Cosa esattamente sta succedendo in Cina dopo la fiammata di proteste delle settimane scorse? Il paese si trova in generale in una situazione critica. L’aspetto più evidente è il dilagare dell’epidemia di Covid, ma le criticità riguardano anche l’economia e i punti di domanda sull’evolversi dell’atteggiamento della popolazione nei confronti del regime. Sullo sfondo di tutto questo, i precari equilibri internazionali, in particolare per quanto riguarda Usa e Russia.
Il voltafaccia sul Covid
Il Partito Comunista, per la seconda volta dopo lo scoppio dell’epidemia a fine dicembre 2019, sta spalancando le porte alla diffusione del virus. Non lo sta facendo in modo uguale in tutto il paese. Nelle città più grandi è stata cancellata la maggior parte delle misure fin qui applicate, in particolare nella capitale Pechino, ormai quasi completamente “aperta” da questo punto di vista. In svariate province rimangono molte misure, anche di lockdown, ma la tendenza generale è quella di smantellarle a passi rapidi. Non mancano tuttavia i segnali in controtendenza: per esempio a Shanghai da ieri tutte le scuole sono chiuse a tempo indeterminato.
Il governo e le autorità sanitarie, che fino al 6 dicembre propugnavano ancora il dogma della politica del cosiddetto “zero Covid dinamico”, hanno fatto nei loro comunicati una totale marcia indietro nel giro praticamente di 24 ore. Zhong Nanshan, consulente medico strettamente legato al regime di Xi fino a diventare anch’egli oggetto di un culto della personalità, ha dichiarato che il Covid non va più definito con tale nome, bensì solo come raffreddore… tutto il mondo è paese! La megalopoli Chongqing, 32 milioni di abitanti, e la ricca provincia dello Zhejiang hanno pubblicato ieri comunicati ufficiali secondo cui anche i contagiati sintomatici possono (devono?) recarsi al lavoro.
In termini di informazione, il blackout è praticamente completo, a livello sia centrale che locale. I numeri che le autorità pubblicano riguardo ai contagi non hanno più alcun senso, perché non si fanno praticamente test, mentre sulle morti vi è un silenzio completo, così come su quanto in genere avviene non solo negli ospedali, ma anche nel settore produttivo nel quale in alcune importanti province cominciano a esservi problemi per la quantità di personale in malattia, anche se non è dato sapere esattamente con quali riflessi sulla produzione. Tuttavia, ci sono alcune autorità locali che forniscono ancora qualche informazione frammentaria utile a farsi un’idea: per esempio, nella capitale i tempi di reazioni delle autoambulanze alle chiamate si sono fatti pericolosamente lunghi, in molte città sono state sospese a tempo indefinito tutte le operazioni chirurgiche non di estrema urgenza e addirittura le banche del sangue sono a livelli minimi, perché la gente o è infettata, o ha paura a uscire di casa per donare sangue.
Cosa sta succedendo sul campo
I pochi corrispondenti di media esteri rimasti sul posto (nell’ultimo paio di anni molti di loro sono stati espulsi) hanno raccolto testimonianze circostanziate che parlano di ospedali sotto forte stress, di crematori che lavorano a ritmi ben più alti del normale, di parenti o conoscenti di numerose persone morte di Covid, di carenze di medicinali e in generale di un livello di infezioni altissimo a Pechino, e in forte aumento ovunque nelle città. La maggior parte della popolazione sembra essere fortemente impaurita, e questo per più ragioni: l’esperienza storica, vissuta direttamente sulla propria pelle, di precedenti epidemie, ivi compresa l’esperienza tra tutte più recente dello scoppio dell’epidemia di Covid tre anni fa, taciuta dal regime fino all’emergere di un disastro epico; il disorientante passaggio improvviso e senza spiegazioni razionali da un approccio “zero Covid” durissimo a un totale voltafaccia; la coscienza delle enormi carenze del sistema sanitario cinese; la sfiducia, anch’essa storicamente giustificata, nella effettiva volontà del Partito Comunista di tutelare la salute e più in generale l’incolumità della popolazione in situazioni di crisi. La gente sta reagendo come può: mettendosi in auto-lockdown (Pechino, nonostante l’assenza di misure ufficiali, è praticamente deserta) e facendo incetta di cibo e medicinali.
