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In questa guerra cardine su scala mondiale, la nazione ucraina lotta per preservare la propria indipendenza, ottenuta solo 30 anni fa, dopo secoli di dominazione e una russificazione spietata. Questa avrebbe dovuto renderla una declinazione della nazione russa «trinitaria» immaginata in epoca zarista e rivendicata da Vladimir Putin. La classe dirigente russa lotta per la rinascita di un imperialismo russo in pieno declino che, senza il controllo sull’Ucraina, rischia di scomparire dallo scenario storico.

Nel 1937, in occasione di un ricevimento organizzato per il XX anniversario della Rivoluzione d’ottobre, Iosif Stalin fece un brindisi «per la distruzione di tutti i nemici – loro e tutti i famigliari – sino alla fine!» Come ha osservato nel suo diario un testimone oculare, Georgi Dimitrov, ricordando questo brindisi, Stalin spiegò che gli zar avevano «fatto una buona cosa: avevano assembrato uno Stato immenso che arrivava fino alla Kamčatka», e «noi bolscevichi, l’abbiamo consolidato e rafforzato in uno Stato, uno e indivisibile». Di conseguenza, «chiunque cerchi di staccare una parte o una nazionalità è un nemico, un nemico giurato dello Stato e dei popoli dell’Urss. E noi annienteremo un tale nemico, anche se si tratta di un vecchio bolscevico; noi annienteremo tutti i suoi parenti, la sua famiglia» (1). Da sempre, l’imperialismo russo è stato guidato dalle idee dell’«assembramento delle terre russe» e della costruzione della «Russia una e indivisibile». Questo imperialismo è sempre stato – e resta – caratteristico, così come la formazione sociale della Russia stessa è stata e resta particolare nel corso delle fasi storiche successive del suo sviluppo, a cominciare dallo Zarato Russo [Russkoe Zarstvo] (1547-1721). Vladimir Lenin, quando teorizzò «l’imperialismo capitalistico moderno», sottolineò quanto questo fosse debole in Russia, a differenza della forza che vi manifestava «l’imperialismo feudale-militare» (2). Ma definirlo feudale era una semplificazione eccessiva. Indubbiamente, a partire dalla metà del XVI secolo, all’epoca di Ivan il Terribile, la formazione sociale russa era essenzialmente una combinazione di due modi di sfruttamento precapitalistici differenti. Il primo, quello feudale, era fondato sul fatto che i proprietari terrieri estorcevano un sovralavoro ai contadini sotto forma di rendita. L’altro, tributario, era modellato sull’Impero ottomano, all’epoca il più potente (3), e si basava sul prelievo dell’imposta ai contadini da parte della burocrazia statale.

In Unione Sovietica vigeva il dogma staliniano dello sviluppo unilineare dell’umanità, basato solo su cinque stadi. Il modo di sfruttamento tributario non era presente, tanto più che si sarebbe potuto associare (superficialmente, ma non senza ragione) al dominio della burocrazia staliniana. Alcuni storici sovietici, senza trasgredire formalmente questo schema, hanno abilmente aggirato il divieto definendolo «feudalismo di Stato» o feudalismo «orientale», diverso dal feudalismo «privato» e «occidentale». Dalla metà del XVII secolo e quasi fino all’abolizione della servitù della gleba, nel 1861, la terza forma di sfruttamento – ancor più terribile per i contadini – fu la schiavitù, compresa la tratta degli esseri umani, verso la quale in realtà degenerò la servitù della gleba.

Un sovraprodotto minimo

 Alcuni di questi modi di sfruttamento non rappresentano (contrariamente alle consuetudini terminologiche presuntamente marxiste) un modo di produzione, perché non giungevano ad assoggettare, né in modo formale, né reale, le forze produttive, e non garantivano dunque il loro sviluppo sistematico nel tempo. Tuttavia, è stato sulla base di questi modi di sfruttamento che si è formato uno Stato russo così particolare. Come ha fatto notare Ruslan Skrynnikov [1931-2009] – uno dei principali specialisti dell’opričnina di Ivan il Terribile che scatenò il primo Grande Terrore in Russia, immergendovisi totalmente – «alcune delle sue pratiche contenevano, quasi allo stato embrionale, tutto lo sviluppo successivo della monarchia assoluta nobiliare e burocratica» (4). Di fatto, non solo di questa, ma di tutti i regimi dispotici russi fino ai secoli XX e XXI. Un altro storico contemporaneo, Leonid Milov [1929-2007], avanza delle tesi molto significative sulle specificità dello sviluppo storico della società russa. Partendo dallo studio delle condizioni naturali e climatiche della produzione, egli ha sviluppato una concezione chiave della «storia della Russia in quanto società a sovraprodotto totale minimo» (5). Le ragioni sono: in rapporto ad altre società agricole, una stagione agricola molto breve nella Russia centrale – determinata dal clima, che durava solo dall’inizio di maggio a quello di ottobre (in Europa occidentale, i contadini non lavorano nei campi solo nei mesi di dicembre e gennaio) – e la predominanza di terreni poveri di humus. Tutto ciò ha determinato, di conseguenza, «fino alla meccanizzazione di questo tipo di lavoro, una bassa fertilità e, dunque, un basso volume di sovraprodotto totale della società», il che «ha creato in questa regione le condizioni di esistenza, nel corso dei secoli, di una società agricola relativamente primitiva». Di conseguenza, «per ottenere un risultato minimo, era necessario concentrare il lavoro per quanto possibile in un lasso di tempo relativamente breve. L’azienda contadina individuale non poteva raggiungere il grado indispensabile di concentrazione degli sforzi lavorativi nel corso delle stagioni di lavoro agricolo oggettivamente esistenti», per cui la sua fragilità «è stata compensata per quasi tutta la storia millenaria dello Stato russo dal ruolo preminente della comunità contadina» (6).

