Le recenti sanzioni Usa contro il settore cinese dei semiconduttori (detti anche “chip” o “microchip”) hanno portato nuovamente alla ribalta questi dispositivi elettronici, diventati ormai un elemento fondamentale dell’economia e degli equilibri mondiali. In questo articolo descrivo in modo accessibile le caratteristiche dei semiconduttori e della loro catena di produzione, che è indispensabile conoscere se si vuole capire a fondo l’odierno sistema capitalista.
Un po’ di storia
I semiconduttori (detti anche “chip” o “microchip”) sono circuiti di transistor, diodi e altri elementi, integrati in placche a base di silicone. Generano mediante flussi elettrici il linguaggio binario (“0” e “1”, corrispondenti rispettivamente a flusso di corrente off e on) che è alla base di tutte le elaborazioni informatiche. La loro invenzione e messa in produzione risale al periodo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. In una prima fase sono stati utilizzati essenzialmente dall’industria militare degli Usa, il paese che per primo li ha sviluppati, al fine in particolare di rendere più precisi i missili e altri dispositivi di guerra. A partire dall’inizio degli anni ’70 hanno cominciato a essere utilizzati in modo massiccio anche nell’elettronica di consumo. Oggi i semiconduttori, pur nella loro apparente semplicità e con le loro dimensioni sempre più microscopiche, sono uno dei prodotti maggiormente ad alta tecnologia e sono diventati indispensabili praticamente in ogni campo: da quello militare, a quello delle automobili, dell’elettronica di consumo, dell’informatica, dell’intelligenza artificiale, delle telecomunicazioni e di molto altro ancora. Forzando un po’ il vocabolario, li si potrebbe definire la “materia prima” più importante dell’odierno sistema economico mondiale.
Fino all’inizio degli anni ’80 il settore dei semiconduttori era ancora saldamente controllato dagli Usa, che producevano sul proprio territorio i loro elementi più importanti e che sempre sul proprio territorio li assemblavano. L’Unione Sovietica non è mai stata vicina a pareggiarli e si è sempre limitata solo a una scopiazzatura grossolana e ritardata dei prodotti statunitensi, finché ancora erano relativamente semplici. L’Europa da parte sua ha tentato di rincorrere gli Usa, in particolare con la creazione di una simil-Silicon Valley in Scozia, ma ha ben presto dovuto accontentarsi di una produzione ridotta e tecnologicamente meno avanzata (con un’unica importante eccezione che vedremo sotto). L’unico paese che ha cominciato a sfidare seriamente gli Usa nel campo dei semiconduttori già negli anni ’70 è stato il Giappone. Chi oggi ha già i capelli grigi si ricorda sicuramente del Walkman, il player portatile di musicassette lanciato dalla nipponica Sony nel 1979 e conquistatosi in brevissimo tempo il titolo di singolo prodotto di marca più venduto della storia mondiale (oltre 380 milioni di pezzi, record probabilmente ancora oggi imbattuto). Ebbene, il Walkman si avvantaggiava di tre dei migliori microchip di allora, di produzione giapponese.
E’ stato alla fine degli anni ’80 che le grandi aziende Usa del settore hanno cominciato a delocalizzare progressivamente e in maniera crescente la produzione, e lo hanno fatto unicamente per motivi economici. Poiché si trattava di un settore ad alta intensità di investimento, e in cui il successo di un’azienda si basava in gran parte, così come si basa ancora oggi, sul battere i concorrenti nell’arrivare a produrre per primi il semiconduttore più miniaturizzato e al contempo potente, la corsa a rendere maggiormente flessibile e meno costosa la produzione è diventata una necessità. Inoltre, a metà anni ’80 gli Usa per un breve periodo erano stati superati dal Giappone nella produzione di semiconduttori e la delocalizzazione ha consentito loro di riprenderne il timone. La scelta delle multinazionali della Silicon Valley è caduta principalmente sui paesi dell’Asia Orientale per alcuni specifici motivi: l’esistenza nell’area di un’industria già sviluppata come quella giapponese, da una parte, e la presenza di una manodopera ben istruita e a costo contenuto in due paesi stabili, dopo decenni di dittature, come Taiwan e la Corea del Sud. A ciò si è aggiunta negli anni ’90 l’apertura della Cina, enorme riserva di manodopera e alleata economica degli Usa. Intorno a questi paesi ve ne erano altri meno qualificati tecnologicamente, come per esempio la Malesia, ma in grado di fornire materie prime o la fabbricazione degli elementi più semplici. E’ stata così impostata allora una geografia della produzione di semiconduttori che in massima parte rimane oggi la stessa. Ma per capire bene l’essenza di questa geografia, è necessario conoscere anche come è articolata la relativa catena di produzione.
