Tre periodi hanno finora caratterizzato il movimento iraniano di protesta iniziato a settembre e che sta entrando nel suo terzo mese. Il primo, durato una o due settimane, è segnata dall’irruzione delle donne sulla scena sociale e che hanno lanciato la protesta all’insegna dello slogan “Donne, vita, libertà”. Il punto forte è che gli uomini le seguono. Si tratta per lo più di giovani. Il secondo periodo, che ha seguito il primo, è stato caratterizzato dallo slogan “Morte al dittatore” (Khamenei). Abbiamo visto mobilitarsi molte donne e uomini, tutti giovani e, per la prima volta, giovanissimi (tra i 12 e i 17 anni). Gli studenti universitari e gli studenti delle scuole superiori sono stati i protagonisti, con , in particolare, due province etniche, il Kurdistan iraniano (Iran occidentale) e il Baluchistan (Iran sud-orientale), nelle quali le manifestazioni sono state caratterizzate dalla partecipazione di persone di tutte le età.
Mahsa Amini, morta negli uffici della buoncostume di Teheran, era originaria del Kurdistan e le manifestazioni a Saqqez, sua città natale, e a Sanandaj, capitale del Kurdistan, sono ancora in pieno svolgimento. In Baluchistan, l’omicidio di una giovane ragazza ha dato il via alla protesta contro la teocrazia islamica. Più di sessanta manifestanti, tra cui alcuni minorenni, sono stati uccisi durante le manifestazioni. Anche in questo caso si sono moltiplicate le manifestazioni, in particolare a Zahedan, capoluogo della provincia. Nella parte etnica dell’Iran, la violenza di Stato è più forte. La reazione della popolazione, ovunque nel Paese, è quella di unirsi alle minoranze etniche. Questo si riflette negli slogan: “Zahedan, Sanandaj, pupilla degli occhi dell’Iran” o “Insieme riprenderemo l’Iran [dalla mano della teocrazia]”.
Il terzo periodo, iniziato la scorsa settimana, è caratterizzato principalmente da scioperi e chiusure del bazar. Questo è importante perché il bazar, anche se ha perso la sua antica importanza economica, ha un significato simbolico fondamentale, per il suo ruolo nei movimenti iraniani del passato (sia quello di Mossadegh nel 1950 che la rivoluzione del 1979). Fino ad allora, a protestare erano i giovani della terza generazione post-rivoluzionaria. Ora si stanno unendo a loro anche gli operai (seconda generazione) e i “bazariani” (commercianti del bazar, seconda e prima generazione). Oltre a un’economia in crisi, hanno denunciato un malcontento sociale che si sta politicizzando. La morte dei manifestanti ha dato il via alle cerimonie di lutto e ai loro prolungamenti (soprattutto il quarantesimo giorno, che riveste un’importanza simbolica e spesso spinge a manifestazioni contro il regime).
Un potere tanatocratico
Da quel momento in poi, la politica si è esercitata direttamente per le strade dalle quali emerge una rabbia contro uno Stato che da teocratico si è ormai rasformato in un’istituzione tanatocratica e che non è riuscito a domare le proteste, nonostante la sua violenza omicida (più di 350 morti, 40 minorenni) e l’uso di massicci mezzi di repressione (torture, più di 15.000 arresti). Vengono distrutti persino i luoghi in cui la gente vive (nel quartiere Ekbatan di Teheran sono state brutalizzate diverse decine di migliaia di persone delle classi medio-basse) e spara con munizioni vere, oltre a lanciare contro la popolazione i motociclisti delle Bassidje (organizzazioni anti-sommossa urbane) che si avventano sui manifestanti sparando contro di loro e talvolta schiacciandoli sotto le loro ruote. I bambini non vengono risparmiati.
In queste uccisioni e distruzioni, i gruppi etnici iraniani, i curdi che vivono principalmente nell’ovest dell’Iran, nel Kurdistan iraniano, e i baluci che vivono nel sud-est, nei dipartimenti più disagiati dell’Iran, il Baluchistan e il Sistan (sunniti) sono i più bersagliati. Per razzismo e per paura della loro insurrezione diffusa: a differenza del resto dell’Iran, dove sono stati soprattutto i giovani a mobilitarsi, queste due regioni hanno visto tutti, giovani e anziani, scendere in strada e morire sotto i proiettili delle forze dell’ordine.
A Mahabad, una città del Kurdistan, sabato 19 novembre la polizia è scesa per le strade con l’ausilio di carri armati e mitragliatrici pesanti e ha sparato su tutto ciò che si muoveva, l’elettricità e internet sono stati tagliati e i manifestanti hanno eretto nelle strade barricate di fortuna per resistere alla repressione indiscriminata. Allo stesso modo, anche i Baloch hanno avuto un numero sproporzionato di morti (oltre 100) trale quasi 400 persone uccise da metà settembre.
