Antimilitarismo e lotte a difesa dell’ambiente: due facce della stessa medaglia

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La guerra dichiarata da Putin all’Ucraina a  partire dal 2014  con l’annessione della Crimea, l’invio di truppe militari nel Donbass e la recente invasione dello scorso 24 febbraio, hanno riportato con forza il tema dei danni ambientali enormi che qualsiasi conflitto porta con sé.

Molti specialisti affermano che questi danni provocheranno, sul medio/lungo periodo, più vittime della guerra stessa.

Nella Francia del Nord-Est, a titolo d’esempio, ci sono zone agricole dove ancora oggi vengono portate alla luce enormi quantità di rottami d’artiglieria. Dopo 104 anni dalla fine del primo conflitto mondiale, vengono distrutte in quella regione in media 467 tonnellate di proiettili e bombe non esplose ogni anno e tanti residuati devono ancora essere scoperti (dati Groundsure, società britannica specializzata sui rischi ambientali). Si stima che nella Francia settentrionale, il 30% dei proiettili sparati sia rimasto inesploso. Hanno dunque più di un secolo, ma rimangono carichi di sostanze tossiche e mortali. La stessa situazione vale per zone della Germania e del Belgio. Addirittura ci sono aree pianeggianti agricole dove furono combattute sanguinose battaglie che ancora oggi non hanno ritrovato la loro originale funzione. Non si può infatti ancora coltivare perché il suolo rimane contaminato da metalli pesanti e residui di armi chimiche (dati Conflict and Environment Observatory, centro che monitora le conseguenze ambientali dei conflitti armati e delle attività militari).

Evidentemente più ci si avvicina ai nostri giorni e più queste situazioni tendono a peggiorare, vuoi per la maggiore vicinanza temporale, vuoi per le armi sempre più sofisticate e pericolose usate.

Parliamo, per intenderci bene, di materiali presenti in quantità nei terreni quali: piombo, rame, zinco, arsenico, solventi clorurati, esplosivi nitro aromatici.  Le prove di queste contaminazioni sono ancora incomplete in quanto diversi governi hanno imposto restrizioni nell’accesso al materiale relativo alle guerre e di solito vige una grande segretezza attorno alle operazioni militari.

In questi ultimi anni alle sostanze già citate si è aggiunto l’uranio impoverito, utilizzato in grandi quantità in quanto permette di provocare gravi danni alle corazze dei carri armati. I residui radioattivi sono spesso mortali per chi ne viene a contato, siano militari o civili.

In Italia, altro esempio, capita regolarmente di dover evacuare zone intere causa ritrovamenti bellici come mine o bombe a mano o altro ancora. Dopo la fine della seconda guerra mondiale molto di questo materiale è stato semplicemente affondato in mare, in particolare nel basso Adriatico e nel Tirreno meridionale (vedi dossier relativo di Legambiente del 2012). Molti pescatori hanno dovuto fare i conti con l’iprite, gas impiegato nelle armi chimiche rimaste impigliate nelle loro reti.

Altro esempio è quello degli aerei NATO che di ritorno dal Kosovo (1998/99) avrebbero  scaricato in mare ordigni di vario tipo in eccedenza (settimanale Avvenimenti e Legambiente) dalla laguna di Venezia fino alla Puglia.

L’attuale guerra in Ucraina, secondo il ministro degli Affari interni ucraino Monastyrsky, provoca ogni giorno un disastro ambientale. Ci vorranno molti anni, dopo la fine dell’invasione, solo per disinnescare gli ordigni inesplosi e ci sarà bisogno di sicuro dell’ aiuto internazionale. L’altro gravissimo problema è e sarà quello dell’inquinamento a lungo termine provocato dalle sostanze contenute nelle armi usate, dalla fuoriuscita di sostanze chimiche e idrocarburi dai depositi bombardati, da eventuali perdite nelle centrali nucleari. A Chernobyl, ad esempio, occupata dai russi per diverse settimane, c’è ancora il sarcofago del reattore esploso nel 1986 oltre a diverse tonnellate di rifiuti radioattivi semplicemente interrati.

Per non parlare della centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, occupata dai russi e tuttora in funzione. Le azioni di guerra e i bombardamenti hanno ormai luogo nelle immediate vicinanze e molti specialisti (oltre naturalmente a chiunque dotato di un minimo di buonsenso) temono che possa prima o poi verificarsi un errore o una provocazione e scatenare una reazione a catena incontrollabile. Sarebbe un disastro infinitamente più grave di Chernobyl.

Il magazine on-line “Scienzainrete.it” ha recentemente pubblicato un articolo dal titolo “Ordigni inesplosi: un’eredità pesante per l’Ucraina”. Vi si descrive il danno delle armi inesplose che rimangono nel terreno. Si tratta di quantità notevoli.