Una produzione altamente sofisticata
Più i circuiti di transistor e altri elementi integrati nelle “cialde” di silicone (dette per l’appunto “wafer”) sono vicini gli uni agli altri più il semiconduttore o microchip risulta potente e veloce (la parola “chip” viene dal fatto che i wafer vengono tagliati a partire da pezzi di silicone un po’ come delle patatine). Inoltre, più le dimensioni del semiconduttore sono ridotte e più è possibile inserirne in quantità sempre maggiori in dispositivi sempre più piccoli, amplificando così ulteriormente la potenza generata. Si può dire quindi che il fine ultimo della produzione dei semiconduttori è quello di ridurne costantemente le dimensioni. Da molto tempo ormai queste ultime non vengono più misurate in centimetri o millimetri, bensì in nanometri, pari a un miliardesimo di metro. Tutto ciò ha esasperato la sofisticazione dei processi per produrli. Le sagome utilizzate per l’incisione dei circuiti nei wafer di silicone, dette “mask”, hanno ormai dimensioni microscopiche, e per la loro applicazione al materiale del wafer vengono utilizzate litografie a migliaia di strati. Nel mondo microscopico dei semiconduttori, poi, è sufficiente la presenza di un’impurità di dimensioni anch’esse microscopiche per danneggiarne il funzionamento. Ciò comporta che i materiali utilizzati per i loro componenti debbano avere gradi di purezza pressoché assoluti, come non sono richiesti invece per altri prodotti, pur altamente tecnologici. Inoltre, il loro assemblaggio deve avvenire in ambienti totalmente asettici, con i relativi alti costi: la presenza di un minigranello di polvere avrebbe lo stesso effetto che avrebbe la corsa di un gruppo di elefanti su un campo coltivato. Come se non bastasse, per fare solo un altro esempio tra i tanti possibili, più gli elementi dei circuiti sono piccoli e reciprocamente vicini, più aumentano i rischi di surriscaldamento e quindi di malfunzionamento o addirittura guasti. Per superare queste problematiche sono necessari un know-how e investimenti in ricerca e sviluppo di altissimo livello. Tutti questi fattori comportano nel loro insieme che, una volta assemblato, il semiconduttore debba essere sottoposto a una procedura di testaggio ancora una volta di estrema sofisticatezza tecnologica. Ma nonostante questa sofisticatezza, la produzione è esposta a rischi molto più prosaici e a zero tecnologia. Per esempio, negli impianti di produzione ultima dei semiconduttori si fa uso di grandi quantità di acqua. L’anno scorso a Taiwan, maggiore fornitore mondiale di semiconduttori finiti, vi è stata una prolungata siccità che ha rischiato di fermare completamente la produzione, con potenziali effetti devastanti a livello mondiale. Il governo ha dovuto razionare per un certo tempo l’acqua agli abitanti al fine di consentire agli stabilimenti di rimanere operativi. Un altro problema è quello del reperimento di tecnici qualificati: attualmente a livello mondiale vi è una carenza di personale specializzato che sta causando notevoli problemi.
Oggi la catena di produzione dei semiconduttori, in quanto altamente distribuita in termini sia geografici sia di know-how, è tale da non potere più funzionare se anche solo uno dei suoi molteplici anelli fondamentali dovesse saltare. Una sua rapida fotografia lo rende evidente. Fotografia che va letta innanzitutto prendendo in considerazione il fatto che i semiconduttori si dividono in categorie diverse, espresse per i motivi illustrati sopra in nanometri. Non esiste una categorizzazione in fasce precise diverse, ma si può dire che le due o tre tipologie con dimensioni in nanometri più basse in un dato momento sono chip d’avanguardia “vincenti”, le altre sono costituite da chip con dimensioni maggiori in termini di nanometri e che possono essere utilizzati per tecnologie avanzate e/o specializzate ma non d’avanguardia (quelli da poco calati di categoria) o per prodotti di massa meno sofisticati (quelle cronologicamente più vecchie). In questa suddivisione di comodo, e non ufficiale, dei semiconduttori in prodotti di serie A, B e C, quelli che contano veramente sono quelli di “serie A”, la cui geografia descrivo qui di seguito.
