Il 24 febbraio 2023 segnerà la fine del primo anno di guerra in Ucraina. Una guerra decisa e scatenata dalla Russia di Putin contro uno Stato sovrano confinante di circa 42 milioni di abitanti. E c’è chi ancora non ha capito tutto ciò.
C’è chi non ha capito che i soldati russi hanno compiuto crimini di guerra, crimini contro l’umanità, stupri di massa, rapimenti di adulti e minori, attacchi e bombardamenti in continuazione su obiettivi civili di ogni genere, minacciato a più riprese di fare uso del nucleare.
Putin, lo statista così corteggiato da tutto l’ Occidente fino a ieri, in quanto padrone di fonti energetiche indispensabili, ha mostrato quanto l’imperialismo russo possa essere pericoloso, non solo per l’Ucraina, ma anche per il resto del mondo.
Chi ancora non ha capito, o fa finta di non capire, ha preso l’abitudine di avanzare vaghe proposte di negoziato, di inviti all’Ucraina affinché dimostri flessibilità, di disponibilità nel concedere qualche cosa a Putin, chiede al Paese invaso di smetterla di chiedere armi, invoca l’intervento dell’ONU e la pace, afferma tranquillamente che tramite il negoziato si può risolvere tutto, e altro ancora.
In tutto questo risulta insostenibile, oltre che moralmente vergognoso, il tentativo di mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti, carnefice e vittime. In modo subdolo si tenta di trasformare una guerra d’aggressione in uno scontro tra giganti della geopolitica, tra Russia e NATO, una guerra per procura.
Addirittura si scomoda la neutralità svizzera, quella dipinta ad arte che ci viene propinata nei discorsi da primo d’agosto.
Vediamola da vicino la realtà di questa presunta neutralità: solo in questi ultimi anni, in fatto di materie prime russe come gas e petrolio, i benefici per il Cremlino si stimano a 200 miliardi dollari annui. Tra il 60 e l’80% di questo commercio ha avuto la Svizzera come via di transito, in particolare Ginevra, Zugo e il Ticino. Nel 2016 Credito Svizzero e UBS hanno prestato a imprese petrolifere russe 300 miliardi di dollari. La Svizzera è anche rifugio strategico per i capitali russi. Nelle banche elvetiche ci sono tra 150 e 200 miliardi di franchi depositati da oligarchi russi. Glencore, multinazionale svizzera e gigante mondiale del commercio di materie prime, ha salvato dalla bancarotta la banca Rosneft pochi anni fa. Società russe come Gazprom, Nord Stream 2, Sber Trading, VTB, si sono installate in Svizzera dopo l’arrivo al potere di Putin.
Tutto questo fa evidentemente parte di scelte politiche ed economiche non casuali, anzi proprio il ruolo della Svizzera come piattaforma mondiale di questi commerci, la sua posizione geografica, la benevolenza delle autorità federali e cantonali verso questi settori economici, il sistema bancario snello e discreto, hanno favorito il tutto. Dopo quasi un anno di guerra la Svizzera applica le sanzioni senza la necessaria severità, anzi, addirittura dall’interno della politica istituzionale arrivano critiche al Consiglio federale di poca convinzione, della mancanza di rapidità. Valga l’esempio degli accertamenti chiesti dalla SECO alle banche a proposito degli averi russi depositati con tempi di risposta da calende greche. Oppure, lo scorso mese d’agosto, l’arrivo in Svizzera di oro russo da raffinare per un totale record assoluto di 312 milioni di franchi.
Insomma, ci vuole del gran fegato per denunciare la neutralità svizzera tradita e calpestata con l’applicazione delle sanzioni alla Russia. In realtà, il capitalismo svizzero ha la sua parte di responsabilità in questa guerra, cioè quella di aver contribuito a mettere Putin economicamente in grado di scatenarla e sostenerla. È d’altronde quello che ha fatto gran parte dell’Occidente.
Adesso bisogna nascondere i danni, le conseguenze. Bisogna provare a girare la frittata, cioè provare a mettere sullo stesso piano russi e ucraini, Putin e Zelensky, aggressori e aggrediti. Tutto condito con slogan accattivanti e irreprensibili come la pace e il negoziato. Come pure tentare la carta della neutralità, sdoganando l’idea che la neutralità svizzera era concreta e immacolata fino al 24 febbraio 2022, per poi perdersi qualche giorno dopo con la decisione di aderire alle sanzioni.
