In Israele, la combinazione finora vincente di neoliberismo e apartheid si sta finalmente scontrando con un muro interno. Dopo mesi di proteste e pressioni economiche, lunedì 27 marzo il Primo Ministro Benyamin Netanyahu ha annunciato di voler sospendere temporaneamente la prossima fase della sua riforma giudiziaria. L’annuncio è arrivato la notte dopo che centinaia di migliaia di israeliani erano scesi in piazza in tutto il Paese, in seguito al licenziamento del Ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu, e dopo l’azione congiunta lunedì mattina da parte delle grandi imprese e dell’Histadrut, il più grande sindacato israeliano [di fatto legato allo Stato] – che era stato fin qui riluttante a unirsi alla protesta contro la riforma giudiziaria.
Questa crisi è il culmine di diversi mesi di guerra economica condotta da ampi settori della società israeliana, comprese le sue élite, contro il governo. Questo confronto interno rivela una sorprendente debolezza nell’economia israeliana, altrimenti in forte espansione e guidata dal settore tecnologic. La domanda che ora ci si pone è la seguente: questa debolezza potrebbe anche rappresentare un’opportunità nella lotta contro l’occupazione e l’apartheid?
In tutti gli anni in cui è stato primo ministro di Israele, il più grande risultato ottenuto da Benyamin Netanyahu è stato quello di far sembrare l’occupazione indolore, o almeno senza costi per gli israeliani. Sotto il suo governo, l’economia israeliana ha conosciuto un boom, grazie soprattutto al suo fiorente settore high-tech. Lo Stato ha migliorato e ampliato le relazioni diplomatiche, aprendo nuovi mercati per l’esportazione di software e la sicurezza informatica, sviluppando legami di sicurezza con partner regionali e rendendo la sua tecnologia militare indispensabile per molti Paesi del mondo.
Il modello economico israeliano dai primi anni 2000 è stato caratterizzato, dallo storico dell’economia Arie Krampf, come un neoliberismo isolazionista [The Israeli Path to Neoliberalism. The State, Continuity and Change, Routledge, 2018]. È stato questo il progetto di Netanyahu: un’economia orientata alle esportazioni con l’obiettivo di costruire una resilienza geopolitica attraverso una strategia commerciale diversificata, un basso rapporto debito/PIL e ampie riserve di valuta estera. Questo modello richiede anche una deregolamentazione aggressiva e tagli alla spesa sociale, che hanno avuto quali conseguenze una disuguaglianza sconcertante e una povertà crescente [The Times of Israel, 23 dicembre 2021, titolo “Più di 2,5 milioni di israeliani vivono in povertà, tra cui 1,1 milioni di bambini“]. Il sistema di welfare è crollato, ma gli investimenti stranieri sono aumentati; la nuova ricchezza di Israele non è stata redistribuita in modo equo e l’élite economica ne è stata felice.
Grazie a questo modello, Israele è stato in grado di diversificare i propri rischi e interessi economici nel mondo e di ridurre in qualche modo la propria dipendenza dagli Stati Uniti. Le relazioni di Netanyahu con leader mondiali come Vladimir Putin e Narendra Modi sono fondate non solo sulla sua propensione per i nazionalisti aggressivi e affini, ma anche su una strategia volta a riequilibrare la posizione di Israele nella sfera globale e a farne un apprezzato partner commerciale e militare.
Sebbene la campagna internazionale per la liberazione della Palestina abbia avuto un impatto sull’opinione pubblica mondiale, non è stata in grado di mettere realmente in discussione questo modello economico. Il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) non è riuscito a rendere il governo e il popolo di Israele consapevoli del costo economico e diplomatico del mantenimento e del rafforzamento dell’occupazione, ma è diventato un catalizzatore per la delegittimazione delle voci pro-palestinesi da parte di organizzazioni hasbara ben finanziate [hasbara, termine usato per descrivere le relazioni pubbliche e la diplomazia di Israele; il termine stesso significa, letteralmente, spiegazione].