Unità dei contrari

 Il sovralavoro dei contadini non poteva essere estorto – in larga misura, se non interamente – se non a spese del lavoro necessario alla loro riproduzione, vale a dire con metodi di sfruttamento assoluto (piuttosto che attraverso uno sfruttamento relativo basato sull’aumento della produttività del lavoro). Tutto ciò non è stato possibile senza imporre loro il regime di servitù il più duro possibile, tanto più che – tenuto conto delle condizioni generali di produzione – era necessaria una forte organizzazione comunitaria del lavoro. La necessità «di ottimizzare la misura del sovraprodotto totale» – di aumentarla nell’interesse degli apparati statali e della classe dominante – era pressante, ma «sul binario di questa “ottimizzazione”, vale a dire della necessità oggettiva d’intensificare lo sfruttamento dei contadini, si reggeva quella stessa comunità, bastione della coesione locale e mezzo della resistenza contadina» (7). Di qui è nata «una specie di unità dei contrari: ciò che controbilanciava l’inevitabile esistenza della comunità era un contrappeso sotto forma della variante più brutale e più rigida della dipendenza personale di ogni membro di questo organismo». L’impossibilità di superare tale contraddizione senza un considerevole sviluppo delle forze produttive, non permesso dai rapporti di sfruttamento precapitalistici, ha fatto sì che il ruolo dello Stato consistesse nella creazione «di una classe dominante monolitica e potente, capace di sradicare o di neutralizzare i meccanismi di difesa della comunità agricola nel processo di sfruttamento quotidiano dei contadini». Riassumendo, secondo Milov: «l’inevitabilità dell’esistenza della comunità, condizionata dalle sue funzioni produttive e sociali, ha finito per dar vita a meccanismi tra i più rigidi e brutali per estrarre quanto più sovraprodotto possibile. Di qui l’emergere del regime della servitù della gleba, che è riuscito a neutralizzare la comunità in quanto base della resistenza contadina. A sua volta, questo regime di servitù è stato reso possibile solo in ragione dello sviluppo delle forme più dispotiche del potere dello Stato – il regime autocratico russo» (8). È ciò che ha unito la classe dirigente.

Dove inizia la periferia

Tuttavia, parallelamente, «il carattere estremamente estensivo della produzione agricola e l’impossibilità oggettiva d’intensificarla, hanno fatto sì che il principale territorio storico dello Stato russo non sia riuscito a sostenere la crescita della densità della popolazione. Di qui la costante necessità per la popolazione, nel corso dei secoli, di migrare verso nuovi territori alla ricerca di terre arabili più fertili, di condizioni climatiche più favorevoli all’agricoltura ecc.» (9). Inoltre, «i processi migratori sono andati di pari passo col rafforzamento dello Stato assolutistico, pronto a controllare e a difendere vaste aree del Paese», e dunque con la costituzione di enormi forze armate, benché «la misura estremamente ridotta del sovraprodotto totale abbia oggettivamente creato condizioni molto sfavorevoli alla formazione della cosiddetta sovrastruttura al di sopra degli elementi di base» (10). Questa secolare espansione coloniale, militare e statale, verso sud, sud-est ed est, ha progressivamente inglobato vaste aree, territori periferici «allogeni» sempre più estesi e Paesi affini sempre più lontani, vittime della conquista. Tale espansione si è accompagnata a varie centinaia di anni di lotte da parte dello Zarato Russo – poi dell’Impero zarista (1721-1917) – per l’accesso ai porti liberi dai ghiacci sui mari a ovest e a est. Di qui le domande legittime alle quali è così difficile rispondere correttamente: «Quando è iniziata la colonizzazione russa – con l’occupazione di Kazan, città etnicamente straniera, o di Novgorod, etnicamente simile?». La Repubblica di Novgorod è caduta sotto l’assalto dell’esercito di Mosca nel 1478, e il canato di Kazan nel 1552. «Dove si collocano le frontiere della madrepatria russa, dove iniziano le colonie russe, e come distinguerle?». Esse, infatti, sono state così fluttuanti… «Le frontiere della Russia si sono estese sia prima dell’arrivo dello zarismo che durante l’epoca zarista con una tale rapidità che la stessa distinzione tra “esterno” e “interno” era fluida e indeterminata» (11).

Conquiste militari coloniali

La formazione storica della Russia si è modellata nel processo costituito da conquiste militari coloniali delle campagne e dei contadini russi e da guerre contadine, cioè anticoloniali, provocate da quelle stesse campagne, da colonizzazioni interne ed esterne, da conquiste, saccheggi e oppressioni coloniali di altre popolazioni. Come afferma giustamente Aleksandr Etkind [n. 1955], «sia all’interno delle sue lontane frontiere sia nelle sue oscure profondità, l’impero russo era un immenso sistema coloniale» (12). Contrariamente alla mitologia russa, la conquista di un Paese così enorme come la Siberia, non ha «ampliato il territorio moscovita sino alle frontiere con la Cina», ma ha trasformato la Siberia in una tipica colonia. Tuttavia è divenuto abituale percepire la Siberia come una parte inseparabile della Russia, come più tardi la Polonia, la Lituania, la Finlandia, il Caucaso, Bukara e Tuva – tra le altre. Alcuni storici russi – dando così il loro contributo teorico alla costruzione dell’«idea russa» dominante e, come è oggi evidente, atemporale – hanno definito molto abilmente questo fenomeno «autocolonizzazione della Russia»: i territori successivi di cui si è impadronita non sono diventate sue colonie, ma essa ha «colonizzato sé stessa» (13), poiché era priva di confini (e ciò permane nella sua ideologia dominante, in modo esplicito o mascherato). Dopo aver preso l’Ucraina sulla riva sinistra del Dnepr nel XVII secolo, la partecipazione della Russia alla spartizione delle Repubbliche delle due nazioni (Polonia-Lituania) negli ultimi decenni del XVIII secolo le ha permesso d’impadronirsi della maggior parte dell’Ucraina sulla riva destra – cioè dell’80 per cento dei territori ucraini. Questa si è rivelata una preda strategica fondamentale, con il raggiungimento in profondità dell’Europa e determinando la portata e il carattere euroasiatico dell’Impero russo.

