A più di tre settimane dalla morte [il 16 settembre] della ventiduenne Mahsa Ahmini per aver disobbedito alle dure leggi iraniane che impongono di indossare l’hijab – o velo islamico – le proteste continuano a imperversare nelle strade di ogni grande città. Sabato 8 ottobre, i manifestanti sono persino riusciti a penetrare nel più importante canale di informazione iraniano per trasmettere il loro messaggio a tutto il Paese.
Un programma che mostrava la Guida Suprema, Ali Khamenei, che si riuniva con funzionari statali, è stato sostituito con un filmato che mostrava l’uccisione di manifestanti donne nell’ambito della violenta repressione della rivolta iraniana. Il canto popolare “Donna, Vita, Libertà”, che è diventato lo slogan delle proteste, è stato incorporato in una canzone, di cui è stato trasmesso un estratto, insieme all’invito agli spettatori a “unirsi a noi e sollevarsi”.
Si stima che 185 persone, tra cui almeno 19 bambini, siano state uccise da quando il 16 settembre è stata annunciata la morte di Mahsa Amini. Secondo quanto riferito, sono stati uccisi anche 14 membri delle forze di sicurezza iraniane.
Le “proteste per l’hijab” si sono evolute dalla rabbia delle femministe iraniane nei confronti dell’oppressiva polizia morale del Paese al desiderio generale di resistere e sfidare la stessa Repubblica Islamica. Sono stati segnalati scioperi diffusi in diverse città.
Esistono analogie tra la situazione attuale e la rivoluzione del 1979 che ha rovesciato l’ultimo scià dell’Iran. Anche le donne svolsero un ruolo importante in quella rivolta, indossando l’hijab per mostrare il loro rifiuto del divieto di coprirsi il capo decretato dal padre dello scià nel 1936 – un divieto che è stato successivamente revocato, ma che rimane un simbolo della monarchia repressiva.
Ma se la rivoluzione del 1979 ha portato la tanto agognata indipendenza dall’imperialismo occidentale, ha anche consegnato il popolo iraniano a un sistema patriarcale autoritario. E l’hijab, che molte donne avevano iniziato a indossare per sfidare il regime dello Scià, è diventato rapidamente uno strumento di oppressione delle donne da parte della Repubblica islamica.
Ma l’ascesa della polizia morale della Repubblica islamica, che impone la separazione dei sessi in pubblico e sempre più in privato, ha minato la libertà di tutti, uomini e donne. Come nel 1979, le proteste sono state più forti nelle scuole e nelle università, ma ci sono segnali che si stanno diffondendo in una parte più ampia della società. Molti sono arrabbiati per la gestione dell’economia da parte del regime di fronte alle sanzioni occidentali e per l’evidente incompetenza del governo che continua su una linea intransigente a negoziare un accordo con Washington che possa mitigare l’impatto delle sanzioni.
2009: “Questa non è una rivoluzione”
Nelle ultime tre settimane mi sono state poste più volte le stesse domande che mi erano state rivolte durante le proteste di massa del 2009: “È una rivoluzione? Farà cadere il regime?”. La mia risposta deve essere critica. Nel “Movimento Verde” del 2009, centinaia di migliaia di iraniani erano scesi in piazza per protestare contro la contestata rielezione di Mahmoud Ahmedinejad. L’omicidio di una donna iraniana di 26 anni, Neda Agha-Soltan, colpita da un proiettile durante una manifestazione antigovernativa aveva scatenato l’ira della popolazione.
All’epoca scrissi un articolo per il Guardian, intitolato: “Iran: questa non è una rivoluzione” (23 giugno 2009). L’articolo evidenziava le differenze tra le proteste di massa di quell’anno e la rivoluzione del 1979 che aveva rovesciato il defunto scià. Tra le differenze segnalavo non solo il problema che i manifestanti avevano nell’indicare un “responsabile” da incolpare, ma anche il fatto che il regime era aperto a un certo grado di flessibilità e di concessioni. Lo stesso titolo potrebbe essere usato oggi per descrivere eventi recenti. E questo è ciò che suggerisce la mia riflessione.
In primo luogo, i governi sono diventati in generale più abili nell’utilizzare la tecnologia per gestire le persone. I social media sono stati ampiamente utilizzati in Iran, dove la penetrazione di Internet è elevata e una generazione di giovani esperti di tecnologia sta imparando a usare gli strumenti online per mobilitare l’opposizione. Ma la Repubblica islamica sa anche come controllare il cyberspazio, anche chi cerca di usare reti private virtuali e altre tecnologie utilizzate dagli iraniani per sfuggire alla censura.
Inoltre, a differenza del 1979, non c’è un leader carismatico pronto ad assumere un ruolo rivoluzionario. Finora si tratta di un movimento senza leader – e le rivoluzioni di solito hanno bisogno di una figura “dietro” la quale la gente sia disposta a rischiare – a modo loro, un Lenin, un Mao, un Castro o, come nel 1979, un Ayatollah Khomeini.
Val la pena comunque di aggiungere un’avvertenza. Una delle principali forze coercitive della Repubblica islamica è il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC). Se l’IRCG decidesse di rimanere nelle caserme o si rifiutasse di sparare sui manifestanti, tutto potrebbe cambiare. Questo rifiuto di provocare ulteriori spargimenti di sangue dovrebbe essere un rifiuto generalizzato, non solo una tantum.
Finora non ci sono indicazioni che ciò possa accadere. Ma la furia popolare per l’omicidio di Mahsa Amini – e la morte di molte altre giovani donne per aver chiesto giustizia e libertà – non può che minare l’edificio fatiscente della teocrazia iraniana, sempre più impopolare.
*Articolo pubblicato su The Conversation, il 10 ottobre 2022. Arshin Adib-Moghaddam è professore presso la School of Oriental and African Studies (SOAS) dell’Università di Londra. La traduzione in italiano è stata curata dal segretariato MPS