Il procuratore generale dell’Iran, Mohammad Jafar Montazeri, è stato recentemente citato dai media locali per aver dichiarato che la polizia morale del Paese è stata “sciolta“. I commenti di Montazeri sono arrivati mentre le proteste a livello nazionale erano entrate nel terzo mese, scatenate in settembre dall’omicidio da parte della polizia della 22enne curda Mahsa Amini.
La classe dirigente iraniana sta affrontando la lotta più ampia e verosimilmente più intensa dalla rivoluzione del 1979 che rovesciò Mohammad Reza Pahlavi e abolì la monarchia. Ma è evidente che il governo non ha alcuna intenzione di sciogliere la polizia morale. Il regime ha represso con forza gli scioperi e le proteste a livello nazionale. Secondo un rapporto dell’agenzia di stampa Human Rights Activists, dalla metà di settembre sono stati uccisi almeno 448 manifestanti e arrestate 18’170 persone
Nel contesto di questa rivolta nazionale, che prosegue decisa, alcuni esponenti dell’establishment iraniano hanno fatto capire che il regime potrebbe essere favorevole ad aderire ad alcune delle richieste dei manifestanti.
L’ex ufficiale dell’esercito e attuale ministro del Turismo Ezzatollah Zarghami ha tenuto un discorso all’Università di Sharif in cui ha avanzato la necessità di riforme. Radio Farda ha citato Zarghami affermando: “Oggi le nostre giovani ragazze e studentesse camminano per strada senza velo. E allora? La mancanza dell’hijab ha forse distrutto la rivoluzione e il sistema?”. Osservazioni simili sono state fatte da altri, come il presidente del parlamento Mohammad Baqer Qalibaf.
Ma questi commenti concilianti ed estemporanei da parte di singoli individui rimangono in netto contrasto con la realtà quotidiana. Le proteste stanno affrontando una violenta repressione, che è aumentata nell’ultimo mese. Il regime sta trascinando i manifestanti davanti a tribunali militari in quelli che sono essenzialmente processi farsa. Mohsen Shekari è stato giustiziato questo mese dopo essere stato condannato dopo esser stato accusato di moharebeh (“guerra contro Dio”).
Le voci che provengono dall’establishment militare iraniano rivelano quale sia il reale atteggiamento del regime nei confronti della ribellione. Un alto comandante delle Guardie Rivoluzionarie, Ali Fadavi, in un recente articolo pubblicato dal media statale Fars News ha accusato i manifestanti di essere “tirapiedi della CIA“. Altri ufficiali delle Guardie Rivoluzionarie hanno fatto eco a questa linea.
Le migliaia di arresti, le centinaia di morti e gli innumerevoli episodi di tortura indicano chiaramente che la Repubblica Islamica non è interessata a riconciliarsi con i manifestanti, né a a dare seguito ad alcuna delle principali richieste del movimento.
Le proteste si sono stabilizzate in uno schema ciclico di piccole azioni quotidiane e localizzate, intervallate da mobilitazioni a livello nazionale. Spesso indette da comitati di quartiere, gruppi studenteschi e alcuni sindacati dei lavoratori, queste giornate di azione nazionale uniscono vari scioperi a rotazione e proteste locali.
A metà novembre, tre giorni di proteste hanno coinvolto almeno 62 città, segnando l’anniversario della rivolta del 2019 e onorando le vittime di quello che è conosciuto come “Novembre di sangue“. Barricate in fiamme sono state erette in tutta Teheran, accompagnate da slogan quali “Vendichiamo i nostri martiri!” e “Morte alla Repubblica Islamica!”. Quattromila operai del settore della produzione di acciaio hanno scioperato a Isfahan, innescando una nuova ondata di scioperi a rotazione nelle industrie petrolifere, siderurgiche e manifatturiere del sud del Paese.
Gli scioperi e le proteste sono proseguiti su scala ridotta fino al 5 dicembre, quando è iniziata un’altra mobilitazione nazionale di tre giorni. In occasione della Giornata dello studente, che commemora l’assassinio di tre studenti universitari nel 1953 da parte della polizia iraniana, si sono svolte proteste in più di 80 città. Migliaia di persone hanno sfilato nella capitale Teheran fino a Piazza Azadi (libertà) al grido di “Rivoluzione!”, mentre gli studenti di oltre 100 università hanno inscenato proteste e sit-in nei campus. Il Comitato di coordinamento degli insegnanti, il Consiglio per l’organizzazione delle proteste dei lavoratori a contratto del petrolio (COPOCW), il Sindacato dei camionisti e degli autisti e il Sindacato Haft Tappeh hanno rilasciato dichiarazioni che invitano a scioperare.