Anche se la nobiltà russa rappresentava lo strato dominante, la terra non è mai diventata completamente proprietà privata del nobile. Ciò sarebbe stato contrario agli interessi primordiali di questo Stato imperiale, nella costruzione del quale nessuna classe sociale ha svolto un ruolo tanto importante quanto lo Stato stesso – i suoi apparati e il suo personale burocratico. Ciò si esprimeva non solo nella costruzione di un esercito colossale – al prezzo addirittura di 25 anni di servizio militare dei contadini – e di immense infrastrutture militari e civili finanziate dal lavoro forzato di centinaia di migliaia di altri contadini, appartenenti sia allo Stato sia ai proprietari terrieri, ma anche di intere brigate di artigiani inviati a un lavoro realmente forzato in diverse parti del Paese. Inoltre, come afferma Milov «la macchina statale era costretta a far avanzare il processo di divisione sociale del lavoro, e soprattutto la separazione tra l’industria e l’agricoltura», contro i modi di sfruttamento dominanti che ostacolavano questo processo.

Servitù industriale

Di conseguenza, «la partecipazione dello Stato alla creazione dell’industria nel Paese ha contribuito a un balzo gigantesco nello sviluppo delle forze produttive, benché l’appropriazione delle “tecnologie occidentali” da parte della società arcaica nel XVII e XVIII secolo abbia avuto un effetto sociale mostruoso: è comparsa una massa di lavoratori legati per sempre alle fabbriche e ai luoghi di lavoro ( i “sottomessi perpetui”), il che ha stimolato lo scivolamento della società verso la schiavitù»14 . L’enorme complesso militare-industriale russo, il cui nucleo era la metallurgia uralica, non si è basato sullo sviluppo dei rapporti capitalistici, ma nel quadro di rapporti feudali e tributari (15). È vero che il capitale cominciò a fiorire, ma era di natura precapitalistica e ostacolava lo sviluppo del capitalismo vero e proprio: «Il capitale commerciale si sviluppava non in profondità, non trasformando la produzione, ma in estensione, allargando la sua sfera d’azione», spostandosi «dal centro verso la periferia, dietro i contadini che si disperdevano e, alla ricerca di nuove terre e di esenzioni fiscali, penetravano in nuovi territori» (16). Fondati sulla coercizione non economica, i modi di sfruttamento precapitalistici hanno dominato il modo di produzione capitalistico in Russia fino alla rivoluzione del 1917, non solo in agricoltura, ma anche nell’industria, ancora a lungo dopo la riforma del 1861. Quando la socialdemocrazia russa ha formato un suo partito, il lavoro di circa il 30 per cento degli operai industriali era ancora un lavoro servile, e non un lavoro salariato: un fatto questo che la socialdemocrazia – compresa l’Iskra – associando l’industria (vale a dire le forze produttive e non i rapporti di produzione) al capitalismo, non comprese.

«Ancora all’inizio del XX secolo, oltre la metà delle imprese industriali del principale nucleo industriale (la siderurgia) non erano capitalistiche nel senso vero del termine», afferma Michail Voejkov. I metodi precapitalistici d’estrazione del sovraprodotto del lavoro dei produttori diretti che ancora prevalevano «non permettevano al capitale nazionale di realizzare la necessaria accumulazione», per questo motivo «il capitale straniero era così forte» (17). Là dove il capitale già dominava l’economia russa, esso era in pratica e immediatamente il grande capitale, e si manifestarono rapidamente dei processi di monopolizzazione.

Molteplicità di rivoluzioni

In Russia, dunque, «l’imperialismo capitalistico di tipo nuovissimo» è appena nato, ma è «avviluppato» – scriveva Lenin proprio alla vigilia della rivoluzione del 1917, «da una fitta rete di rapporti precapitalistici», così spessa che «in generale in Russia predomina l’imperialismo militare e feudale» (18). La base di questo imperialismo è «il monopolio della forza militare, il territorio immenso o il particolare vantaggio di predare le altre nazionalità, la Cina ecc.», vale a dire delle popolazioni non russe all’interno della Russia stessa, e quelle dei Paesi limitrofi. Allo stesso tempo, scrive ancora Lenin, «esse completano e in parte sostituiscono il monopolio del capitale finanziario contemporaneo» (19). In pratica, tutti gli esegeti degli scritti di Lenin sull’imperialismo non menzionano questo presupposto teorico che è determinante per lo studio della formazione russa (20).

