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Attualmente in viaggio in Brasile, Paolo Gilardi, collaboratore di lunga data del nostro giornale, ci ha inviato queste sue riflessioni sui problemi che si pongono dopo risicata vittoria elettorale di Lula. Le pubblichiamo molto volentieri. (Red)

Esiste un mistero attorno alle quarant’otto ore durante le quali il capitano Bolsonaro si è chiuso nel silenzio, prima di ammettere il passaggio del potere e invitare i suoi seguaci a rinunciare ai blocchi stradali. Si può supporre che queste due giornate siano state interamente consacrate alla ricerca di sostegni, sia nell’apparato militare che fra vari settori del grande capitale, per un colpo di stato quasi legale.

Infatti, disponendo della maggioranza parlamentare così come quella dei governatori di 14 dei 27 stati del paese – di fatto, 26 ai quali è  da aggiungere il distretto della capitale, Brasilia -, avrebbe potuto valersi di una certa legittimità se il Parlamento democraticamente eletto avesse dichiarata irregolare l’elezione di Lula.

L’obiettivo comunque non è stato centrato anche perché ,già durante la settimana prima del secondo turno del 30 ottobre, i presidenti della Camera dei deputati, del Senato e della Corte suprema si erano, così come alcuni capi militari, pubblicamente opposti ad una presa del potere da parte delle forze armate. Il fatto poi che, nella notte dopo l’annuncio della vittoria di Lula, questi abbia ricevuto le felicitazioni di vari capi di Stato, americani e non, fra i quali Biden e Putin, ha rafforzato l’isolamento del capitano, costretto a gettare la spugna.

Non scommettere sul cavallo perdente

Fondamentalmente però, questi ultimi fatti risultano da un altro dato di fondo: per settori dominanti del capitalismo brasiliano, in particolar modo il settore esportatore, pur ferocemente anti-petisti – ed il 49% di Bolsonaro ne è la prova- hanno considerato che oramai, il capitano non era più l’uomo della situazione.

Il suo allinearsi su Trump nelle misure commerciali contro la Cina -principale importatore di soja brasiliano – e le sue posizioni  in materia di clima ne hanno fatto un pupazzo scomodo da togliere dalla presidenza. Addirittura anche il suo ministro dell’economia, l’ultra-liberista Guesde era criticato da ampi settori borghesi che lo accusavano di chiacchierare tanto ma di combinare ben poco.

Restavano allora due possibilità, di cui una puramente teorica, quella di una candidatura borghese alternativa a Bolsonaro oppure allinearsi a Lula in modo però da controllarlo e limitarne le velleità riformatrici.

La prima opzione non poteva che essere teorica vista la perdita di popolarità dei partiti tradizionali della borghesia concretizzatasi con la Caporetto del governo di Michel Temer che aveva aperto la strada all’elezione del presidente uscente nel 2018.

Restava allora la sola vera possibilità, quella di sostenere la candidatura di Lula, possibilità concretizzatasi dopo la candidatura alla vice-presidenza di Gerardo Alkmin, già governatore “social-liberale” dello Stato di Sao Paulo e con il sostegno di altre personalità borghesi con, per qualcuna, l’idea mal celata di prepararsi al grande salto presidenziale fra quattro anni.

Come la corda sostiene l’impiccato

Si trattava di creare le condizioni per restringere il campo d’intervento di Lula, o detto in un altro modo, di sostenerlo come la corda sostiene l’impiccato. E, in effetti, le condizioni per limitare il raggio d’azione di Lula sono più che riunite.

Questi si trova a dover affrontare una maggioranza ostile in un Parlamento con il quale, secondo quanto ci diceva oggi il capo-gabinetto della presidenza del PT, Renato Simoes, il nuovo governo “dovrà negoziare” le misure sociali promesse dal candidato Lula, e cioé i duecento miliardi di R$ (circa quaranta miliardi di euro) destinati a permettere di uscire dalla  fame i trentasei milioni di brasiliani che ne sono vittime ed il passaggio da 1200 à 1500 R$ (cioè da 300 a 375 euro) del salario minimo.

La pressione degli alleati governativi rappresentanti in particolar modo del settore finanziario sarà da questo punto di vista enorme, così come lo è  già quella dei mercati. Il trambusto successivo  alle dichiarazioni di Lula secondo le quali le spese pubbliche sono da considerare come degli investimenti ne dà l’intera misura: la borsa di Sao Paulo perdeva nel solo giorno del 10 novembre, il 3,35%, mentre lo stesso giorno, tasso di cambio R$-US$ passava da 4 R$ per un dollaro a 5,4 R$.