Nello stesso articolo si descrive l’impatto sull’ambiente come “sbalorditivo” e si ipotizzano decenni prima che l’Ucraina e il mondo intero possano riprendersi da questo danno ambientale globale.

Dati recenti sulla guerra nel solo Donbass stimano la distruzione di 500 mila ettari di ecosistemi e  di 150 mila ettari di foreste.

Altre stime valutano che un mese di guerra in Ucraina potrebbe produrre emissioni di anidride carbonica nell’aria pari a quelle emesse per un anno intero da città come Bologna e Firenze. E i mesi di guerra sono già sette.

Un altro elemento direttamente collegato ai danni ambientali provocati dalle guerre è quello relativo al consumo stratosferico di risorse energetiche e da fonti fossili. Per avere un’idea basti considerare che un carro armato consuma qualche cosa come 400/450 litri di combustibile per ogni 100 Km percorsi e immette nell’aria circa una tonnellata di CO2. Il serbatoio di un F35 contiene circa 8400 Kg di carburante e produce mediamente un totale di 21 mila kg di anidride carbonica (Il Fatto Quotidiano).

Le guerre incidono dunque pesantemente sui cambiamenti climatici e chi le scatena, o solo le prepara, si rende responsabile di questo scempio, oltre a quello dei disastri che toccano direttamente le persone, civili e militari.

L’esercito degli Stati Uniti, per la precisione il Dipartimento della Difesa USA, è l’ente nazionale che inquina di più a livello mondiale. Produce più rifiuti pericolosi delle cinque più grandi compagnie chimiche USA messe assieme (Whitney Webb, articolo pubblicato su EcoWatch).

Alcuni dati sono impressionanti: il responsabile del programma ambientale del Pentagono riconosceva nel 2014 che il suo ufficio aveva a che fare con 39 mila aree contaminate su territorio statunitense per circa 19 milioni di acri di terreno. In queste zone è particolarmente presente il perclorato e altri componenti del carburante utilizzato per jet e razzi. Questo veleno contamina fonti d’acqua potabile, falde e suolo. Naturalmente per le opere di bonifica si fa largo uso di sovvenzioni da parte del governo. Cittadine e cittadini pagano dunque due volte, la prima per finanziare l’acquisto di queste armi e poi la seconda per garantire un minimo di bonifica dopo i disastri ambientali. Bisogna inoltre considerare che gli Stati Uniti hanno centinaia di basi militari sparse un po’ dappertutto nel mondo. Anche qui naturalmente l’opera di distruzione sistematica dell’ambiente non ha conosciuto tregua. Nella base militare USA di Kadena a Okinawa (Giappone), l’acqua potabile locale è stata fortemente contaminata dalla presenza di una della maggiori basi militari USA del Pacifico (circa 22 mila militari), nelle isole Marshall l’esercito USA ha sganciato ordigni nucleari per diversi anni nel periodo post seconda guerra mondiale e ancora oggi quelle popolazioni hanno tassi di cancro estremamente elevati. La guerra in Irak (2003-2011) ha comportato la desertificazione di una parte importante del territorio, impedendo di fatto l’utilizzo a scopi agricoli e obbligando il Paese ad importare buona parte del suo fabbisogno alimentare.

Ma pure in tempo di pace le attività militari provocano importanti effetti sul clima. Molti governi non forniscono dati sulle misurazioni delle emissioni di gas a effetto serra del rispettivo settore militare. Tra questi troviamo Paesi come la Russia, la Cina, la Turchia (Paese NATO e secondo per importanza). Si valuta che il settore militare europeo emette circa 25 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, l’equivalente di circa 14 milioni di auto oppure il 10% delle emissioni globali dell’Italia (R. Mezzalama, esperto ambientale, Emergency). Le esercitazioni che anche in tempo di pace i vari settori militari compiono, implicano il consumo di grandi quantità di combustibili. L’aviazione, ad esempio, costerà ai contribuenti statunitensi per il 2022 circa 5 miliardi di dollari in solo carburante.

È dunque evidente che aumentare le spese militari anche in tempo di pace ha un effetto molto negativo sul clima.

L’invasione russa dell’Ucraina è stata la ghiotta occasione che tutto il settore degli armamenti non si è lasciato sfuggire. In quasi tutti i Paesi europei nuovi piano di riarmo sono stati presentati. Piani miliardari che fanno sognare l’industria bellica e garantiranno immensi guadagni. Appena tre giorni dopo l’inizio dell’invasione russa, il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato un piano di riarmo da 102 miliardi di euro subito e in più l’impegno a raggiungere il 2% del PIL annuale per le spese correnti militari (ciò che chiede ai propri membri la NATO). È molto difficile immaginare che prima dell’invasione non ci fosse nessuna intenzione di riarmarsi, forse mancava solo un “valido” motivo. Con questi investimenti la Germania tornerà una potenza mondiale militare di primo piano con un Governo rosso-verde… La Merkel non avrebbe osato tanto!