Il crollo di questo intreccio fra l’imperialismo «militare e feudale» russo e l’imperialismo capitalistico non è stato opera di una sola rivoluzione, ma di varie rivoluzioni convergenti e divergenti, che hanno formato delle alleanze e si sono scontrate violentemente. La Rivoluzione russa è stata una di queste. Al centro dell’Impero, è stata operaia e contadina; nella periferia coloniale, si è basata sulle minoranze urbane russe e russificate, e sulle colonie di popolamento. Ha avuto un carattere colonizzatore, proprio come il potere russo dei consigli che essa ha instaurato, come ha dimostrato il bolscevico Georgj Safarov [1891-1942] nella sua opera, un tempo classica, sulla «rivoluzione coloniale» nel Turkestan. «L’appartenenza al proletariato industriale della colonia zarista era un privilegio nazionale dei russi. Perciò, anche qui, la dittatura del proletariato ha assunto, sin dai primi momenti, un’apparenza tipicamente colonizzatrice» (21). Ma tra i popoli oppressi, la Rivoluzione russa ha innescato anche delle rivoluzioni nazionali. Quella territorialmente più estesa, la più violenta, la più dinamica e imprevedibile è stata la Rivoluzione ucraina. La sua esplosione, e ancor più lo slancio assunto, è stato del tutto inatteso. Una nazione contadina, priva di «suoi»proprietari terrieri e di «suoi» capitalisti, con un’esile strato di piccola borghesia e di intellighenzia, con una lingua vietata, non sembrava destinata o in grado di realizzarla. Dopo che l’esercito russo aveva annientato nel 1775 la Sič di Zaporožžja, il bastione dei cosacchi liberi, il popolo ucraino ha rivendicato per la prima volta la propria indipendenza. Allarmata dalla rivoluzione sociale che aveva portato al potere i bolscevichi a Pietrogrado e a Mosca, la Rada centrale dei partiti piccolo borghesi ucraini la proclamò a Kiev e si impegnò immediatamente in una guerra contro di loro.

Rivoluzione nazionale ucraina

Una parte dei bolscevichi ucraini (benché la percentuale di ucraini tra i membri del Partito bolscevico in Ucraina fosse trascurabile) sostenevano comunque anche una Ucraina rivoluzionaria, sovietica come la Russia, ma indipendente. Soprattutto, però, nella sinistra radicale, il Partito comunista ucraino (borotbista), separato dai bolscevichi e costituito dall’ala sinistra del Partito socialista-rivoluzionario ucraino e da una parte dell’ala di sinistra della socialdemocrazia ucraina, voleva l’indipendenza. Alleato dei bolscevichi, questo partito aveva una base sociale incomparabilmente più ampia della loro. L’alleanza dei borotbisti con i bolscevichi fu molto difficile. Il capo del governo bolscevico nominato dopo la seconda occupazione di Kiev da parte dell’Armata rossa nel 1919, Christian Rakovskij [1873-1941], originario dalla Bulgaria, aveva quindi proclamato che «decretare la lingua ucraina lingua di Stato sarebbe una misura reazionaria di cui nessuno ha bisogno», poiché in generale «la questione ucraina e l’Ucraina non costituiscono tanto un fatto reale quanto un’invenzione dell’intellighenzia ucraina» (22). Egli non era l’unico a pensarla così tra i marxisti: Rosa Luxemburg affermava che il nazionalismo ucraino era «un semplice ghiribizzo», «un’imbecillità di un paio di dozzine di intellettuali piccolo-borghesi» (23). Ritenendo che «l’Ucraina è per la Russia ciò che l’Irlanda è per l’Inghilterra», che si trattava di una colonia e che il suo popolo oppresso doveva ottenere l’indipendenza, Lenin era al contrario un’eccezione, ma egli lo ha affermato pubblicamente solo una volta 824).

Alla politica del governo Rakovskij riguardo alla questione nazionale si aggiungeva una politica ultrasinistra sulla questione agraria, che, contrariamente al decreto bolscevico sulla terra, non mirava alla parcellizzazione delle proprietà fondiarie a favore dei contadini, ma alla trasformazione di queste proprietà in fattorie collettive. Le requisizioni di cereali da parte dello Stato e il «comunismo di guerra» in generale gettarono olio sul fuoco. Tutto ciò causò una forte ondata di rivolte contadine antibolsceviche nel 1919 (se ne sono contate 660, grandi e piccole), e ciò tagliò fuori l’Ucraina dall’Ungheria e impedì all’Armata rossa ucraina di venire in soccorso della Repubblica dei consigli ungheresi, nel momento in cui questa rappresentava la sua sola speranza di sopravvivere. Nell’Ucraina stessa, queste rivolte aprirono la strada all’offensiva delle truppe della Guardia bianca del generale Anton Denikin [1872-1947] su Mosca (25). È vero che lo stesso Rakovskij trasse rapidamente delle conclusioni serie sulla politica disastrosa del proprio governo, ma lo fece solo dopo il suo crollo.

Comunisti indipendentisti

In gran parte dell’Ucraina del Dnepr, la lotta contro l’occupazione della Guardia bianca russa gravò sulle spalle di movimenti partigiani e di insorti, diretti dai comunisti-borotbisti – che costituivano il partito più forte in clandestinità – e dagli anarco-comunisti di Nestor Machno [1888-1934]. Dopo la sconfitta di Denikin, l’Armata rossa garantì, per la terza volta consecutiva, il potere ai bolscevichi. Fu solo allora, nel febbraio 1920, che questi decisero di abbandonare in Ucraina il loro orientamento dottrinario sulla questione agraria e di distribuire le terre ai contadini. Benché i borotbisti avessero la maggioranza tra i comunisti ucraini, i bolscevichi – più forti di loro avendo un proprio esercito – li accettarono a malapena come membri molto minoritari della coalizione governativa e inoltre legarono loro fortemente le mani, per limitare al massimo la loro autonomia politica. Lenin aveva molta paura che, una volta terminate la guerra civile e l’intervento straniero, vi fosse un sollevamento armato dei borotbisti contro i bolscevichi, se questi ultimi si fossero opposti all’indipendenza dell’Ucraina sovietica. Egli pretese dai suoi compagni: «La prudenza più grande possibile per quanto concerne le tradizioni nazionali, il rispetto più rigido dell’uguaglianza della lingua e della cultura ucraina, l’obbligo per tutti i funzionari d’imparare l’ucraino» (26). Giacché sapeva benissimo che se «gratti qualche comunista, ci troverai uno sciovinista grande-russo»27 .