Le proteste delle settimane scorse sono praticamente cessate, per l’effetto congiunto sia del loro carattere improvvisato, sia delle repressioni sistematiche che vi hanno fatto seguito, sia ancora della paura per l’epidemia. Ci sono stati ancora alcuni eventi isolati, ma si è trattato di poca cosa. Unica eccezione significativa, la protesta di centinaia di studenti di medicina di due università, costretti a lavorare negli ospedali con ritmi massacranti, paghe risibili e tutele inadeguate per fare fronte all’esplodere dei contagi.
A proposito di proteste va aggiunto un altro importante particolare. E’ emersa solo negli ultimi giorni la notizia, rilanciata da attivisti hongkonghesi, che a novembre, poco prima dell’ondata di proteste, c’era stato un grande sciopero nazionale dei camionisti precari che lavorano per la piattaforma Huolala, che controlla una quota di mercato dei trasporti su gomma pari al 53% e per la quale lavorano 660.000 addetti. Lo sciopero, motivato da una riduzione di fatto delle retribuzioni e un peggioramento delle condizioni di lavoro, ha avuto pieno successo poiché il governo, impaurito, ha esercitato pressioni su Huolala affinché facesse marcia indietro. Era dal 2018 che in Cina non si svolgeva uno sciopero nazionale, evento oltretutto fino a quell’anno completamente inedito. Le azioni dei lavoratori di portata interregionale o nazionale sono tra i principali spauracchi del regime, e in questo caso uno sciopero nazionale quasi in coincidenza con le altre proteste di fine novembre-inizio dicembre deve essere stato visto come un vero e proprio incubo a Pechino.
Quali sono i motivi del voltafaccia? E le prospettive future?
E’ in questo momento molto difficile rispondere a entrambe le domande. Che il regime avesse potuto fare una parziale marcia indietro sulle misure anti-Covid lo avevano ipotizzato in molti, ma nessuno si attendeva un loro smantellamento così rapido. Come ha affermato un esponente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, peraltro in modo assolutamente non documentato, i dirigenti di Pechino si erano già resi conto prima delle proteste che la diffusione della variante Omicron non era più contenibile. Sebbene tale affermazione non sia supportata da nulla, la sequenza degli eventi la rende in parte credibile. La paura suscitata tra gli oligarchi del regime dalle proteste generalizzate avrebbe poi fatto scattare la decisione con urgenza e in modo scomposto, una decisione sicuramente bene accolta da molti burocrati e/o capitalisti che sperano così di andare incontro a un ritorno alla passata normalità (pia illusione, a mio parere, per i motivi che spiego più sotto).
Ora però, una volta presa la decisione, bisogna fare i conti con gli aspetti sanitari, da una parte, e con quelli ideologico-politici, dall’altra. Per quanto riguarda i primi, come ho già scritto in passato, la Cina è messa molto peggio dei paesi occidentali a livello di sistema sanitario e quantità di personale medico, nonché di vaccinazioni. Un dato tra tutti: a fine 2021 la Cina aveva solo 3,6 posti di terapia intensiva ogni 100.000 abitanti, rispetto agli oltre 12 dell’Italia, oltre 20 della Corea del Sud e 24 degli Usa. Oltretutto, tale carenza è ancora più acuta nelle vaste e popolate aree rurali. Tra l’altro, queste ultime, insieme ai centri urbani minori, saranno travolte dal ritorno in massa di centinaia di milioni di persone per le festività del Nuovo anno lunare, che quest’anno cade alla terza settimana di gennaio, ma che mette in moto un esodo già ben prima della scadenza.
