioè la forza e l’incidenza dei partiti della destra che portano a casa al primo turno tre capoluoghi di regione, Palermo, Genova e L’Aquila e sono molto vicini alla vittoria nella quarta città capoluogo, Catanzaro. Il centro sinistra si deve per ora accontentare della vittoria al primo turno a Lodi, Padova e Taranto.
Il PD afferma di essere il partito maggiormente votato, (il voto per il PD è stato comunque alquanto articolato e non uniforme se letto soprattutto in termini di voti assoluti e non solo percentuali), ma la partita per Letta potrà essere positiva solo se il secondo turno gli porterà numerose vittorie nelle 13 città capoluogo dove si va al ballottaggio.
Il pessimo risultato del M5S pone molti problemi alla alleanza larga prospettata e i risultati dei centristi, in alcuni casi abbastanza significativi, pongono non pochi problemi alle scelte tattiche del PD.
Il voto ha rafforzato il governo Draghi? In apparenza sì perché i partiti più litigiosi e conflittuali (Lega e M5S) hanno subito degli arretramenti, ma, nei fatti queste forze possono essere spinte ancor più di prima, per riconquistare consensi, ad aprire una fase di contenziosi e di porre delle vere zeppe sulla strada dell’esecutivo. Nello stesso tempo si è rafforzato anche FdI, che i sondaggi ormai da alcuni mesi danno come primo partito nazionale nelle intenzioni di voto, che formalmente è all’opposizione e che, in teoria almeno, chiede di andare rapidamente alle elezioni anticipate.
La situazione di guerra inoltre sembra aver rafforzato PD e FdI, i due partiti che hanno espresso la maggior fedeltà atlantica e guerrafondaia intorno a Draghi. Il che non stupisce, per il semplice fatto che, essendosi ridotto l’elettorato, sono andati a votare soprattutto i più convinti da questo corso bellicista. Questa valutazione va però verificata sulla base dei numeri assoluti di voto, condizionata per altro da una situazione internazionale incerta che presenta molte contraddizioni e da una opinione pubblica che fino ad oggi è piuttosto orientata in senso antiguerra nonostante la forte campagna mediatica.
Qualche nota sulle sinistre
La sedicente sinistra “coraggiosa”, ma anche cosiddetta “ornamentale”, cioè quella strutturalmente legata al PD che spera di conseguire eletti dentro un quadro di totale subalternità politica al partito maggiore, ha ottenuto risultati diversificati. Solo il risultato dei ballottaggi determinerà o meno una loro presenza significativa nei consigli.
Per quanto riguarda la sinistra radicale e di alternativa, la sua presenza è stata alquanto marginale non essendo stata capace anche questa volta di presentarsi con un volto unitario ed unico nel paese.: molte le assenze, molte le scelte differenziate, in alcuni casi particolarmente discutibili come le alleanze con il M5S o, addirittura, dentro il centrosinistra. Ma sono tante anche le situazioni dove questa sinistra non è riuscita a garantire una presenza elettorale visibile. Complessivamente un’occasione mancata.
Tutto questo indebolisce lo stesso percorso della costruzione di una coalizione unitaria nazionale coerente per le prossime elezioni politiche che in qualche modo ha cominciato a manifestarsi embrionalmente.
Sinistra Anticapitalista ha sostenuto le situazioni in cui lo spirito unitario e alternativo di queste forze si è espresso con maggiore forza e coerenza.
Le campagne elettorali sono state anche brillanti e capaci di incontrare settori popolari più ampi, ma i risultati nel contesto dato non potevano che essere difficili e contenuti. In particolare ci siamo impegnati direttamente nella lista unitaria di Genova (PRC, Sinistra Anticapitalista, PCI) che ha conseguito un onorevole 1,9% e a Carrara dove la lista “La Comune” (senza il PRC che ha scelto di allearsi con l’amministrazione uscente dei 5Stelle e con pezzi fuoriusciti dal centro sinistra)) ha conquistato un ragguardevole 2,58%. Alle compagne e ai compagni dei nostri circoli che hanno gestito con molto impegno e determinazione queste campagne elettorali va il nostro ringraziamento.
La crisi grande e la risposta del movimento della classe lavoratrice
Ma la considerazione più importante su questa scadenza elettorale va fatta richiamando quello che è il mondo esterno: le scelte finanziarie delle borghesie europee oscillano e stanno cambiando, Lagarde aumenta i tassi di interesse, lo spread corre e mette l’Italia sotto assedio, l’inflazione divora i salari, le borse crollano, tutto questo mentre la guerra in Ucraina continua ed allarga i suoi mefitici effetti in tutto il mondo.
Poi c’è un governo che spende miliardi per gli armamenti e gestisce un’economia di guerra; predispone qualche altra elemosina per i lavoratori e pensionati, mentre il grosso della torta, i miliardi europei, vanno alle imprese e ai processi di ristrutturazione capitaliste, la precarietà del lavoro è sempre più dominante e all’orizzonte compare a breve una nuova politica di austerità per pagare debiti e tassi.
Non riusciamo quindi ad essere troppo attenti alle mille manovre che i partiti che sostengono più o meno Draghi formalmente o informalmente, metteranno in atto per consolidare le loro parziali vittorie elettorali o reagire alle cadute che hanno subito. La nostra attenzione va più che mai alla situazione sociale, alle condizioni sui luoghi di lavoro, alla fondamentale necessità che il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori, le forze sindacali di classe, i movimenti sociali trovino la forza e la determinazione per ricostruire la lotta contro questo governo e le sue politiche, contro tutte le forze padronali, per ridare credibilità a un progetto alternativo, per renderlo credibile a settori di massa demoralizzati e piegati sotto gli effetti della crisi.
Questa è la vera “elezione”, quella che deciderà del futuro.
Al di là delle pur legittime e necessarie attività per cercare di costruire uno schieramento politico per il prossimo anno nella scadenza delle elezioni politiche, questa deve essere la vera e principale preoccupazione, l’idea e la volontà di tutte e tutti quelli che vogliono opporsi ai disastri prodotti dal capitalismo.
E dobbiamo lavorare molto anche perché abbiamo organizzazioni sindacali che da tempo non fanno più il loro mestiere; alcune sono totalmente schiacciate sul governo; il segretario della CGIL per parte sua, una volta alla settimana recita il decalogo degli obiettivi sociali e di lavoro alternativi, ma poi tiene la sua organizzazione del tutto immobile alla ricerca del mitico e fasullo tavolo di trattativa guardandosi bene dal ricostruire un percorso di lotta che ridia forza e voce alla classe lavoratrice.
È quanto devono invece provare a fare tutte le forze di classe presenti nel paese; è quanto prova a fare l’opposizione in CGIL col congresso che si sta aprendo; è quello che tutte le forze di movimento già incontratesi a Firenze chiamate dal Collettivo della GKN devono tentare di fare, mobilitazioni e lotte convergenti per costruire una mobilitazione generale.
*Sinistra Anticapitalista