Egli affermò pubblicamente: «È cosa ovvia e universalmente riconosciuta che soltanto gli operai e i contadini dell’Ucraina possono decidere e decideranno nel loro congresso nazionale dei soviet se l’Ucraina deve fondersi con la Russia», in una sola repubblica sovietica, «o deve costituire una repubblica autonoma e indipendente», unita da un’unione (federazione) con la Russia, «e, in quest’ultimo caso, quale legame federativo deve essere stabilito tra questa repubblica e la Russia». Aggiunse che tali questioni «non debbono dividere i comunisti. Non era d’accordo sulla confederazione. Ma per il fatto che la nazione ucraina era storicamente una nazione oppressa dalla Russia, spiegava che «noi, comunisti grandi-russi, dobbiamo quindi mostrarci concilianti nei nostri dissensi con i comunisti bolscevichi ucraini e con i borotbisti, se le divergenze riguardano l’indipendenza statale dell’Ucraina, le forme della sua alleanza con la Russia e, in generale, la questione nazionale» (28).

 «Questa vittoria vale un paio di buone battaglie»

 Ora, si è verificato esattamente il contrario, poiché i secondi hanno dovuto cedere il passo ai primi su tali temi – e tutto ciò sotto la minaccia della «liquidazione». A porte chiuse, Lenin aveva ipotizzato un’Ucraina «indipendente per il momento», «strettamente federata» con la Russia e un «blocco temporaneo con i borotbisti» piuttosto che una «simultanea propaganda in favore della fusione completa» dell’Ucraina e della Russia in uno Stato unitario. Ma successivamente aveva aggiunto che «la loro lotta [dei borotbisti] contro la parola d’ordine della stretta e strettissima unione con la Rsfsr è in contrasto con gli interessi del proletariato». Pertanto, in Ucraina bisognava «condurre sistematicamente e fermamente una politica che tenda alla prossima liquidazione dei borotbisti. Insisteva «affinché i borotbisti non siano accusati di nazionalismo, ma di atteggiamento controrivoluzionario e piccolo-borghese» (29). Esattamente nello stesso periodo, la frazione «federalista», di fatto indipendentista, dei bolscevichi ucraini informava Lenin che il suo «partito non ha influenza nelle campagne, che sono totalmente ucraine, e non fa nulla per attirare a sé gli elementi più poveri, ma d’altro lato accoglie a braccia aperte nelle proprie file elementi piccolo-borghesi russi e anche artigiani ebrei non russificati. L’influenza di questi elementi piccolo-borghesi nel partito è molto dannosa». Ciò si doveva, veniva detto, al fatto che «attraverso tutta la politica del Partito comunista [bolscevico] in Ucraina scorrono come un filo rosso un atteggiamento di estrema diffidenza verso i gruppi comunisti ucraini e un orientamento favorevole a gruppi che, benché non comunisti ma infettati dal “separatismo”, non hanno alcuna forza reale e sono una specie di “valori immaginari”, come i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari di sinistra» non ucraini (30).

La «liquidazione» dei borotbisti non ebbe luogo perché – sia che ciò sia avvenuto per il bene della causa della rivoluzione socialista internazionale o semplicemente perché si resero conto che era stato messo loro un revolver alla tempia – i borotbisti sciolsero da soli il loro partito (31). Come ha spiegato Lenin, «invece di una rivolta dei borotbisti, che era diventata inevitabile, abbiamo visto che […]  i migliori elementi borobisti sono entrati nel nostro partito, sotto il nostro controllo, con il nostro consenso, mentre gli altri sono spariti dalla scena politica. Questa vittoria vale un paio di buone battaglie» (32). Alla luce delle battaglie ideologiche, dotate di un’impressionante coerenza, condotte da Lenin sul diritto dei popoli a disporre di sé stessi, anche fino alla separazione, e alla luce della sua politica effettiva in questo campo, il modo in cui egli concepiva realmente questo diritto inerente al suo pensiero, resta, se non un mistero, almeno qualcosa di completamente inesplorato. Tutta la letteratura marxista o presunta tale, dedicata alla sua interpretazione di questo diritto, ha un carattere esegetico, apologetico o epigone. E fa come lo struzzo di fronte al fatto storico che ovunque nelle periferie coloniali della Russia, dove il potere del suo partito si è imposto, o più precisamente là dove lo ha imposto l’Armata rossa, questa legge non è stata messa in pratica e non vi è stato alcun modo per tentare di farla applicare senza essere accusati d’essere controrivoluzionari.