A livello politico e ideologico, la politica “zero Covid” era per la dirigenza di Pechino una fondamentale bandiera della superiorità del “modello cinese” – in un momento in cui anche l’economia sta pesantemente perdendo colpi non si capisce bene dove Xi andrà a trovare un’altra bandiera che faccia da collante ideologico in un paese che dà evidenti segni di scollamento. Riguardo agli aspetti sanitari e alle loro conseguenze economiche, così come al perché di una marcia indietro (quasi) completa proprio adesso, provo a fare un paio di ipotesi.
Secondo alcune fonti, Pechino si sarebbe consultata preventivamente con le autorità sanitarie di Hong Kong per avere informazioni sui possibili esiti di un dilagare dell’Omicron in Cina. Poiché nell’ex colonia britannica il dilagare della variante in presenza di scarsi livelli di vaccinazione analoghi a quelli della Cina aveva portato in primavera a esiti catastrofici in termini di letalità e di stress del sistema sanitario, penso che difficilmente i dirigenti del Pcc abbiano preso la decisione sulla base dell’esperienza hongkonghese. Non so se si sono consultati anche con Pyongyang, ma mi sembra seguano piuttosto l’esempio della Corea del Nord, dove l’epidemia di Covid dei mesi scorsi, che è dilagata incontrastata, veniva definita eufemisticamente una “epidemia di febbre”. Pressoché nulla è trapelato sui suoi effetti in un paese chiuso come mai negli ultimi decenni agli osservatori esteri, solo dalle notizie non sempre affidabili di alcune Ong con contatti locali sono giunte informazioni che tracciavano un quadro drammaticamente tragico. Ma dopo pochi mesi la Corea del Nord sembra (e sottolineo *sembra*) essere tornata alla normalità. Forse quindi a Pechino si ipotizza qualcosa di simile: niente statistiche, censura rigida sui disastri, repressioni, discorsi sul “raffreddore” e poi, tenendo duro così per qualche mese, tutto tornerà magicamente come prima. Se il calcolo è questo, non tiene conto del fatto che la Cina è sotto tutti i punti di vista un paese molto più complesso della Corea del Nord e con una popolazione non così demoralizzata come quella del regno di Kim Jung-on: è molto più difficile per Pechino mantenere la stabilità di fronte a una crisi sanitaria.
Un altro ragionamento che forse hanno fatto i gerarchi cinesi è che a questo punto conveniva fare dilagare l’epidemia già nel periodo di festa, quando la macchina economica cinese rallenta comunque di molto i propri ritmi, e non dopo. Ma il futuro evolversi dell’epidemia è alquanto difficile da prevedere, a un primo picco durante le feste potrebbe seguire un secondo picco a marzo-aprile, che troverà lo stato cinese altrettanto impreparato, oppure un picco a nord potrebbe essere seguito dopo un paio di mesi da un picco a sud. Di sicuro i burocrati di Pechino hanno guardato anche all’esperienza di paesi vicini come la Corea del Sud, travolta anch’essa da un’ondata di contagi dopo il passaggio al “convivere con il Covid”, ma senza un alto numero di morti e con il sistema sanitario che ha retto – la Corea del Sud però ha un sistema sanitario innumerevoli volte più pronto a rispondere alle emergenze rispetto alla Cina, nonché un livello di vaccinazioni complete con vaccini validi che la Cina assolutamente non ha.
Su un aspetto, ne sono convinto, Pechino ha preso ispirazione da Hong Kong: lì lo scoppio della pandemia di Covid a inizio 2020 è stato il colpo che ha messo definitivamente a tacere, insieme a misure repressive ben studiate, un movimento di protesta provato da logoranti mesi, ma ancora ben vivo. I vertici del Pcc sicuramente puntano sul fatto che, così come a Hong Kong e diversamente che in Occidente, in Cina vi è un’autentica preoccupazione di massa dal basso per i pericoli che comporta l’epidemia e che ciò eviterà il riprendere delle proteste.
