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L’effetto dei dati pubblicati dall’Ufficio cantonale di statistica (USTAT)  un paio di settimane fa sull’evoluzione dei salari in Ticino è durato poco. Niente di anormale, neppure in tempi di elezioni cantonali. Questo perché nel nostro cantone si può parlare di tutto, tranne della questione salariale.

La ragione è presto detta: l’evoluzione salariale è lo specchio fedele di una crisi sociale che avvinghia il nostro Cantone da almeno quindici anni. Il nostro è diventato un territorio nel quale una fetta dominante del padronato macina profitti solo grazie a un tasso di sfruttamento basato essenzialmente sulla possibilità di ricorrere a un esercito industriale di riserva – il bacino inesauribile della forza lavoro frontaliera – messo in concorrenza diretta con la forza lavoro indigena. Un esercito industriale di riserva per il quale un salario di 3’200 franchi al mese (è questo il livello del salario minimo legale fissato di recente) costituisce dalle due alle tre volte il salario che potrebbe ottenere rimanendo in Italia a lavorare.

Questa messa in concorrenza contribuisce, in un primo tempo, a stabilizzare i salari in Ticino su livelli estremamente bassi. E in un secondo tempo, grazie all’adozione di soluzioni come i contratti normali di lavoro, il salario minimo legale e – sfortunatamente – alla firma di alcuni contratti collettivi di lavoro, il livello dei salari inizia inevitabilmente a calare. Queste non sono speculazioni ma è il profilo oggettivo – e probabilmente in parte sottostimato – che emerge dai dati forniti dall’USTAT.

È evidente che un tale scenario vada tenuto nascosto, non deve costituire un tema centrale e permanente del confronto politico. Altrimenti si giungerebbe alla conclusione del fallimento sociale ed economico delle forze politiche che gestiscono, secondo i più ferrei principi della “concordanza politica” e “della pace del lavoro”, questo cantone. Nessuna volontà di confronto, nessuna volontà di cambiare radicalmente rotta. Questa condizione non vale per l’MPS. Da anni denunciamo questa deriva profonda della società ticinese, proponendo misure concrete per arginare il fenomeno del dumping, dell’erosione dei salari, ecc.

Gli elementi importanti della crisi sociale e salariale sono molti.

A cominciare da un fenomeno inquietante, definito come la “fuga dei cervelli” o, più in generale, la partenza di giovani residenti in Ticino verso altri cantoni svizzeri. Il grafico che riproduciamo riguarda il saldo degli arrivi e delle partenze dal Ticino verso le altre regioni del paese per fasce d’età dal 1981 al 2021.

La sua lettura è piuttosto semplice. A occhio si vede infatti la spaccatura nella serie storica che avviene attorno all’anno 2005. È infatti a partire da questa data che le partenze diventano superiori agli arrivi e che il saldo negativo inizia a rafforzarsi. A colpire è che il fenomeno riguarda tutte le fasce d’età prese in considerazione. Il crollo è particolarmente evidente per le fasce d’età più giovanili: dai 20 ai 24 anni e dai 25 ai 29 anni. La rottura con la fase precedente è netta. Per quanto riguarda la fascia dai 20 ai 24 anni, l’accelerazione dei saldi negativi delle partenze sugli arrivi testimonia di un cambiamento non secondario. Infatti da un punto storico, le partenze in questa categoria d’età erano alimentate soprattutto dai giovani che partivano verso i cantoni svizzeri per seguire una formazione (universitaria o professionale). Il marcato aumento delle partenze che si registra dal 2007 significa che a questa tipologia “classica” di partenti si aggiunge e si sviluppa anche quella di giovani lavoratori già formati che abbandonano il Ticino, un fenomeno nuovo e preoccupante. 