L’Autorità Palestinese, da parte sua, non ha promosso misure economiche contro Israele a causa della dipendenza della Cisgiordania dall’economia israeliana e del soffocamento a seguito dell’occupazione militare israeliana. Così, mentre i governi israeliani si sono spostati da decenni sempre più a destra, rafforzando l’occupazione e consolidando un regime di apartheid, lo Stato non ha subito alcun danno economico e la sua posizione diplomatica non ha fatto che rafforzarsi.
Ironia della sorte, ciò che la campagna BDS non è riuscita finora a realizzare, viene ora attuato dagli israeliani ebrei: le élite stanno rapidamente diventando più radicali nella loro lotta contro il tentativo di revisione legale del governo israeliano [statuto della Corte Suprema]. Le inevitabili ripercussioni economiche di questa revisione minacciano il modello isolazionista neoliberista, che da tempo si basa su una forte industria di esportazione e sull’impunità internazionale. Netanyahu è riuscito a proteggere l’economia israeliana dalle pressioni esterne, ma nemmeno lui è in grado di far fronte agli attuali conflitti interni.
Pericoli reali
Martedì scorso, Shira Greenberg, capo economista del Ministero delle Finanze israeliano [a partire da giugno 2019], ha pubblicato un rapporto che suggerisce che, se la riforma legale dovesse essere approvata nella sua interezza, il PIL israeliano potrebbe diminuire di 270 miliardi di NIS (New Israeli Shekel) nei prossimi cinque anni. Altre stime di funzionari dello stesso ministero, presentate al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich all’inizio di questa settimana, suggerivano una perdita annuale di 100 miliardi di NIS. Bezalel Smotrich ha cercato di confondere la questione sostenendo che durante l’incontro sono state presentate prospettive e rischi, ma fonti all’interno del ministero lo hanno contraddetto, dichiarando a Calcalist [quotidiano e sito web economico]: “Non è chiaro di quali prospettive stia parlando il ministro. L’accordo emerso durante la riunione è stato che queste iniziative potrebbero danneggiare seriamente l’economia israeliana“.
Per mesi le istituzioni finanziarie internazionali hanno lanciato l’allarme sulla riforma proposta. L’agenzia di rating Moody’s ha avvertito che la riforma potrebbe impedire il rafforzamento del rating creditizio di Israele, affermando che i cambiamenti previsti “potrebbero anche comportare rischi a lungo termine per le prospettive economiche di Israele, in particolare per l’afflusso di capitali nell’importante settore dell’alta tecnologia”. L’Economist, la principale pubblicazione economica del mondo e barometro delle posizioni dell’élite economica globale, ha recentemente pubblicato un articolo dal titolo: “Bibi distruggerà Israele?”. Sta emergendo un consenso internazionale sul fatto che il nuovo governo potrebbe alterare significativamente la traiettoria del capitalismo israeliano.
L’ipotesi di fondo del Ministero delle Finanze israeliano, di Moody’s e dell’Economist è che quella degli Stati non democratici sia una condizione negativa per gli affari, anche se questo è un mito liberale: molti Paesi non democratici sono grandi centri d’affari. I migliori esempi sono i nuovi alleati di Israele nel Golfo; in molti modi l’autoritarismo può essere utile al capitalismo.
In effetti, Israele stesso non può attualmente essere definito una democrazia, poiché tiene milioni di persone sotto controllo militare negando loro i diritti fondamentali. Ma gli investitori non hanno mai dimostrato di avere un vero problema con l’occupazione. Il rallentamento economico previsto non sarà quindi una semplice reazione alla riduzione dello spazio democratico in Israele, ma piuttosto il risultato di una profonda lotta sociale interna israeliana che proietta il rischio economico verso gli osservatori esterni.
Le dinamiche di panico degli ultimi mesi sono una profezia che si autoavvera. Molti membri dell’élite israeliana sono in posizione di lotta, e il settore high-tech è in cima alla lista. I lavoratori del settore tecnologico, siano essi manager, dipendenti o anche investitori, sono profondamente coinvolti nelle proteste contro il governo. Parlano della fine della democrazia israeliana e sono pronti a fare qualsiasi cosa per fermare i piani del governo.