La geografia della produzione
Le mask e le litografie per la realizzazione dei semiconduttori d’avanguardia vengono sviluppate quasi esclusivamente negli Usa, e più precisamente nella Silicon Valley californiana. Aziende statunitensi come Intel, NVIDIA, Texas Instruments svolgono inoltre il ruolo di principali progettatori e “appaltatori” mondiali di microchip e la maggior parte delle aziende Usa del settore sono produttori “fabless”, cioè senza fabbriche. Corea del Sud e Giappone producono molti degli elementi più sofisticati dei circuiti integrati e sono notevoli produttori anche di semiconduttori finiti. La Corea del Sud ha da tempo superato il Giappone nella produzione e ora occupa il secondo posto al mondo (in particolare con aziende come Samsung e SK Hynix). L’olandese ASML ha un monopolio mondiale quasi assoluto nei macchinari per la litografia e per gli altri processi produttivi utilizzati nel settore dei semiconduttori d’avanguardia. I wafer vengono prodotti da svariati paesi, ma i migliori vengono fabbricati nell’Asia Orientale, con in prima fila la Malesia, paese che tra l’altro sta cercando di ritagliarsi un ruolo importante nel testaggio. Tuttavia, il ruolo di “primo del mondo”, con una quota del 90% della produzione dei semiconduttori più avanzati, lo svolge Taiwan – sì, proprio l’isola di fatto indipendente, ma rivendicata dalla Cina e il cui stato non viene riconosciuto quasi da nessuno nel mondo, nemmeno dagli Usa, motivi per i quali è esposta al forte rischio di un’invasione o di un blocco navale da parte di Pechino. Taiwan viene di norma definita il maggiore produttore mondiale di semiconduttori con una quota di fatto monopolistica. Tuttavia, il termine “produttore” rischia di essere fuorviante, perché può fare pensare a Taiwan come un paese in grado di gestire autonomamente gli stadi fondamentali della produzione dei semiconduttori. Ma non è così, e Taiwan potrebbe essere in realtà definito il maggiore assemblatore mondiale di semiconduttori, poiché si tratta di quello che fondamentalmente fa: riceve da committenti o acquista mask, litografie, wafer, transistor e così via, limitandosi sulla base di essi a realizzare il prodotto finale e a testarlo, per poi consegnarlo ai committenti o, più raramente, rivenderlo. Non a caso gli stabilimenti come quelli taiwanesi vengono definiti nel gergo dei semiconduttori con un termine ottocentesco: foundries, cioè fonderie. Ma anche la definizione “assemblatore” rischia di essere fuorviante, perché l’altissima sofisticazione del know-how unico delle società taiwanesi e dei loro impianti altrettanto unici rende l’assemblaggio un vero e proprio prodotto a sé, e uno degli anelli più importanti, se non il più importante, della catena di produzione. Nel campo della produzione su commissione di tutti i tipi di semiconduttori, d’alta fascia o meno, le aziende taiwanesi sono ancora una volta ampiamente prime al mondo, con una quota complessiva del 66% a livello mondiale. Seguono la Corea del Sud con il 17% e la Cina con l’8%. Se si considera però l’intera industria dei semiconduttori (quindi non solo la “produzione/assemblaggio”, ma anche le mask, i macchinari per la produzione, il testaggio, la commercializzazione e così via) le posizioni cambiano: gli Usa sono primi con il 38% (in termini di giro d’affari), seguiti nell’ordine da Corea del Sud (16%), Giappone (14%), Europa (10%, grazie essenzialmente al monopolista olandese dei macchinari ASML), Taiwan e Cina a pari merito (9%). Nel suo complesso il mercato mondiale del settore è enorme: ammonta in totale a 550 miliardi di dollari. Va notato che Taiwan, sebbene negli anni recenti si sia dotata della produzione propria di alcuni elementi che confluiscono nel prodotto finale, non è una potenza tecnologica a sé, ma dipende per intero dal complesso della catena produttiva mondiale e ciò che produce lo fornisce quasi in toto ad altri paesi. È un particolare importante anche per leggere le coordinate di un eventuale conflitto: le capacità di cyber-guerra di Taiwan sono limitate e senz’altro inferiori a quelle del suo principale nemico.