Evidentemente le frizioni interne all’Occidente, le critiche allo strapotere americano, il ruolo della Francia, la dipendenza energetica dal gas russo e altro ancora, hanno inciso su questa svolta militare. Il clima, ancora una volta, ringrazia. Ormai, da più parti, si invoca una maggiore presenza europea sullo scacchiere mondiale, un’Europa meno succube delle potenze mondiali e maggiormente reattiva di fronte alle crisi che a ritmi sempre più serrati esplodono e quindi l’esigenza di avere un vero esercito europeo viene riproposta con vigore. Si tratta di ripartirsi una ghiotta torta e una volta trovato un accordo politico/economico tutti procederanno in questa direzione.

Prima dell’estate ci eravamo occupati della scandalosa richiesta della borghesia svizzera di aumentare le spese militari. Il progetto prevede un aumento da 5 a 7 miliardi ogni anno. Significa spendere per l’esercito svizzero l’1% del nostro PIL. Non dubitiamo che si andrà in questa direzione e addirittura, forzando i tempi e senza nessuna considerazione per i diritti popolari, la consigliera federale Amherd ha già dato praticamente per scontata la firma del contratto per l’acquisto degli F35 americani. Questo indipendentemente dalla consegna di un’iniziativa popolare corredata da 120 mila firme contrarie . Cittadine e cittadini verranno così privati del diritto di esprimersi su questo acquisto. La stessa Amherd, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, aveva chiesto addirittura agli iniziativisti di stoppare e ritirare l’iniziativa. La spesa prevista per 36 di questi cacciabombardieri  ammonta a 6,035 miliardi di franchi.

A livello di impatto ambientale anche l’esercito svizzero non è da meno degli altri eserciti. I materiali e le armi utilizzate per decenni e decenni hanno lasciato una scomoda eredità. Ancora alla fine del 2010, nel lago di Thun ad esempio, si calcolava che circa 3 mila tonnellate di materiale bellico erano state semplicemente scaricate in acqua tra il 1940 e il 1963. Sul fondale di questo piccolo lago c’erano dunque materiali tossici e pericolosi. Uffici d’ingegneria specializzati hanno valutato circa 8 mila i luoghi sensibili di essere stati inquinati e di questi 2500 sono stati ritenuti “realmente inquinati” (catasto dei siti inquinati DDPS/Dip. federale della difesa). Il cantone più colpito all’epoca dello studio era Berna, seguito da Ticino , Friburgo, Vaud, Zurigo e San Gallo. Un’ordinanza del 1998 concernente i siti inquinati, imponeva al DDPS di ispezionare e di procedere, laddove fosse necessario, alla bonifica dei terreni e impianti. Questa operazione era prevista su un lasso di tempo di 25 anni con un costo di 1 miliardo. Il portavoce del dipartimento  affermava nel 2010 che soltanto il 20% dei siti analizzati necessitava di una bonifica. Naturalmente non è dato sapere quali parametri venivano utilizzati per definire la necessità della bonifica. Ad esempio nel lago di Thun, dove i costi erano stimati eccessivi e il pericolo di manipolare materiale bellico reale, la bonifica era giudicata irrealizzabile e così nel 2008 si rinunciò, nonostante le forti proteste di ambientalisti e pescatori.

Oggi più che mai, anche in Svizzera, battersi per impedire il riarmo prospettato dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, è una necessità anche ambientale. Si tratta di recuperare e riprendere quella tradizione antimilitarista che ha permesso, a partire dal 1982 con la nascita del Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE), di mettere addirittura in discussione l’esistenza dell’esercito. Nella votazione del 1989 il 35,6% della popolazione accettò l’idea di abolire l’esercito e negli anni successivi, pur con meno forza, altre votazioni  permisero di mantenere all’ordine del giorno il dibattito sull’esercito. Certamente in questi ultimi anni i movimenti antimilitaristi svizzeri hanno perso quella carica e quella capacità di mobilitare le piazze. La guerra scatenata da Putin in Ucraina, con le sue conseguenze umane e ambientali, deve servirci da stimolo per rilanciare l’antimilitarismo e collegarlo alle lotte sociali per la difesa dell’ambiente. I movimenti ambientalisti e antimilitaristi hanno un terreno comune e devono mostrarlo attraverso campagne unitarie. Il prospettato aumento delle spese militari in Svizzera, la probabile firma per l’acquisto degli F35 prima dell’esito del voto popolare, i tentativi di introdurre concetti quali “neutralità cooperativa”, che tradotto significa un ulteriore avvicinamento alla NATO, impongono lotte comuni.

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