Allo stesso tempo, coprono i loro rischi personali prendendo in considerazione le destinazioni di migrazione o investendo i loro soldi all’estero. Notizie recenti indicano un esodo di aziende high-tech verso la Grecia, Cipro o l’Albania, dove la scorsa settimana 80 aziende high-tech israeliane hanno tenuto una riunione per discutere di un possibile trasferimento. I ricchi dipendenti dell’high-tech stanno acquistando proprietà in Portogallo, temendo che la riforma abbia successo. Questi preparativi interni inviano al sistema finanziario internazionale il messaggio che la crisi è reale e che Israele non è un rifugio sicuro.
Gli investitori capitalisti non hanno necessariamente bisogno di democrazia. Hanno bisogno di stabilità e prevedibilità, elementi che in Israele attualmente scarseggiano.
È anche l’occupazione
La riforma legale proposta fa parte di un più ampio movimento verso il dominio dell’estrema destra nella politica israeliana. In particolare, la riforma mira a legalizzare l’annessione della Cisgiordania e a consentire la continua persecuzione dei cittadini palestinesi e degli attivisti israeliani di sinistra. Una strategia politica più calcolata da parte del governo Netanyahu sarebbe stata quella di calmare il più possibile la questione palestinese mentre avanzava il progetto legale. Separando le questioni della democrazia israeliana “interna” dalla questione palestinese, sarebbe stato più facile contrastare il movimento di protesta e le pressioni internazionali.
Ma i membri della coalizione di Benyamin Netanyahu si rifiutano di separare queste due questioni: essi fanno capire che la loro principale preoccupazione nel portare avanti la riforma è quella di punire i palestinesi nel modo più brutale, lamentando che la Corte Suprema rende troppo difficile demolire le case o espellere i palestinesi. La retorica razzista pronunciata quotidianamente dai ministri del governo, l’escalation di violenza di Stato in Cisgiordania (sono stati uccisi almeno 80 palestinesi dall’inizio dell’anno) e il pogrom dei coloni a Huwara, elogiato dai ministri del governo, dimostrano che si tratta di un governo di fanatici, intenzionati a radere al suolo la regione. Questo, a sua volta, compromette ulteriormente la reputazione di Netanyahu come leader neoliberale efficace ed efficiente in termini commerciali. Non ha il controllo e le forze destabilizzanti su tutti i fronti – economico, sociale e militare [migliaia di riservisti dicono che non presteranno servizio, compresi 200 piloti che si sono dimessi temporaneamente] – sembrano inarrestabili.
Sembra che le proteste interne e le pressioni internazionali siano riuscite a congelare, anche se solo temporaneamente, lo slancio legislativo per la riforma giudiziaria. Tuttavia, secondo molti analisti economici, gran parte del danno è già stato fatto. L’instabilità degli ultimi mesi e l’estremismo del governo hanno già spaventato molti investitori e reso l’economia israeliana rischiosa. Anche se la riforma verrà bloccata, Israele è sull’orlo di una grave recessione economica.
In pratica, stiamo assistendo alla rottura dell’alleanza egemonica tra il neoliberismo alla Netanyahu e il capitale israeliano. Per anni, il progetto del neoliberismo isolazionista di Netanyahu si è basato sul fatto che Israele è un investimento troppo vantaggioso per essere ignorato. Il potere economico e strategico di Israele avrebbe dovuto contrastare il consenso internazionale contro gli insediamenti e a favore di una soluzione a due Stati. Il capitale globale, che ha permesso all’economia israeliana di prosperare, è stato quindi decisivo nella lotta diplomatica contro la causa palestinese – e per molto tempo ci è riuscito.
Se l’economia dovesse subire una grave recessione, ciò potrebbe avere ripercussioni sull’apartheid israeliana. Se si verificasse il caos sociale ed economico, potremmo vedere le prime crepe nell’impunità di Israele sulla scena mondiale.
*articolo pubblicato dal sito web israeliano +972 il 27 marzo 2023. Traduzione in italiano a cura del segretariato MPS.