Contraddizione nel cuore della rivoluzione

 La Rivoluzione in Russia non ha distrutto l’imperialismo russo. Con il capitalismo, essa ha rovesciato «l’imperialismo capitalistico moderno» ed eliminato la base precapitalistica (feudale e tributaria) dell’imperialismo militare. Ma non ha estirpato le condizioni di riproduzione del monopolio non economico russo che lo costituiva, «la forza militare, il territorio immenso o il particolare vantaggio di predare» gli altri popoli delle periferie interne ed esterne della Russia. Nella misura in cui la Rivoluzione ha inglobato la periferia e vi si è diffusa tra le popolazioni oppresse, sotto forma di rivoluzioni nazionali, essa ha costretto questo monopolio ad arretrare. Allo stesso tempo, l’ha riprodotto, nella misura in cui si è diffusa dal centro alla periferia sul modello di una conquista militare. Questa contraddizione, insita nel cuore della Rivoluzione russa, era interna ad essa e d’impossibile soluzione nell’àmbito della sua cornice. Molto dipendeva ormai da quale aspetto della contraddizione si sarebbe imposto.

In seguito al crollo dell’Impero zarista, la Finlandia, l’Estonia, la Lituania, la Lettonia e la Polonia se ne separarono, e dopo la sconfitta disastrosa subìta durante la guerra del 1920 con la Polonia, la Russia sovietica perse una parte dell’Ucraina (e della Bielorussia). Per la sopravvivenza dell’imperialismo russo, era decisivo sapere se l’Ucraina sovietica si sarebbe separata. Quando l’Unione sovietica prese forma in quanto organismo statale nel 1922-23, i bolscevichi ucraini parlavano apertamente del fatto che «i pregiudizi da grande potenza, nutriti col latte materno, erano diventati istintivi tra molti compagni», e questo perché «in pratica, nessuna lotta contro lo sciovinismo da grande potenza è mai stato condotto nel nostro partito» (33). Alla testa di coloro che reclamavano l’indipendenza dell’Ucraina e la creazione di un’unione di Stati sovietici indipendente, Rakovskij – che era allora un dirigente molto popolare tra le masse ucraine – si contrappose a Stalin. Essi persero, ma all’epoca la loro sconfitta fu incompleta.

Le trasformazioni dell’imperialismo russo

La direzione centrale del Partito bolscevico, diretto da Stalin, contrappose alle aspirazioni indipendentistiche una nazionalizzazione linguistica e culturale delle repubbliche non russe. In modo inatteso per i suoi promotori moscoviti, l’ucrainizzazione si trasformò in un prolungamento della rivoluzione nazionale ucraina, ravvivandola e rivitalizzandola in maniera evidente. Il processo durò quasi dieci anni, fino al 1932. Lo sterminio per fame (Holodomor) e l’annientamento dell’ucrainizzazione attraverso il terrore34 furono sia un atto costitutivo della burocratizzazione staliniana – separata dalla burocrazia termidoriana che aveva regnato fino ad allora (e che ben presto fu sterminata da quella stalininiana) – sia un atto di rinascita, ma questa volta dell’imperialismo russo militar-burocratico (35). Quest’ultimo è stato consolidato dall’unificazione dei territori ucraini (e bielorussi) in seguito alla spartizione della Polonia fra Hitler e Stalin, e all’annessione sovietica degli Stati baltici, realizzata nel 1939, ma poi confermata nel 1944, nel corso della guerra vittoriosa contro l’imperialismo tedesco. Il gigantesco saccheggio del potenziale industriale della zona sovietica d’occupazione della Germania, così come il dominio sugli Stati dell’Europa dell’Est, mantenuto in una situazione di stallo con la minaccia permanente di un intervento militare, hanno impresso questa rinascita dell’imperialismo russo (36).

La caduta improvvisa, totalmente inattesa, dell’Urss nel 1991, ha rivelato la natura di questo Stato, creato sulla base del Grande terrore di Stalin. Ciò che l’Ucraina non era riuscita a realizzare all’epoca del crollo dell’Impero zarista, è riuscita a realizzarlo all’epoca del crollo dell’Unione Sovietica. Essa è riuscita successivamente a distaccarsi, come le altre 14 principali nazioni non russe. Dichiarando la propria indipendenza, l’Ucraina ha dato un colpo decisivo all’imperialismo militar-burocratico russo. Restaurato sulle rovine dell’Urss, il capitalismo russo rimane dipendente dallo stesso monopolio non economico da cui dipendevano i modi di sfruttamento del passato e, come loro, è snaturato da questa dipendenza. Lo Stato russo protegge la proprietà privata capitalistica, ma allo stesso tempo la limita perché essa è sottoposta alla sua coercizione, proprio come la fusione del suo apparato con i grandi capitali limita e snatura la concorrenza tra loro. È così che sotto il peso di questo monopolio, in Russia hanno preso forma il capitalismo oligarchico di Stato e l’imperialismo militar-oligarchico.

L’imperativo della riconquista

Tuttavia, questo stesso monopolio ha subìto un degrado enorme, sia pure estremamente diversificato. La Russia ha mantenuto il proprio «monopolio della forza militare» nella misura in cui, dopo il crollo dell’Urss, essa è rimasta la più grande potenza nucleare del mondo con un esercito enorme. Al contrario, il suo monopolio «del territorio immenso e del particolare vantaggio di predare» gli altri popoli è profondamente in declino. Come ha osservato Zbigniew Brzezinski [1928-2017] dopo il crollo dell’Urss, le frontiere della Russia sono arretrate in modo spettacolare «ai confini da cui era uscita in un passato ormai lontano. Nel Caucaso, si è fermata alle frontiere dell’inizio del XIX secolo, in Asia centrale, a quelle fissate alla metà dello stesso secolo, e -ancor più doloroso – essa ha ritrovato all’ovest le dimensioni raggiunte alla fine del regno di Ivan il Terribile, verso il 1600». L’aspetto più grave è che «senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero in Eurasia. E per quanti sforzi possa fare per mantenere una tale posizione, il centro di gravità ne risulterebbe comunque spostato, e un simile impero essenzialmente asiatico sarebbe condannato a indebolirsi». Brzezinski aveva ragione quando scriveva che «per Mosca, al contrario, ristabilire il controllo sull’Ucraina – un Paese di cinquantadue milioni di abitanti, dotato di numerose risorse e di un accesso al Mar Nero – significa assicurarsi i mezzi per tornare a essere uno Stato imperiale potente, esteso sull’Europa e sull’Asia» (37). Per questo l’imperialismo russo si è lanciato nella riconquista dell’Ucraina, dove è in gioco il suo stesso destino.