Il cambiamento di tendenza a partire dal 2005 relativo alla fascia dai 25 ai 29 anni è particolarmente impressionante. In questa fascia d’età sono compresi i giovani che hanno già compiuto una formazione in Ticino e, per molti di loro almeno, già inseriti nel mondo del lavoro. Ebbene, questa fascia è quella che registra la “fuga” più massiccia e continua dal 2005 a oggi. Un movimento molto simile caratterizza anche la fascia dai 30 ai 34 anni, un po’ meno “giovani” rispetto a quella precedente. In questo caso, infatti, si tratta di persone già inserite da diverso tempo nel mercato del lavoro ticinese. Ebbene, dal 2005 anche questa categoria di lavoratori inizia ad abbandonare con maggiore forza il Ticino per raggiungere altri cantoni, portando il saldo fortemente in negativo. Sul periodo preso in considerazione, questa fascia d’età aveva registrato un saldo negativo solo nel 1996 e nel 2001 (lieve). Dal 2005, ogni anno contabilizzerà un saldo negativo. Anche l’evoluzione delle fasce d’età non più propriamente giovanili subisce un peggioramento evidente a partire dal 2005 circa, con un saldo delle partenze che si rafforza notevolmente, andando regolarmente sopra e sotto la linea del segno negativo. Abbiamo ricapitolato in cifre la situazione (tabella 1).

La lettura di questi dati mostra fino a che punto si è operata la rottura sul piano storico. Sul periodo 2011-2021, il Ticino ha perso 6’641 residenti appartenenti alla fascia d’età che va dai 20 ai 49 anni. Di questo totale, quasi il 93% è da mettere in conto al segmento compreso dai 20 ai 34 anni d’età! Fuggono quindi “cervelli e braccia” giovani e meno giovani… Il problema è dunque molto più grave di quanto non si affermi in generale. Quello che si sta configurando è l’inizio, su piccola scala ma già tracciabile dal punto di vista statistico, di un neo movimento migratorio che dal Ticino porta verso i cantoni elvetici. E nella nostra rapida analisi non abbiamo neppure inglobato le partenze e gli arrivi verso l’estero. È molto probabile che il bilancio migratorio tenderebbe a peggiorare ulteriormente. Questo processo dovrebbe essere al centro di un  vasto dibattito politico. Nessuno ne parla. Farlo implicherebbe, oltre a riconoscere la calcificazione di un problema sociale profondo e strutturale, aprire il dibattito sulle cause alla base di questo neo movimento migratorio allargato, ossia in primo luogo la questione salariale.

Perché fuggono “cervelli e braccia” dal Ticino? Per i salari troppo elevati?

Il nostro contributo fa completamente astrazione, perché pura fuffa “politica”, di argomenti quali la “life-work balance” per spiegare il neo movimento migratorio che tocca il cantone Ticino. Infatti, sarebbe la prima volta sul piano storico che un segmento di popolazione emigra per una negativa conciliabilità lavoro-famiglia… Indubbiamente anche su questo fronte sono necessari possenti miglioramenti. Ma difficilmente ciò sarà possibile fino a quando si privilegiano incessantemente politiche di defiscalizzazione del capitale e degli alti redditi, riducendo il substrato fiscale necessario a finanziare lo sviluppo coordinato di servizi pubblici in grado di concretizzare efficacemente la cosiddetta conciliabilità lavoro-famiglia per tutti e tutte.

No, le popolazioni continuano a emigrare – come d’altronde è sempre avvenuto nella storia del Canton Ticino – per migliorare le loro condizioni di vita. Tolte le migrazioni dovute a guerre e a cataclismi “naturali”, le persone si spostano per trovare un lavoro oppure per trovare un lavoro che permetta loro di vivere una vita più dignitosa. Insomma, al centro c’è la ricerca di un salario o di un salario migliore. Da questo punto di vista, non c’è nessuna differenza fra il frontaliere che attraversa il confine quotidianamente e il ticinese che varca le Alpi, spingendosi verso i cantoni svizzeri. Con buona pace della xenofobia leghista. Per chi voglia onestamente confrontarsi con la crisi sociale ticinese, il primo e determinante punto di partenza non può che essere la questione salariale.