Ed è più che evidente che il controllo assoluto del grande capitale sui media accentuerà la pressione sul governo che, sempre secondo il mio interlocutore, “non è un governo rivoluzionario ma un esecutivo di compromesso”, e sarà in permanenza attaccato sulla “governabilità” e la stabilità del paese.

Antidoto sociale?

Quindi, è  in un altro ambito che il governo deve trovare l’antidoto, cioè un’altra pressione da contrapporre a quella delle forze economiche: quella dei movimenti sociali. In questo momento, è  una ripetizione quasi rituale da parte dei dirigenti del PT quella della necessità di appoggiarsi sui movimenti sociali, in particolar modo il movimento dei senza terra, MST, e la marcia mondiale delle donne, qui riassunta con l’acronimo MMM.

Ê da loro che deve venir la pressione e dev’essere organizzata la mobilitazione in sostegno ai progetti governativi di ricostruzione dell’architettura istituzionale da un lato, della lotta alla povertà ed alla fame dall’altro.

Però, per mobilitarsi in sostegno ai progetti governativi, i movimenti sociali hanno, per l’appunto, bisogno di … progetti mobilitanti. Ed è  qui che il dente duole, nella misura in cui, per potere proporre, al di la delle grandi dichiarazioni,  scelte che trovino l’adesione dei movimenti sociali, e tramite loro, della maggior parte della popolazione, il governo deve imperativamente avanzare proposte radicali, proprio quelle che la borghesia che lo sostiene, tende ad imbrigliare.

Per il momento, le proposte del PT sono generalmente orientate verso una istituzionalizzazione della rappresentanza dei movimenti sociali.

In questo senso, invece di lavorare alla creazione di momenti di mobilitazione di piazza, la proposta del PT e del futuro governo è  quella dell’integrazione di quadri del MST alla definizione delle misure transitorie verso la riforma agraria, così come quella delle principali dirigenti della MMM alla ricostituzione del Ministero dei diritti delle donne.

Il rischio  evidente è che si riproduca a questo livello quanto l’integrazione dei principali quadri del movimento no-global e la sua istituzionalizzazione da parte del governo Prodi produssero dopo il 2002 in Italia con una conseguente e deleteria diserzione di questi movimenti, ed in particolar modo dei suoi quadri dirigenti, dal terreno della costruzione delle lotte alla base. L’esperienza del primo governo Lula con l’integrazione dei rappresentanti dei popoli originari – e la conseguente smobilitazione di quest’ultimi – ne è un altro esempio. Il rischio è enorme.

Ed il debito?

Al contrario di Rafael Correi che, allora presidente dell’Ecuador, decise nel 2008 di non più pagare quanto esigeva il FMI ottenendone di fatto la riduzione del 50%, il PT non fa del rifiuto di pagare il debito estero al Fondo monetario internazionale un obiettivo. Non lo era stato durante il primo governo Lula all’inizio degli anni 2000, non lo è  oggi, malgrado un debito estero dell’ordine di quasi 1’300 miliardi di dollari, cioè  l’equivalente di più del 90% del PIL.

Continuare ad onorare il debito e a pagarne gli interessi permette certo a Lula di fregiarsi dell’intenzione di metter fine alle ispezioni dell’ortodossia contabile da parte del FMI. Ma significa ugualmente non solo consacrare al rimborso del debito estero somme colossali che potrebbero risultare più che utili per finanziare i programmi sociali, ma trasferire somme ingenti alla borghesia brasiliana.

Infatti, quest’ultima è  la principale detentrice dei titoli di stato, quotati a Wall Street, del debito estero brasiliano. È così che il tesoro pubblico brasiliano, pagando il debito, trasferisce direttamente ingenti ricchezze nelle tasche di chi i titoli li possiede, la borghesia brasiliana.

Ancora una ragione per la quale, malgrado la soddisfazione d’aver buttato fuori il capitano misogino, razzista e fascista, la vittoria di Lula non è che un primo passo che impedisce ogni forma di illusione.

E che rende più che mai necessario, per quanto ne possiamo capire, astenersi dalla beatitudine della celebrazione della vittoria, impegnandosi invece a garantire  il sostegno internazionale ai movimenti sociali brasiliani ed alle mobilitazioni di piazza.

*Sao Paulo, 13 novembre 2022

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