Che la destra economica e finanziaria giochi a questo modo non è una sorpresa. Le sanzioni, seppur applicate senza troppe convinzioni, generano comunque qualche difficoltà, rendono più difficile mantenere quel flusso di affari e profitti cui si erano abituati i nostri capitalisti. Il tentativo di ostacolare il loro mantenimento, addirittura un ampliamento se la situazione dovesse richiederlo, usando l’argomento della neutralità ,è fin troppo evidente. Come lo è pure per qualche reduce stalinista, per il quale Putin altro non è che la continuazione della triste esperienza di quell’epoca. Molti altri, invece, si interrogano onestamente sulla durata del conflitto e le sue ricadute umane, sociali, economiche, ambientali. Purtroppo la situazione va analizzata per quello che è, non per quello che vorremmo. Putin non ha aggredito l’Ucraina perché provocato dall’Occidente (se così fosse, quali colpe avrebbero avuto cittadine e cittadini ucraini per meritarsi tanta violenza?), bensì per una logica interna all’imperialismo russo, per rispondere alle difficoltà interne di un sistema in piena crisi sociale ed economica. Probabilmente anche per mettere le mani su territori ricchi di materie prime , potenzialità agricole immense e un mercato di 42 milioni di persone, nuovi sbocchi marittimi,… Tutto questo condito con un’avversione più volte ribadita da Putin verso le scelte del periodo leninista negli anni successivi il 1917, con la scelta di sostenere il principio dell’autodeterminazione dei popoli, di quello ucraino in particolare. Riportare in auge l’impero significa negare questo diritto, ripristinare il mito della Grande Russia, riportare all’ovile chi aveva osato allontanarsi. Dall’inizio della sua carriera politica, Putin si è sempre comportato così. Prova ne sono le sue avventure militari: la guerra in Cecenia (1999-2009), il Batken diviso tra kirghizi e tagiki, la Georgia (2008), la Crimea (annessa nel 2014), la Siria in difesa del dittatore Assad a partire dal 2015, il Kazakhstan dell’altro dittatore Tokayev all’inizio del 2022, il sostegno incondizionato a Lukashenko, altro paladino della democrazia in Bielorussia. L’Ucraina non è dunque un incidente di percorso, o la risposta alle provocazioni dell’Occidente. Le ragioni di questa guerra vanno ricercate all’interno della Russia e non altrove. Le forze della sinistra radicale ucraina, politiche, sindacali, femministe, ecologiste, chiedono con forza alla sinistra occidentale di svegliarsi, di capire una cosa semplice: arrendersi, negoziare, concedere, significa di fatto prolungare questa guerra. Putin non rispetterà nessun trattato, nessun accordo. La sua volontà durante questo primo anno di guerra sta tutta nelle distruzioni di infrastrutture civili, nei bombardamenti indiscriminati sui centri abitati, nelle fosse comune e luoghi di tortura, nei discorsi deliranti in cui si nega semplicemente all’Ucraina il diritto di esistere. Di conseguenza, fino a quando il popolo ucraino manterrà la sua volontà di resistere e liberare il territorio, manterremo il nostro impegno di solidarietà.
La strada da imboccare non è dunque quella di suggerire cosa fare o di metterci al loro posto, ma di batterci per un Svizzera che cessi di essere una cassaforte del putinismo. Tutti i beni degli oligarchi russi devono essere bloccati, confiscati e dirottati a compenso parziale degli immensi danni provocati dall’aggressione armata. Buona parte di questi oligarchi deve a Putin prestigio e ricchezze, favori e privilegi che li hanno resi ricchissimi. Molti di loro si conoscevano già ai tempi della sua prima elezione, con lui hanno condiviso carriere e interessi. Sono corresponsabili di quanto sta accadendo e se le autorità politiche svizzere e cantonali rifiutano un cambio di passo, allora portano anche loro parte di questa responsabilità. Altro che coloriti appelli all’amicizia con il popolo ucraino, visite lampo a Kiev e conferenze internazionali sulla ricostruzione!
Il movimento della solidarietà con il popolo ucraino (da non confondersi con il governo Zelensky!) deve mettere al centro questi obiettivi se vuole davvero incidere e risultare efficace.
Deve anche impegnarsi concretamente per lottare contro il riarmo che vogliono farci digerire in Svizzera. Questo riarmo miliardario, da 5 a 7 miliardi entro il 2030, andrà a scapito di tutte e tutti noi. Saremo colpiti nel sociale, avremo attacchi sempre più violenti nel settore delle pensioni, ci diranno che dobbiamo rinunciare a quel poco di transizione ecologia previsto (addirittura in neo consigliere federale Rösti ha dichiarato alcuni giorni fa che non esclude aiuti pubblici per l’ammodernamento delle centrali nucleari), a progetti per contrastare la violenza di genere, al miglioramento delle scuole e della formazione, al potenziamento di settori decisivi come la salute. Per contro assisteremo , ad esempio, a tentativi sempre più audaci di allentare la legge sull’esportazione di materiale bellico, altro cavallo di battaglia di tutto il settore degli armamenti. E non da ultimo, in mancanza di un forte movimento di opposizione, cominceranno a farsi avanti i fautori, non solo di una maggiore integrazione/collaborazione con la NATO, ma addirittura di una vera e propria adesione. Non dobbiamo scordarci che la NATO chiede ai suoi membri un contributo pari al 2% dei rispettivi PIL, mentre la Svizzera intende raggiungere, con il progetto da 7 miliardi, l’1%. Qualcuno potrebbe farci un pensierino…
La vera campagna pacifista la giochiamo dunque a casa nostra, opponendoci con forza a questo riarmo!