Il Brasile, le brasiliane e i brasiliani democratici e progressisti, i poveri, le donne povere, il popolo nero, la comunità LGBTQ, le comunità indigene, tutti questi hanno tirato un sospiro di sollievo verso le 18,30 di domenica pomeriggio (ora locale, le 22,30 il Italia), quando i risultati elettorali che pervenivano al Tribunale Superiore Elettorale (TSE) hanno invertito i primi dati che sembravano indicare Jair Bolsonaro come vincente nel secondo turno delle presidenziali.
Poi, via via la maggioranza “lulista” si è consolidata ed è riuscita ad indicare (verso le 20, corrispondente alla mezzanotte italiana) il prevalere definitivo, “matematico” di Luiz Inácio Lula da Silva nella corsa al palazzo del Planalto, la sede della presidenza della repubblica brasiliana a Brasilia.
Le strade delle principali metropoli (ma ci dicono che fenomeni analoghi sono accaduti anche in tantissime piccole città) si sono riempite di cortei festosi. L’incubo di un altro quadriennio con Bolsonaro presidente è scongiurato.
Particolarmente imponente è stata la manifestazione svoltasi a Sao Paulo nella centralissima Avenida Paulista, dove centinaia di migliaia di persone hanno festeggiato la vittoria e ascoltato il discorso di Lula, tutto incentrato sulla necessità della “pacificazione” del paese dopo i quattro anni di presidenza di Bolsonaro: “Non ci sono due Brasile. Siamo un solo paese, un solo popolo, una sola grande nazione… La gente non vuole più combattere. Le persone sono stanche di vedere l’altro come un nemico. È tempo di deporre le armi che non avrebbero mai dovuto essere brandite”. Ha anche denunciato “la macchina dello stato brasiliano che al servizio del candidato voleva impedirci di vincere le elezioni”. Ha promesso che le principali decisioni saranno prese “dopo un ampio dialogo”: “Le grandi decisioni politiche che hanno un impatto sulla vita di 215 milioni di brasiliani non saranno prese in segreto, nel buio della notte, ma dopo un ampio dialogo con la società. Credo che i principali problemi del Brasile, del mondo, degli esseri umani, possano essere risolti con il dialogo e non con la forza bruta”.
Si è impegnato a combattere le profonde diseguaglianze: “Il Brasile non può più convivere con questo immenso divario senza fondo, questo muro di cemento e disuguaglianza che separa il paese in parti diseguali che non si riconoscono tra loro. Questo paese ha bisogno di riconoscersi e riconnettersi, è pronto a riprendere il suo ruolo di leadership nella lotta contro la crisi climatica, proteggendo tutti i nostri biomi, in particolare la foresta amazzonica”.
La giornata elettorale era stata molto tesa, punteggiata anche da notizie di preoccupanti e improvvide iniziative di alcune autorità militari. In particolare nel Nordest è stato denunciato un numero del tutto abnorme di blocchi stradali istituiti dalla Polícia Rodoviária (che non è del tutto corrispondente alla nostra polizia stradale, ma che si occupa a 360° gradi dell’ordine pubblico, assieme alle altre gendarmerie), blocchi stradali che stavano intralciando il regolare afflusso degli elettori nelle 472.075 sezioni elettorali. Il fatto che tale operazione fosse particolarmente imponente proprio nel Nordest, in cui tradizionalmente l’elettorato è orientato a sinistra, ha fatto insospettire tanti e lo stesso entourage di Lula, che ha interessato dell’affare lo stesso TSE, che infatti ha convocato il comandante della Rodoviária.
Ma poi, sembra che tutto sia andato avanti nel pieno rispetto delle regole, com’è stato confermato nella conferenza stampa conclusiva della presidente del Supremo Tribunale Federale, Rosa Weber.