Scenario siriano
Il movimento ha un carattere nuovo per la sua resilienza, nonostante non abbia un leader (il potere li neutralizza sistematicamente dal 2015, non appena ne emerge uno) né un’organizzazione (il regime non tollera alcuna struttura politica autonoma). Ma l’assenza di un “interlocutore” che possa rappresentare i manifestanti rende impossibile il dialogo. Il governo non sa con chi parlare a causa della sua intolleranza e continua i suoi atti di intimidazione e la sua gestione omicida delle proteste. Tutto indica che non è possibile alcun compromesso tra i manifestanti e il regime teocratico. Le richieste sono diventate più radicali e il regime è convinto che qualsiasi compromesso sarebbe visto come un segno di debolezza e porterebbe a un’ulteriore radicalizzazione delle proteste.
Lo sviluppo di uno scenario siriano appare ovvio per il regime: lanciare sulla scena gli islamisti radicali come una minaccia per la società, armandoli e gonfiando artificialmente la loro azione (in una società sciita, i jihadisti sunniti sono in forte minoranza), facendo temere alla popolazione che l’Iran di essere smembrato dalle sue etnie in assenza di un governo forte, diffondendo notizie false (i morti sarebbero dovuti alla violenza dei manifestanti). In breve, le menzogne di Stato sono diventate la caratteristica dominante della televisione iraniana e della stampa ufficiale. L’oscuramento di Internet, la censura totale della stampa ufficiale, gli “spettacoli” di confessioni estorte con la tortura a persone arrestate e presumibilmente “pentite”, così come l’attribuzione delle manifestazioni a piani statunitensi, israeliani e, più globalmente, stranieri, sono ormai comuni.
Il movimento continua nonostante questa cupa repressione, perché la sensazione di trovarsi in una società senza presente e senza futuro e l’eliminazione di qualsiasi timida opposizione legale fanno sì che le piazze siano diventate l’unico luogo in cui giovani e meno giovani possono esprimere le proprie rimostranze.
Nessun messaggio di speranza
Inoltre, lo Stato iraniano è percepito dai giovani non solo come corrotto fino all’osso, ma anche come contrario alla gioia di vivere. In nome di una visione fossilizzata della vita che fa riferimento a un Islam antiquato, il governo impone restrizioni che sono viste come assurde dalle nuove generazioni. Il velo obbligatorio può servire da esempio, visto che persino l’Arabia Saudita lo ha abolito. Il regime non ha alcun messaggio di speranza per i giovani che continua costantemente a perseguitare. Agli occhi del potere la gioa di vivere diventa di fatto una questione di trasgressione: qualsiasi dimostrazione di giubilo popolare (come in occasione di un evento come una partita di calcio) viene repressa, sia collettivamente che individualmente. Questa mancanza di comprensione delle esperienze dei giovani che vogliono celebrare la vita crea un’ulteriore barriera tra il governo e una società che desidera vivere.
Nel 2009, per l’ultima volta, i riformisti, che erano visti come una timida e plausibile alternativa a una teocrazia integralista, sono stati eliminati in un’elezione presidenziale fraudolenta in cui il populista Ahmadinejad ha vinto con il sostegno attivo dell’esercito della Guardia Rivoluzionaria e della Guida Suprema. I giovani hanno lanciato lo slogan di protesta: “Dov’è il mio voto?”. Da allora, le proteste si sono susseguite a cascata nel 2015, 2016, 2018, 2019 e 2021, e ogni volta sono state duramente represse (quelle del 2015 hanno causato oltre 300 morti, quelle del 2018-2019 1’500 morti…).
Oramai i canali di dialogo e di compromesso sono bloccati e la repressione del regime si ritorce contro se stesso, come un serpente che si morde la coda. Più reprime, più la società si ribella. Questo rende ancora meno possibile un compromesso con un potere ormai caduto in disgrazia. Il regime, istruito dal modello di repressione siriano, ritiene di poterlo applicare mutatis mutandis alla società iraniana. Il passo è breve perché le forze di repressione mostrino gradualmente segni di logoramento, se le manifestazioni continueranno per altre settimane. E ciò potrebbe rappresentare la fine del potere tanatocratico.
*Farhad Khosrokhavar è un sociologo franco-iraniano, direttore di studi presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS). Questo articolo è stato pubblicato sul sito del quotidiano francese Libération il 21 novembre 2022. La traduzione in italiano è stata curata dal segretariato MPS.