Il COPOCW ha esortato i lavoratori che non sono ancora in sciopero a unirsi al movimento, affermando: “Questa è una protesta per tutti noi che siamo schiacciati dalla povertà… per noi non c’è altro modo che lottare uniti per difendere le nostre vite. Abbiamo tutti lo stesso slogan: donne, vita, libertà“.
La lotta è guidata soprattutto dai giovani e si concentra nei campus universitari. Gli scioperi di solidarietà dei lavoratori sono generalmente limitati ai settori più militanti e organizzati. Da novembre, però, sono emersi due importanti sviluppi della lotta: i dibattiti politici e strategici che si svolgono nei comitati di quartiere e l’ampliamento delle richieste economiche e politiche avanzate dai lavoratori in sciopero.
In quanto organismi di organizzazione interclassista, i comitati di quartiere sono politicamente eterogenei. Sorti in tutto il Paese alla fine di settembre, questi comitati organizzano e coordinano le proteste quotidiane. La politica di ciascun comitato è influenzata da una serie di fattori locali, ma tutti concordano su un punto: la Repubblica islamica deve finire.
Ma vi è un ampio dibattito su come raggiungere adeguatamente questo obiettivo. I Giovani dei quartieri di Teheran (YOTN) sostengono che il regime sarà abbattuto dal coraggio del popolo iraniano attraverso le proteste di piazza. Il loro messaggio centrale è che solo l’unità tra le diverse classi sociali e la perseveranza possono raggiungere questo obiettivo. Lo YOTN afferma che, dopo il rovesciamento del governo, si batterà per indire un referendum che possa esprimere la volontà popolare. L’assenza di qualsiasi riferimento alla classe operaia, insieme alla retorica antipolitica e liberale, è in questo caso in netto contrasto con le argomentazioni che emergono in altri comitati di quartiere.
La Gioventù Rivoluzionaria dei Quartieri di Sanandaj (RYSN), situata in Kurdistan, si è distinta come forza dell’ala anticapitalista del movimento. I RYSN sostengono che la lotta per rovesciare la teocrazia capitalista in Iran dipende dalla capacità del movimento di sviluppare una chiara leadership politica e dalla necessità di far emergere la classe operaia. In una recente dichiarazione, il RYSN ha spiegato che ”Stiamo assistendo a scioperi nel sud, in settori chiave come quello petrolifero e petrolchimico… Speriamo che altri settori della classe operaia… si uniscano al movimento rivoluzionario…Il collegamento con il movimento operaio è l’elemento che garantirà di avanzare e di vincere”.
Altri comitati, come la Gioventù rivoluzionaria di Marivan e la Voce delle donne baluci, hanno sviluppato posizioni simili, in particolare sulla centralità della classe lavoratrice nella lotta per rovesciare la Repubblica islamica.
I dibattiti in questi comitati di quartiere riflettono l’approfondimento della lotta in Iran. Ma, come sostiene giustamente RYSN, ogni serio progresso del movimento dipende dalla classe operaia nel riuscire a guidare la mobilitazione contro la Repubblica islamica.
Ci sono segnali che indicano che i lavoratori stanno iniziando a muoversi lentamente verso un intervento più serio nella lotta. Dalla fine di novembre, alcuni sindicati di lavoratori non solo hanno continuato a scioperare in solidarietà con le proteste, ma hanno avanzato ulteriori richieste politiche ed economiche. Il Sindacato dei camionisti e degli autisti è in sciopero in tutte le città dal 26 novembre, per chiedere la fine delle politiche governative sui prezzi del carburante.
I lavoratori a contratto del settore petrolifero di Mahshahr, nel Khuzestan, hanno scioperato la mattina del 4 dicembre chiedendo un aumento dei salari e l’abolizione del lavoro a contratto. Altri lavoratori delle industrie siderurgiche, automobilistiche, manifatturiere e dell’acciao sono in sciopero per una serie di richieste, tra cui aumenti salariali, assicurazione sanitaria, giornate lavorative più brevi e condizioni di lavoro più sicure.
