Le due ultime settimane ci hanno riservato delle belle mobilitazioni in Ticino.
Dapprima è toccato ai dipendenti del settore pubblico e parapubblico in lotta per la difesa delle loro pensioni contro una nuova proposta di taglio del 20% che si andrebbe ad aggiungere a quella (pure del 20%) subita dieci anni fa. Per la stragrande maggioranza del personale del Cantone, di Comuni ed Enti pubblici vari, della SUPSI, degli aiuti domiciliari, etc. si tratterebbe del 40% in una quindicina d’anni: più che logico che si siano mobilitanti più di 3’000 per dire basta!
Poi, negli scorsi giorni, è toccato agli edili che hanno organizzato una giornata di sciopero e una manifestazione a Bellinzona (anche qui con una forte partecipazione – attorno ai 3’000 lavoratori) nel quadro della mobilitazione per il rinnovo del loro contratto nazionale mantello (CNM) in scadenza a fine anno.
Una giornata di lotta che vorrebbe dare uno scossone alle trattative per il rinnovo del Contratto nazionale mantello (CNM) del settore bloccate ormai da parecchie settimane. Tra le rivendicazioni più importanti un aumento di 260 franchi mensili, oltre che alcuni miglioramenti relativi alle condizioni di lavoro (tempo di viaggio dal punto di raccolta al cantiere come tempo di lavoro, lavoro in caso di intemperie, etc.) e, soprattutto, il rifiuto padronale di una maggiore flessibilità del tempo di lavoro giornaliero e settimanale.
Vedere lavoratori del settore pubblico e privato così determinati deve darci almeno tre indicazioni. La prima è che le condizioni di lavoro dei due settori tendono a peggiorare e ad essere livellati verso il basso. Non a caso la lotta dei pensionati del Cantone contro la diminuzione del tasso di conversione (e quindi di una diminuzione delle rendite) trova il corrispettivo nell’offensiva in atto a livello federale con il progetto di modifica della LPP che vorrebbe diminuire il tasso di conversione legale dal 6,8 al 6%: una diminuzione del 12% delle rendite.
La seconda riguarda le condizioni di lavoro. Se le rivendicazioni sono diverse (da un lato si contesta la eccessiva flessibilità, dall’altra la mancanza di personale e del tempo necessario per svolgere in modo adeguato il proprio lavoro), alla radice vi è la stessa preoccupazione contro un degrado delle condizioni di lavoro che ha pesanti conseguenze dal punto di vista della salute fisica e mentale.
La terza considerazione, decisiva, riguarda le divisioni, presunte e reali, tra i lavoratori del settore pubblico e quelli del privato, tra “privilegiati” e no; o, ancora, tra “indigeni “ e “frontalieri”.
Quante volte abbiamo sentito affermare che in Ticino è difficile mobilitarsi perché i frontalieri “concorrenti” accettano di tutto, non sono disposti, per paura, a mobilitarsi. Ebbene, da ormai diversi anni il settore dell’edilizia, pertanto a grandissima maggioranza frontaliera, dimostra la volontà e la disponibilità dei lavoratori a mobilitarsi.
E la mobilitazione del settore pubblico sta dimostrando che anche questi lavoratori, considerati “privilegiati”, sono ben disposti a mobilitarsi in difesa dei propri diritti e delle proprie condizioni di lavoro.
Alla luce di queste considerazioni, appare necessario lavorare verso una convergenza di queste lotte, pensare ad una prospettiva comune di mobilitazione tra lavoratori e lavoratrici del settore pubblico e privato.
I temi comuni (a cominciare da pensioni e salari) ci sono; la disponibilità, a gradi diversi, pure. Forse manca la consapevolezza delle direzioni sindacali che dovrebbero cominciare a guardare più lontano e con una maggiore larghezza di vedute.