Il caso cinese
I lettori più attenti avranno a questo punto notato che c’è una grande assente in questa descrizione geografica: la Cina, cioè il summenzionato “nemico”. La geografia dei semiconduttori d’avanguardia è infatti una geografia quasi per intero occidentale, se si considerano occidentali per evidenti motivi politici anche il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan, alleati in un modo o nell’altro della cosiddetta area euroatlantica. In realtà la Cina ha fatto nell’ultimo paio di decenni passi da gigante nella produzione di semiconduttori, grazie sia a enormi investimenti statali e privati (ma nel tempo sempre più del primo tipo), sia al furto di proprietà intellettuale delle aziende occidentali che operano nel paese. Così come in altri settori, Pechino è stata molto abile nello sfruttare i vantaggi offerti dalla sua condizione di membro del WTO a partire dal 2001 violandone allo stesso tempo le regole, cosa che ha potuto fare anche grazie al fatto di disporre di una colonia di fatto dallo status internazionale speciale come Hong Kong. Va aggiunto comunque, per non magnificare irrealisticamente la potenza cinese, che Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno fatto in passato passi altrettanto da gigante, e nel caso della Corea e di Taiwan, anche più veloci; quindi, l’ascesa della Cina nel campo dei semiconduttori non ha nulla di straordinario. Negli ultimi anni, inoltre, la Cina sembra avere perso fiato. Il progetto “Made in China 2025” varato da Xi Jinping nel 2015, e oggi di fatto eclissatosi, prevedeva di raggiungere una sostanziale autonomia nella produzione di microchip con le seguenti tappe: passaggio dal 10% della domanda interna di semiconduttori soddisfatta da produttori nazionali nel 2015 rispettivamente al 40% nel 2020 e al 70% nel 2025. Ebbene, a metà 2021 la Cina, nonostante gli enormi sforzi messi in atto con megainvestimenti, aveva conseguito una quota di appena il 16%. In pratica non solo ha clamorosamente mancato il primo obiettivo del 2020, ma è ormai da escludersi che raggiunga quello finale. Come se non bastasse, è ormai praticamente impossibile che alla scadenza ultima del 2025 riesca a raggiungere anche solo quello previsto per la prima tappa.
Le quote percentuali citate non riguardano però esclusivamente i semiconduttori d’avanguardia, bensì l’insieme dei semiconduttori. In questa prospettiva, vanno messi in luce due elementi importanti. Innanzitutto, la Cina è ampiamente il maggiore acquirente mondiale di semiconduttori di ogni tipo (con una quota di circa il 40%), pertanto molti dei produttori occidentali hanno un alto grado di dipendenza dalla Cina come principale sbocco di mercato e quindi fonte di ricavi e profitti da reinvestire nello sviluppo tecnologico. Ritornerò su questo importante aspetto poco più sotto. Dal punto di vista strettamente tecnico, la Cina ha fatto grandi progressi, al di là delle percentuali di produzione propria, ma il problema per lei è che rimane da tempo costantemente due o tre gradini sotto i produttori “occidentali”. Lo illustra chiaramente un esempio recentissimo. Fino a qualche mese fa i semiconduttori più d’avanguardia che uscivano dalle “fonderie” taiwanesi erano da 5 nanometri. La Cina rimaneva a 9 nanometri. Quest’estate però i produttori cinesi hanno annunciato di avere realizzato un semiconduttore da 7 nanometri che verrà prestissimo messo in produzione. Tuttavia, è subito emerso che tale prodotto era stato realizzato con tecniche meno sofisticate della norma e quindi era meno affidabile rispetto ai 7 nanometri “occidentali”. Inoltre, il prodotto cinese risultava più costoso da produrre a causa dell’insufficiente know-how cinese, e per lo stesso motivo il paese era in grado di fabbricarlo solo in quantità limitate. Come se non bastasse, pochissimo tempo dopo il colosso taiwanese TSMC ha presentato il suo nuovo chip da 3 nanometri, che sfonda così il limite di 5 e di cui ora ha già avviato la produzione, mentre al contempo Apple ha annunciato che già verso la metà del 2023 verrà introdotto massicciamente in alcuni dei suoi prodotti di punta. E già l’anno scorso nei laboratori