*Zbigniew Marcin Kowalewski è polacco e conduce lavori di ricerca sulla storia dei movimenti rivoluzionari e del movimento operaio, sulla questione nazionale e sui poteri burocratici. Questo articolo è la versione ampliata e rivista dall’Autore dell’articolo apparso originariamente in polacco in Le Monde diplomatique – Edycja polska n. 2 (174), marzo-aprile 2022 e in traduzione francese in Inprecor n. 695/696, marzo-aprile 2022. Traduzione dal francese di Antonella Marazzi per www.utopiarossa.blogspot.com.

1I. Banac (a cura di), The Diary of Georgi Dimitrov, 1933-1945, Yale University Press, New Haven-London 2003, p. 65.

2V.I. Lenin, «Il fallimento della II Internazionale», in Opere XXI, Ed. Riuniti, Roma 1966, p. 205n.

3С.А. Нефедов, «Реформы Ивана III и Ивана IV: османское влияние», Вопросы истории [S.A. Nefedov, «Le riforme d’Ivan III e Ivan IV: l’influenza ottomana», Voprosy istorii] n. 11, 2002, pp. 30-53.

4С.А. Нефедов, «Реформы Ивана III и Ивана IV: османское влияние», Вопросы истории [S.A. Nefedov, «Le riforme d’Ivan III e Ivan IV: l’influenza ottomana», Voprosy istorii] n. 11, 2002, pp. 30-53.

5Л.В. Милов, Великорусский пахарь и особенности российского исторического процесса, Росспен [L.V. Milov, L’aratore granderusso e le particolarità del processo storico russo, Rosspen], Moskva 2001, p. 7.

6Ibidem, pp. 554-6.

7Ibid., p. 556.

8Ibid., pp. 481-2, 556.

9Ibid., p. 566.

10Л.В. Милов, «Особенности исторического процесса в России», Вестник Российской Академии наук [L.V. Milov, «Particolarità del processo storico in Russia»] a. 73, n. 9, 2003, p. 777.

11А. Эткинд-Д. Уффельманн-И. Кукулин, «Внутренная колонизация России: Междупрактикойи воображением», [А. Etkind-D. Uffelmann-I. Koukouline, «La colonizzazione interna della Russia: tra pratica e immaginazione»], in Id. (a cura di), Там, внутри. Практики внутренней колонизации вкультурной истории России, Новое литературное обозрение [Lì, all’interno. Pratiche di colonizzazione interna nella storia culturale della Russia, Novoe literatournoe obozrenie], Moskva 2012, pp. 10, 12.

12A. Etkind, Internal colonization. Russian imperial experience, Polity, Cambridge-Malden 2011, p. 26.

13Ibidem, pp. 61-71; A. Etkind, «How Russia “colonized itself”. Internal colonization in classical Russian historiography», International Journal for History, Culture and Modernity, a. 3, n. 2, 2015, pp. 159-72.

14Л.В. Милов, op. cit., p. 777.

15В.В. Алексеев, «Протоиндустриализация на Урале» [V.V. Alekseev, «Protoindustrializzazione nell’Ural»], in Экономическая история России XVII–XXвв: Динамика и институционально-социокультурная среда, УрО Rан [Storia economica della Russia nei secc. XVII–XX.Dinamica e ambiente istituzionale e socioculturale, UrO Rаn], Ekaterinburg 2008, pp. 63-94.

16L. Trotsky, «La questione nazionale», in Storia della rivoluzione russa (1930), Sugar, Milano 1964, pp. 926-7.

17М. Воейков, «Великая реформа и судьбы капитализма в России (к 150-летию отмены крепостного права)», Вопросы экономики [М. Voeikov, «La Grande riforma e il destino del capitalismo in Russia (in occasione del 150° anniversario dell’abolizione del servaggio)», Voprosy ekonomiki] n. 4, 2011, pp. 135, 123, 136.

18V.I. Lenin, «Il socialismo e la guerra», in Opere XXI, cit., p. 279, e Imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere XXII, Ed. Riuniti, Roma 1966, p. 259.

19V.I. Lenin, «L’imperialismo e la scissione del socialismo», in Opere XXIII, Ed. Riuniti, Roma 1965, p. 113.

20Cfr. Z.M. Kowalewski, «Impérialisme russe», Inprecor, n. 609/610, ott.-dic. 2014, pp. 7-9 [«Imperialismo russo», in www.utopiaross…].

21Г. Сафаров, Колониальная революция (Опыт Туркестана), Госиздат [G. Safarov, Rivoluzione coloniale (L’esperienza del Turkestan), Gosizdat], Moskva 1921, p. 72. Quest’opera fondamentale per lo sviluppo del pensiero anticoloniale, proibita e condannata all’oblio eterno da Stalin, è riapparsa solo nel 1996 in Kazakistan. Sul piano internazionale, rimane a tutt’oggi un’opera praticamente sconosciuta.

22П. Христюк, Замітки і матеріали до історіï украiнськоï революціï 1917-1920 рр., IV, Український соціологічний інститут [P. Christiuk, Note e materiali per la storia della rivoluzione ucraina del 1917-1920 IV, Istituto ucraino di sociologia], Wien 1922, p. 173.