L’economia
I dati economici che arrivano dalla Cina, anche quelli delle ultime settimane, sono sempre peggiori, dal crollo delle esportazioni che erano l’ultimo efficace puntello del sistema nazionale, alla brusca frenata della produzione industriale, alla recessione nei servizi e al calo sensibile dei consumi, ai quali va ad aggiungersi la debolezza dello yuan. Il settore immobiliare affonda sempre più in una crisi fatta di crollo delle vendite, cantieri fermi, insolvenze. Evergrande, il mega-gruppo immobiliare di fatto fallito con 300 miliardi di dollari di debiti noti, è arenato da più di un anno in un processo di ristrutturazione del tutto non trasparente, e nulla si sa di esatto sul suo indebitamento reale, di sicuro molto maggiore della cifra ufficiale.
Non si capisce come la Cina, con il proprio settore economico più importante allo sbando, e con il contemporaneo e persistente calo della produzione, degli ordinativi, dei servizi, dei consumi e delle esportazioni, possa riprendersi in modo tale da evitare di cadere in una crisi dagli effetti ben peggiori di quella attuale. A livello propagandistico, Pechino altererà sicuramente le statistiche di alto significato politico al fine di salvare la faccia, come fa da anni: per esempio vertici del Pcc stanno già anticipando che il Pil 2022 potrebbe essere pari a +4,9%, quindi solo di poco inferiore al pianificato +5,5%. La realtà è sicuramente ben peggiore, e non si può nemmeno escludere che la Cina sia addirittura già in recessione.
Ma a parte gli esorcismi da sciamano, quello che più colpisce è il livello astronomico di liquidità che, attraverso vari canali, i vertici cinesi stanno immettendo nel sistema. E’ difficile tenerne traccia con esattezza e fare raffronti con altri paesi, visto che la Cina usa soluzioni diverse da quelle più centralizzate applicate per esempio dalle banche centrali e dai governi occidentali. Pechino immette liquidità nel sistema attraverso la regolazione dei livelli delle riserve delle banche, mediante crediti massicci rilasciati dalle quattro grandi banche “sistemiche” statali, tramite l’emissione di obbligazioni delle entità locali acquistate poi dalle banche statali o garantite di fatto dallo stato, oppure mediante il finanziamento di infrastrutture superflue.
Nel complesso, da inizio anno a fine ottobre, la sola Banca centrale cinese ha immesso liquidità, secondo un suo comunicato, per circa 1 trilione di dollari. A novembre 64 miliardi di dollari sono stati destinati al settore immobiliare, e in contemporanea sono stati liberati 70 miliardi di dollari abbasando le riserve delle banche. A inizio dicembre è stato anticipato che lo stato avrebbe stanziato altri 160 miliardi di dollari per il settore immobiliare attraverso le proprie quattro banche sistemiche, ma una settimana dopo è stato annunciato ufficialmente lo stanziamento a tale settore di una cifra quasi tripla, 462 miliardi, da parte di sole due delle banche, mentre le rimanenti due devono ancora comunicare quali saranno i loro finanziamenti. Subito a ruota, Pechino ha annunciato la destinazione di quasi 150 miliardi di dollari per il settore dei semiconduttori, che si distingue da sempre per la propria bassa produttività e redditività.
Come se non bastasse, qualche giorno fa si è tenuta l’annuale Conferenza economica del Partito Comunista che ha annunciato ulteriori, ma ancora non definite, misure di stimolo dell’economia nei prossimi mesi. Fatti i conti, siamo già ora a un totale di oltre 1,7 trilioni di dollari, ai quali vanno aggiunti altri importi del periodo precedente a ottobre (per es. le emissioni di obbligazioni da parte delle amministrazioni locali o i progetti di infrastrutture inutili)! E a parte il trilione di dollari immesso dalla Banca centrale nell’ambito delle sue politiche monetarie, siamo comunque ad almeno 526 miliardi destinati al solo settore immobiliare in disfacimento, quindi non destinati alla crescita, ma solo a salvare il salvabile. Ricordo che la Cina ha iniziato a essere ammalata inguaribilmente di debito e bolla dopo il varo nel 2009 di un programma da 500 miliardi di dollari in infrastrutture e altri investimenti non necessari, per contrastare la recessione mondiale. Va sottolineato inoltre che Pechino ricopre di centinaia di miliardi speculatori e aziende, ma non destina alcun finanziamento visibile al sistema sanitario totalmente inadeguato.