Usa è stato realizzato in via sperimentale un chip da 2 nanometri, un evento accompagnato da dichiarazioni impressionanti: “sarà possibile inserire 50 miliardi di transistor in un chip delle dimensioni di un’unghia. Ci saranno quasi dieci volte più transistor da 2 nm su un wafer da 300 mm che alberi nel mondo”. La taiwanese TSMC prevede di produrli in massa nel 2025. Al di là di queste dichiarazioni futuristiche, tuttavia, i produttori stanno incontrando notevoli difficoltà concrete nel miniaturizzare ulteriormente i semiconduttori. Da una parte i guadagni in termini di potenza sembrano diminuire a fronte di un notevole aumento degli sforzi, e dei costi, per sviluppare tecnologie sempre più “micro”. Dall’altra nell’ambito della produzione dei chip da 3 e 2 nanometri si sta registrando una inquietante diminuzione dello “yield” (rendimento), termine che nel mondo dei semiconduttori sta a indicare la quota dei prodotti privi di qualsiasi tipo di malfunzionamento. Si sta cercando di aggirare questi problemi con una nuova configurazione dei semiconduttori, denominata “nanosheet”, ma chi la sta già applicando in produzione, come Samsung, registra altri non indifferenti problemi.
La “guerra dei semiconduttori”
Dal quadro complessivo qui descritto, risulta evidente che un’eventuale invasione di Taiwan non comporterebbe per la Cina la conquista della supremazia, o addirittura di un monopolio, nel campo dei semiconduttori. La catena della loro produzione è fatta di singoli anelli sofisticatissimi e compartimentati, diffusi su molti paesi. Prodotti sofisticatissimi come i semiconduttori non possono essere semplicemente smontati e copiati, operazione che anche nell’improbabile caso in cui dovesse essere portata a compimento con successo non servirebbe comunque a nulla in assenza della capacità di produrre le mask, i componenti per le litografie, o i macchinari per realizzarli. Né per gli stessi motivi servirebbe conquistare con la forza gli stabilimenti e/o riprodurli. Se non si dispone di ogni singolo know-how, della relativa complessa catena di approvvigionamento e così via, ci si ritrova con la classica mosca in mano. E Pechino oltretutto è isolata, non ha nessun alleato in questo campo, solo concorrenti, alcuni dei quai direttamente nemici. Ancora una volta però c’è un elemento che complica ulteriormente le cose per tutti gli attori in gioco. Molti dei singoli pezzi della catena di produzione fisica sono realizzati con materiali iperspecializzati, soprattutto plastiche, nella produzione di un paio delle quali, per fare un esempio, la Cina occupa una posizione monopolistica.
In caso di un’eventuale guerra a Taiwan, o di un blocco navale dell’isola, la produzione mondiale dei semiconduttori avanzati si fermerebbe, con effetti disastrosi per tutti, ivi compresa la stessa Cina. Pechino è ancora ben lontana dal potere sfidare la catena di produzione “occidentale”, e non è affatto detto che un giorno arriverà a sfidarla. Giappone docet: a suo tempo si dava per sicuro che avrebbe scavalcato definitivamente gli Usa, ma le previsioni non si sono realizzate. La Cina però non è senza leve di ricatto: dalla minaccia di sospendere le forniture di materie prime essenziali (anche non legate ai semiconduttori, come nel caso delle terre rare di cui ci occuperemo in un prossimo articolo), fino al già menzionato fatto che il suo mercato è la principale fonte di introiti per i produttori mondiali di chip. Inoltre, non bisogna dimenticare che la Cina è anche tra i maggiori produttori degli “altri” chip, quelli non di punta, che sono anch’essi nel complesso essenziali per il funzionamento dell’economia mondiale. A ciò va aggiunto che la Cina, in quanto in generale “fabbrica del mondo” e in quanto mercato essenziale per molti settori industriali, dispone di molte altre leve di ricatto o per contro ferire. Ci troviamo insomma nel classico caso del cane che si morde la coda: se colpisco mortalmente te, colpisco mortalmente anche me stesso. Ciò però non fa sì che la situazione rimanga stabile, al contrario, tutti per un motivo o per l’altro vogliono cambiare questo status quo, e ciò genera continue tensioni.