23R. Luxemburg, La Rivoluzione russa, Massari editore, Bolsena 2004, p. 67.

24Cit. da П. Кравчук, «Під прово домблагородних ідей (6)», Життя і Слово (Toronto) [P. Kravčuk, «Sotto la direzione delle idee nobili (6)», Žyttja i Slovo] n. 26 (183), 1969, p. 18. Il testo di questo discorso è andato perduto e lo si conosce solo grazie ai riferimenti della stampa d’epoca. Si veda R. Serbyn, « Lénine et la question ukrainienne en 1914. Le discours “séparatiste” de Zurich », Pluriel-débat, n. 25, 1981, pp. 83-4.

25Cfr. Z.M. Kowalewski, « L’indépendance de l’Ukraine : préhistoire d’un mot d’ordre de Trotsky», Quatrième Internationale, n. 2/3, maggio-luglio 1989, pp. 81-99.

26В. Ленин, Неизвестные документы. 1891-1922 гг., Росспен [V.I. Lenin, Documenti inediti. 1891-1922, Rosspen], Moskva 2000, p. 306.

27V.I. Lenin, «Conclusioni al dibattito sul Programma del Partito» [VIII Congresso del Pcr(b), 19 marzo] in Opere XXIX, Ed. Riuniti, Roma 1967, p. 175.

28V.I. Lenin, «Lettera agli operai e ai contadini dell’Ucraina in occasione delle vittorie riportate su Denikin» [28 dicembre 1919], in Opere XXX, Ed. Riuniti, Roma 1967, pp. 260, 262, 264.

29В.И. Ленин, Неизвестные документы, p. 30 Id., «Проект резолюции об украинской партии боротьбистов» e «Замечания к резолюции исполнительного комитета коммунистического Интернационала по вопросу о боротьбистах”, Полное собрание сочинений, XL, Политиздат [«Progetto di risoluzione sul Partito ucraino dei borotbisti» (6 febbraio 1920), e «Osservazioni sulla risoluzione del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista sui borotbisti» (22 febbraio 1920), entrambi in Opere, XLII, Ed. Riuniti, Roma 1968, pp. 150 e 156.]

30«Лист представників української комуністичної організації при Московському комітеті РКП(б) до ЦК РКП(б) та особисто Леніна з аналізом та оцінкою політики Комуністичної партії в Україні у 1919 р.» [Lettera dei rappresesntanti dell’organizzazione comunista ucraina inviata al Comitato di Mosca del Pcr (b), al Cc del Pcr (b) e personalmente a Lenin, con u’analisi e una valutazione della politica del Partido comunista in Ucraina nel 1919], in Г. Єфіменко, Взаємовідносини Кремля та радянської України: економічний аспект (1917-1919 рр.), Інститут історії України Нah України [H. Yefrimenko, I rapporti tra il Cremlino e l’Ucraina sovietica: l’aspetto economico (1917-1919), Instytut Istorii Ukraiiny Nan Ukraiiny], Kyïv 2008, pp. 191-2.

31Le circostanze e il processo di autoscioglimento del Pcu(b) sono stati esaminati da Д.В. Стаценко, «Самоліквідація осередків Української комуністичної партії (боротьбистів) у 1920-році (на прикладі Полтавщини)», Iсторична пам’ять. Науковий збірник [D.V. Statsenko, «Autoliquidazione del Partito comunista ucraino (borotbista) nel 1920 (sull’esempio della regione della Poltava)», Istorična pam’yat’. Naoukovij zbirnik] a. 29, 2013, pp. 58-70.

32Lenin, «Conclusioni sul Rapporto del Comitato centrale» [IX Congresso del Pcr(b), 30 marzo 1920], in Opere XXX, cit., p. 426.

33Sono parole di Mykola Skrypnyk [1872-1933] uno dei principali dirigenti dei bolscevichi ucraini. Двенадцатый съезд РКП(б). 17-25 апреля 1923 года. Стенографический отчёт, Политиздат [Dodicesimo Congresso del Pcr(b), 17-25 aprile 1923. Rapporto stenografato, Politizdat], Moskva 1968, pp. 571-2.

34L’analisi più precisa di questo evento è stata fornita da Andrea Graziosi: «Les famines soviétiques de 1931-1933 et le Holodomor ukrainien. Une nouvelle interprétation est-elle possible et quelles en seraient les conséquences ?», Cahiers du monde russe, a. 46, n. 3, 2005, pp. 453-72. [«Le carestie sovietiche del 1931-33 e il Holodomor ucraino. È possibile una nuova interpretazione e quali sarebbero le sue conseguenze?» (www.sissco.it/…). Si veda anche Ettore Cinnella, Ucraina. Il genocidio dimenticato, Della Porta, Pisa 2015, di cui è stato fornito un estratto («Ucraina 1») in utopiarossa.blogspot.com/2022/03/ucraina-1-il-genocidio-dimenticato.html (n.d.r.).]

35Cfr. Z.M. Kowalewski, « Ouvriers et bureaucrates. Comment les rapports d’exploitation se sont formés et ont fonctionné dans le bloc soviétique », Inprecor, n. 685/686, maggio-giugno 2021, pp. 35-61.

36Cfr. D. Logan [J. van Heijenoort], « L’explosion de l’impérialisme bureaucratique », Quatrième Internationale, febbraio 1946, pp. 5-10.38

37Z. Brzezinski, Grand Chessboard: American Primacy And Its Geostrategic Imperatives, 1998.