L’entusiasmo dei manifestanti dunque era del tutto legittimo. Al di là degli stessi episodi sospetti della giornata del voto, la sinistra brasiliana aveva dovuto digerire la delusione del fatto che Lula non avesse vinto al primo turno (per poco meno di 2 milioni di voti), poi la rimonta di Bolsonaro nei sondaggi, le ambiguità rispetto al secondo turno dei candidati minori esclusi dal ballottaggio e, infine, i primi dati effettivi che davano Bolsonaro in vantaggio.
Ma, nonostante il risultato del tutto positivo, la situazione del Brasile è tutt’altro che rosea.
Il voto ci consegna l’immagine di un paese spaccato sostanzialmente a metà. I 118,5 milioni di voti validi (senza tenere conto dei poco meno di 6 milioni di voti nulli o bianchi) si sono distribuiti quasi equamente tra i due candidati: 60.345.999 a Lula (50,90%) e 58.206.354 a Bolsonaro (49,10%). Sono state le elezioni presidenziali più combattute dal ritorno della democrazia nel Brasile, dopo il ventennio di dittatura militare.
C’è inoltre da notare che Lula ha incrementato i voti del primo turno di “soli” 3 milioni di voti, mentre Bolsonaro ne ha conquistati oltre 7 milioni, ad indicare come la grandissima parte dell’elettorato borghese che al primo turno aveva scelto i candidati centristi al secondo si è polarizzata sul candidato di estrema destra.
E’ anche significativo come il voto non sia affatto distribuito omogeneamente nei 26 stati (più il distretto federale di Brasilia) che compongono la Federazione brasiliana: si va dal 76,86% raccolto da Lula nel Piauì nordestino al 30,73% raccolto nello stato del Sud Santa Catarina (ancora peggio nei piccoli stati amazzonici Roraima, 23,92%, Acre, 29,70% e Rondonia, 29, 34%, tutti pesantemente segnati dall’agrobusiness e dalle attività estrattive). Preoccupante è anche che nelle zone economicamente più sviluppate del paese (Sao Paulo, Rio de Janeiro, Rio Grande do Sul…), dove si concentra molta classe lavoratrice industriale ma anche molta “classe media”, Lula non abbia superato il 45% dei suffragi.
Bolsonaro, almeno per il momento si è chiuso in un totale mutismo rifiutando di concedere qualunque dichiarazione o qualunque commento sui risultati. Per il momento per lui parlano solo le clamorose proteste messe in atto dalle associazioni dei camionisti, tutte tifose di Bolsonaro, che hanno bloccato almeno 70 strade o autostrade statali in vari punti del paese.
Così, Luiz Inácio Lula da Silva sarà di nuovo presidente del Brasile dal 1° gennaio 2023. Torna alla presidenza dopo 12 anni. E’ la prima volta che un presidente uscente non viene rieletto per un secondo mandato.
Com’è noto, Lula aveva scelto come vicepresidente, a garanzia per i settori sociali tradizionalmente a lui contrari (le imprese e l’agrobusiness, soprattutto), Geraldo Alckmin, un esponente del centrodestra che per più di trent’anni ha diretto il Partito della socialdemocrazia brasiliana (PSDB, di destra).
Dunque, la nuova presidenza di Lula, se non ci saranno sorprese bolsonariste nelle prossime settimane, si troverà a dover fare i conti con un panorama sociale estremamente complesso.
- la fame che è tornata a caratterizzare ampie regioni (33 milioni di persone che soffrono la fame);
- il reddito medio delle lavoratrici e dei lavoratori che durante la presidenza Bolsonaro è tornato ai livelli del 2014, creando ulteriori distorsioni nell’economia nazionale e facendo sì che il 24% delle famiglie brasiliane denunciano di non aver in casa cibo sufficiente a sfamare i loro componenti;
- le imprese tradizionalmente di proprietà dello stato (in particolare il gigante dell’energia Petrobras) che, privatizzate, non riescono più ad avere un ruolo propulsivo nell’economia e nella creazione di posti di lavoro.