Le sanzioni Usa, l’onshoring e il friendshoring
Di fronte a questa situazione specifica del settore dei semiconduttori e più in generale alla vulnerabilità di cui in generale hanno dato prova negli ultimi anni a livello globale le supply chain (catene di approvvigionamento), i paesi occidentali, e soprattutto gli Usa, si stanno concentrando su due aspetti: l’applicazione di sanzioni che arrestino i tentativi di rincorsa della Cina, da una parte, e la rilocalizzazione dei vari anelli della catena di produzione in patria (“onshoring”) o in paesi di sicura amicizia (“friendshoring”). A metà ottobre gli Usa hanno varato sanzioni che colpiranno molto duramente la produzione cinese di semiconduttori. Senza entrare troppo nei complessi particolari tecnici, nella sostanza Washington vieta la vendita di semiconduttori avanzati (ma non solo quelli di fascia più alta, le sanzioni riguardano infatti tutti quelli sotto i 16 nanometri) e dei relativi elementi sia da parte delle aziende statunitensi, sia da parte di produttori di altri paesi che integrano nei loro prodotti elementi di produzione Usa (cioè quasi tutti i produttori di semiconduttori avanzati). Vi è anche il divieto per i cittadini degli Stati Uniti di lavorare per aziende cinesi del settore avanzato dei semiconduttori, e gli esperti Usa sono tra i migliori al mondo. A confronto, la guerra dei dazi avviata da Trump nel 2018 appare una bazzecola. Ovviamente bisognerà poi vedere come queste sanzioni verranno applicate. Per esempio, sono previste eccezioni alla regola e Washington ha già concesso esenzioni di notevole portata, come il permesso alla taiwanese TSMC di continuare la propria produzione di chip d’avanguardia in uno stabilimento di recente apertura in Cina, o un’altra importante esenzione concessa alla sud-coreana SK Hynix su pressioni politiche del governo di Seul. Ovviamente la maggior parte dei produttori mondiali del settore è molto preoccupata, perché tali sanzioni comporteranno un forte calo degli introiti generati dal loro maggiore mercato, la Cina. Numerose di queste aziende sono state chiamate nell’ultimo anno dai loro governi a effettuare grandi investimenti, in parte coperti da sussidi statali, ma solo in quote minoritarie, e la perdita di introiti può comportare grosse difficoltà finanziarie. Va tenuto conto a tale proposito che i costi della realizzazione di un nuovo stabilimento per la produzione di semiconduttori di punta sono analoghi, o addirittura superiori, a quelli di una centrale nucleare: si parla attualmente di 10-20 miliardi di dollari. Anche i tempi di realizzazione sono molto lunghi, impianti del genere non vengono allestiti e resi operativi in qualche mese o in un anno. Questo aggrava un problema di sempre dell’industria dei semiconduttori, quello di essere un settore ciclico contraddistinto da periodi di boom e alti investimenti, ai quali fanno seguito fasi protratte di decisa flessione e di eccesso di capacità produttive. Attualmente sembra che il settore dei semiconduttori stia entrando proprio in una fase di flessione, dopo il boom degli ultimi anni, e ciò complica ulteriormente le cose.
Le aziende più importanti del settore sono quindi non a caso alquanto a disagio per il fatto di essere costrette per motivi politici a spostare parte della propria produzione altrove, come nel caso della taiwanese TSMC, praticamente forzata controvoglia da Washington ad aprire un costoso stabilimento negli Usa. L’amministrazione Biden si sta inoltre muovendo anche sul piano diplomatico, in particolare con il varo di un’alleanza “Chip 4” tra Usa, Giappone, Taiwan e Corea del Sud in funzione anti-Cina, ma incontra difficoltà perché i potenziali alleati, e in particolare la Corea del Sud, stanno attenti a non inimicarsi troppo Pechino. Da parte sua la Cina ha messo in atto negli ultimissimi anni mega-programmi di finanziamento dell’intero settore dei semiconduttori, ma si è scontrata con gravi problematiche finanziarie, di corruzione e di inefficienza nell’uso dei fondi. Il Tsinghua Group, scelto come uno dei principali perni della politica di Pechino per dare impulso alla produzione nazionale di semiconduttori, è di fatto fallito e alcuni suoi grandi progetti si sono rivelati “cattedrali nel deserto” prive di reale efficacia. Quest’estate il Partito Comunista cinese ha condotto un’intensa campagna di epurazione di tutto il sistema di finanziamento al settore dei microchip, arrestando o mettendo fuori gioco decine di alti o altissimi funzionari e imprenditori. Si tratta di una campagna di purghe dalle motivazioni economiche ma anche politiche, visto che è stata condotta alla vigilia del congresso del Pcc che ha consacrato di fatto Xi Jinping leader a vita. Rimane ora da vedere come procederà quest’ultimo dopo avere ulteriormente consolidato in sede congressuale il proprio già vastissimo potere politico.