C’è un enorme malcontento per l’aggravarsi delle crisi del capitalismo iraniano e una forte determinazione a lottare. Ma ampie fasce di lavoratori in Iran rimangono disorganizzate. La creazione di sindacati indipendenti in ogni settore resta un compito fondamentale per il movimento operaio. I lavoratori più avanzati – quelli attivi nell’insegnamento e nei settori del petrolio, dell’acciaio e dello zucchero – hanno sviluppato una coscienza di classe e la fiducia in se stessi attraverso decenni di battaglie per conquistare il diritto di organizzarsi.
I lavoratori della canna da zucchero del Sindacato Haft Tappeh sostengono che la strada che si riuscirà a percorre dipenderà dalla capacità dei lavoratori di organizzarsi. In una recente dichiarazione, “Il nostro progresso dipende dall’organizzazione”, spiegano che “Senza un’organizzazione, i lavoratori non possono resistere agli attacchi dei nostri nemici di classe. Le richieste dei lavoratori sono le richieste della maggioranza delle persone… Possiamo vincere solo se saremo organizzati!”.
La ribellione nazionale ha suscitato prese di posizione da parte dei governi di tutto il mondo. A metà novembre l’Unione Europea ha imposto ulteriori sanzioni all’Iran. I beni patrimoniali sono stati congelati e i divieti di viaggio sono stati imposti a 29 persone e tre istuzioni; tra questi i vertici delle forze di sicurezza e i funzionari che hanno guidato la repressione delle proteste in tutto il Paese. Gli Stati Uniti hanno seguito l’esempio, annunciando di recente sanzioni contro tre funzionari responsabili delle forze di sicurezza.
Il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn, citato dall’emittente Al Jazeera quale sostenitore delle sanzioni, ha affermato: “Il regime può aver funzionato negli ultimi 40 anni, ma ora non funziona più. Ed è per questo che l’Unione Europea deve fare questo primo passo“. Anche l’establishment liberale ha lodato le sanzioni come strumento di pressione sulla Repubblica islamica.
Ma è improbabile che nuove sanzioni possano fermare la sanguinosa controffensiva del regime contro la ribellione. Finora, le sanzioni hanno semplicemente contribuito a rendere ancora più miserabile la vita dei lavoratori del Paese, non quella dell’establishment. Jean Asselborn riconosce persino che lo Stato ha continuato a funzionare nonostante le numerose sanzioni subite negli ultimi 40 anni.
Nel 2018 gli Stati Uniti hanno imposto nuovamente sanzioni economiche al Paese, ma il regime ha continuato a espandere il proprio apparato militare e gli interventi imperialisti in tutto il Medio Oriente. La classe lavoratrice iraniana è stata costretta a sopportare il peso di queste opprimenti sanzioni, mentre l’élite del Paese avrebbe goduto di un “boom milionario“, secondo quanto riportato nel 2020 dalla rivista Forbes.
Gli Stati occidentali spesso utilizzano le eroiche mobilitazioni dal basso per vere e proprie campagne di propaganda a favore di un presunto libero e democratico Occidente. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha recentemente affermato che “le donne di tutto il mondo sono perseguitate” e ha chiesto all’Iran di “porre fine alla violenza contro i propri cittadini che esercitano semplicemente i loro diritti fondamentali“. Eppure il più grande attacco ai diritti delle donne nella storia recente degli Stati Uniti si è verificato solo sei mesi fa con l’annullamento della sentenza Roe contro Wade da parte della Corte Suprema.
Sottolineare l’ipocrisia delle classi dirigenti occidentali non significa sminuire o distogliere l’attenzione dai crimini del regime iraniano, che rimane la più grande minaccia e il nemico della classe lavoratrice iraniana. Ma appellarsi ai governi occidentali affinché aiutino il movimento è una strategia senza via d’uscita.
La speranza per il movimento in Iran risiede solo nella classe lavoratrice iraniana che conduce una lotta per abbattere la Repubblica islamica. Come hanno scritto i lavoratori della canna da zucchero di Haft Tappeh in una recente dichiarazione su Telegram: “Le richieste e gli interessi dei lavoratori che costituiscono la maggioranza della società non possono essere soddisfatti da nessuna forza, da nessun eroe, tranne che da noi stessi“.
*articolo apparso il 18 dicembre 2022 su https://redflag.org.au . La traduzione in italiano è stata curata dal segretariato MPS.