Lula si è impegnato ad affrontare tutti questi nodi, ma in un contesto politico tutt’altro che favorevole:
- un bolsonarismo estremamente forte, espressione di una borghesia brasiliana che nella corsa a “far crescere il paese” non vuole dover mediare con i bisogni delle masse e di una piccola borghesia (i “ceti medi”) incattivita e in preda alle peggiori ideologie reazionarie;
- una buona metà del paese che non trae alcun insegnamento dai frutti avvelenati che lascia il quadriennio bolsonarista (quasi 700.000 morti per Covid, un sistema sanitario devastato dalla privatizzazione, una stagnazione economica che ha collocato la dinamica del PIL brasiliano agli ultimi posti nel mondo, un ambiente deturpato dagli incendi, dalla deforestazione, dall’agricoltura estensiva…);
- una democrazia estremamente fragile, con una destra in collegamento fortissimo con i vertici delle forze armate, impregnate di un viscerale anticomunismo e di un brutale antiegualitarismo;
- un parlamento nel quale le forze di sinistra sono estremamente deboli (su 513 deputati, il Partido dos Trabalhadores ne ha 56, 8 ciascuno il Partido do Socialismo e Liberdade e il Partido Comunista), con una forte presenza della destra a prevalenza bolsonarista (quasi la metà dei deputati), che obbligherà Lula a dipendere dall’assenso dei numerosi notabili centristi presenti;
- una maggioranza di destra tra i governatori degli stati (15 di destra e solo 11 di sinistra), governatori che, secondo la costituzione hanno larghissimi poteri;
- un PT profondamente diverso da quello che nacque nel 1980. Anche se ancora denuncia di avere oltre 1,5 milioni di iscritti, il partito è da anni dominato da un ceto politico totalmente subalterno alla ideologia social-liberale, largamente devastato da innumerevoli casi di corruzione e da una gestione caudillista;
- l’emendamento costituzionale 95 (introdotto nel 2016, in vigore fino al 2036), il cosiddetto “tetto di spesa” che prevede un limite agli aumenti di spesa pubblica legato all’indice IPCA (Indice dei prezzi al consumo esteso).
La vittoria di Lula ha subito riscosso il plauso degli altri presidenti di sinistra o di centrosinistra latinoamericani, quello cileno Gabriel Boric, quello colombiano Gustavo Petro, quello peruviano Pedro Castillo, quello dell’Argentina Alberto Fernández, della Bolivia, Luis Arce, oltre ad alcuni ex-presidenti, quello dell’Ecuador Rafael Correa, della Bolivia Evo Morales. Anche il presidente cubano Miguel Díaz-Canel si è felicitato con Lula su Twitter.
Dagli Stati Uniti, il presidente Joe Biden si è congratulato con Luis Inácio Lula da Silva, sottolineando, forse anche per mettere in guardia Bolsonaro dal tentare inopportuni colpi di mano, come le elezioni siano state “libere, eque e credibili”.
Sono noti i legami tra Bolsonaro e la destra internazionale, compresa quella postfascista italiana. Oltre la comune cultura reazionaria, il legame è stato reso più solido dall’attivismo di Emerson Fittipaldi, l’ex campione automobilistico brasiliano di origini lucane, militante di Fratelli d’Italia, intimo amico della famiglia del presidente brasiliano uscente.
Giorgia Meloni, nel 2018, aveva salutato l’elezione di Jair Bolsonaro con queste parole entusiaste: “Con Bolsonaro si apre finalmente una falla nella rete dell’internazionale radical chic. La destra vince anche in Brasile, la sinistra sconfitta in tutto il pianeta e dalla storia. Finalmente i popoli si stanno riprendendo la loro libertà e la loro sovranità”. E il figlio del presidente, Eduardo Bolsonaro, dopo il successo dello scorso 25 settembre, l’aveva ricambiata con il tweet: ”La nuova premier italiana è Dio, patria e famiglia”.
Invece ieri Giorgia Meloni ha dovuto, probabilmente molto a malincuore twittare: “Congratulazioni a Lula per l’elezione a Presidente della Repubblica federale del Brasile. Italia e Brasile continueranno a lavorare insieme nel nome della storica amicizia tra i nostri popoli e per affrontare le sfide comuni che ci aspettano”.
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