Le relazioni internazionali
Dopo il recente colloquio tra Xi e Biden, sono proseguiti i contatti tra Cina e Usa che vanno nella direzione di un’intensificazione del dialogo. Si sono tenuti incontri tra diplomatici, definiti come “costruttivi” dai comunicati ufficiali, per aprire la strada a una visita in Cina di Antony Blinken, segretario di stato Usa, a inizio 2023. Vista la situazione descritta sopra, la Cina ha fortemente bisogno di un po’ di respiro sul fronte Usa. Washington ha aperto al dialogo, ma per ora non sembra retrocedere di un passo nelle sanzioni tecnologiche contro la Cina, anzi, dopo gli incontri “costruttivi” ne ha aggiunte altre rilevanti. A inizio 2023 sono previste visite in Cina anche di Emmanuel Macron e Giorgia Meloni, i cui incontri con Xi Jinping diranno forse qualcosa di più riguardo alla complessa e tesa situazione tra Ue e Cina.
Subito dopo i recenti colloqui diplomatici tra Usa e Cina, il portavoce del Cremlino, Peskov, ha detto che ci potrebbe essere un incontro Xi-Putin entro fine anno: una dichiarazione che appare davvero poco credibile, visti i tempi strettissimi. Se ci sarà un tale incontro nei primi mesi del 2023 avrà senz’altro di per se stesso un significato politico, ma per essere realmente fattivo, e non solo di facciata, dovrà essere preparato da contatti diplomatici preparativi di cui al momento non si vede alcun segno. Nel frattempo, la Cina ha vietato senza spiegazioni le esportazioni di un tipo di semiconduttore sul quale alcune aziende russe facevano conto per fare parzialmente fronte alle sanzioni occidentali. Non stiamo parlando di un prodotto di particolare rilevanza tecnica, e quasi sicuramente la Cina ha preso la decisione più che altro perché sottoposta a sua volta a sanzioni tecnologiche, tiene per sé tutto quello che può tenere (il divieto riguarda le esportazioni del prodotto in generale, non solo quelle verso la Russia). Ma il messaggio inviato da Pechino a Mosca non è certo quello della “amicizia senza limiti” dichiarata da Xi e Putin a inizio 2022.
Tuttavia sul piano militare continua l’intensa collaborazione a livello di manovre tra i due paesi. In questi giorni cominciano ampie manovre navali congiunte Cina-Russia nel Mar cinese orientale, ma sono manovre annuali che si ripetono regolarmente già dal 2012. Decisamente più significative le manovre straordinarie tenutesi a fine novembre e durante le quali sei aerei russi e due cinesi, tra i quali due rispettivi bombardieri strategici, sono entrati insieme senza preavviso, ben due volte durante la stessa giornata, nello spazio di identificazione aerea della Corea del Sud, costringendo Seul a fare alzare in volo i suoi jet (qualcosa di analogo era già avvenuto mesi fa). Poi, simbolicamente, il bombardiere russo è atterrato in Cina e quello cinese in Russia, una prima assoluta. Nel complesso Pechino sembra mantenere la posizione che fin qui ha tenuto nei confronti di Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina: nessun aiuto al di là degli aumentati acquisti di gas e petrolio a prezzi scontati, ma proseguimento dei rapporti diplomatici e militari, con un aumento delle manovre congiunte e della loro visibilità.
*articolo apparso il 20 dicembre 2022 su https://crisiglobale.wordpress.com