Mentre le sanzioni avranno sulla Cina effetti di sicuro molto importanti, e potenzialmente devastanti a seconda di come verranno effettivamente applicate, la realizzabilità su vasta scala delle rilocalizzazioni, così come gli effetti delle stesse, sono molto più controversi. Sono dettate essenzialmente dalla necessità di ridurre l’esposizione del sistema a Taiwan, a sua volta esposta al rischio di un’aggressione cinese, ma molti dubitano che potranno essere messe in atto in modo razionale e fattivo, considerata l’estrema complessità del settore. Inoltre, secondo le stime le rilocalizzazioni comporteranno altissimi aumenti dei costi di produzione: ad esempio, Goldman Sachs ha calcolato che in prospettiva i costi di produzione degli impianti aperti negli Usa saranno superiori del 44% rispetto a quelli di Taiwan. Alcuni esperti sottolineano che ci vorranno decenni per portar a pieno compimento le rilocalizzazioni, sempre che ci si riesca, mentre i rischi a cui è esposta Taiwan appaiono molto più imminenti. E’ facilmente prevedibile che, visti i costi di questi progetti e in più gli oneri che comporta l’applicazione delle sanzioni volute dagli Usa, le aziende adotteranno qualche forma di resistenza passiva, ma tenace. A ciò si aggiunge un fattore politico: la Cina ha il vantaggio di avere un regime monolitico, mentre i paesi della sfera occidentale devono fare fronte a cambiamenti periodici di governo, e quindi di linea politica. Già oggi la Corea del Sud è in buona misura recalcitrante, un domani potrebbe aggiungersi qualcun altro, oppure negli Usa il ritorno di Trump o di un simil-Trump potrebbe apportare caos alla situazione.
In conclusione, la Cina è sicuramente in una posizione più svantaggiata rispetto ai suoi concorrenti occidentali, e oggi appare difficile che possa riuscire a ottenere successo nella sua rincorsa. I paesi della sfera occidentale rischiano da parte loro di fare passi più lunghi della gamba e/o di fare valutazioni pesantemente errate. Su tutto incombe il rischio di un’invasione di Taiwan o, più probabilmente, di un suo blocco navale, così come le conseguenze delle altre parallele guerre, da quella cruentemente reale in Ucraina, a quelle commerciali, valutarie e finanziarie. L’incertezza sul futuro del settore dei semiconduttori rimane quindi altissima.
Per saperne di più: È uscito giusto lo scorso mese un ottimo libro che traccia la storia tecnica, economica e politica dei semiconduttori dagli anni ’50 del secolo scorso fino a quest’anno. Si tratta di “Chip War. The Fight for the World’s Most Critical Technology”, scritto da Chris Miller, un’opera seria, ma rivolta a un pubblico di non addetti e scritta in modo facilmente fruibile. Un’altra utilissima fonte è un lungo articolo pubblicato da Le Monde nell’ottobre 2021: https://www.lemonde.fr/economie/article/2021/10/14/tsmc-une-breve-histoire-de-la-mondialisation-et-de-ses-limites_6098282_3234.html . Tra le testate che seguono regolarmente tutti i risvolti degli sviluppi nel settore dei semiconduttori le migliori sono senz’altro il Financial Times e, forse ancor più, Nikkei Asia, alle quali ho abbondantemente attinto per questo articolo. Tra le numerose fonti internet specializzate va menzionata in particolare SemiAnalysis, che accanto ad articoli molto tecnici pubblica spesso panoramiche accessibili anche ai non addetti.
*articolo apparso sul blog https://crisiglobale.wordpress.com/ il 4 novembre 2022