Il primo passo in questo senso, è quello di analizzare la situazione in Ticino dal punto della mediana salariale in funzione del grado di formazione. La tabella 2 è stata elaborata dall’USTAT, ufficio che con i pochi mezzi a disposizione (non solo finanziari) svolge un lavoro encomiabile.

Il quadro che emerge è piuttosto drammatico, soprattutto per chi ha conseguito una formazione qualificata, universitaria o professionale. Addirittura, per chi ha ottenuto un titolo universitario o del politecnico, negli ultimi 20 anni, la mediana salariale si è ridotta del 15,83%, pari a una perdita di 1’267 franchi. Un peggioramento in termini reali che ha colpito anche coloro che beneficiano di un’abilitazione all’insegnamento e di una maturità. I possessori di un titolo rilasciato da una scuola universitaria superiore – Supsi – hanno beneficiato di una crescita assolutamente rachitica: + 2,68%, ossia un aumento di 8,9 franchi in media all’anno… Leggermente migliore la situazione dei detentori di un certificato rilasciato da una scuola professionale superiore: questi hanno visto la mediana salariale crescere del 5,22% sul periodo preso in considerazione, ossia una media di 15,5 franchi all’anno… Migliore ma lontana dall’essere accettabile, la crescita della mediana salariale per gli apprendisti, per coloro che hanno realizzato una formazione in azienda o che hanno semplicemente finito le scuole dell’obbligo, senza una formazione professionale completa. Il dato rilevante è comunque che la forza lavoro con una formazione qualificata ha subito durante l’ultimo ventennio una regressione consistente dei salari reali in termini assoluti (in un caso la crescita è stata del tutto irrilevante).

Mentre la situazione si aggrava già solo all’interno del cantone, il fossato è andato allargandosi anche con le mediane salariali a livello svizzero, come chiaramente testimonia la tabella 3.

Non crediamo siano necessari molti commenti di confronto, ma alcuni non possiamo evitarli. La differenza fra una persona in possesso di un titolo universitario in Ticino rispetto a una con lo stesso grado di formazione in Svizzera era di 1’000 franchi nel 2000. Vent’anni dopo, il divario ha raggiunto i 3’438 franchi. Riflesso della considerazione di cui gode l’insegnamento a sud delle Alpi, nel 2000 la differenza tra il salario di un insegnante in Ticino e uno nel resto della Svizzera era di 668 franchi. Nel 2020 il divario è esploso a 3’361 franchi… Più in generale, a livello svizzero i salari di tutte le formazioni, nel periodo 2000-2020, sono cresciuti e anche a livelli nettamente superiori rispetto al soleggiato cantone Ticino.

È sicuramente utile analizzare la crescita del divario salariale fra il Ticino e il resto della Svizzera anche per fasce d’età, in modo da completare, caso mai ce ne fosse bisogno, la dimostrazione che il processo di neo-migrazione è indissolubilmente legato alla profondità della crisi salariale.
Nelle tabelle 4 e 5 abbiamo ricostruito la differenza delle mediane salariali, in valori relativi e assoluti, fra il Ticino e la media svizzera, come anche con il cantone Zurigo. Anche in questo caso i dati che emergono sono di facile lettura nella loro evidente drammaticità. La fascia d’età che resiste meglio è quella dai 20 ai 24 anni. Meglio non vuol dire che l’andamento sia positivo. Infatti, rispetto alla media svizzera, la differenza salariale dal 2000 al 2020 è passata dal 12,3% al 16,58%. In valori assoluti, nel 2000 la differenza era di 445 franchi, passata a 687 franchi nel 2020. Per tutte le altre fasce d’età prese in considerazione, il divario supera ormai il 20% rispetto alla media nazionale (quasi 1’000 franchi al mese).

Particolarmente rilevante il divario per la fascia d’età 35-39 anni, pari al 27,48%, ossia praticamente una differenza di 1’500 franchi mensili. Un divario che spiega come anche questa fascia della popolazione residente ticinese abbia conosciuto un flusso migratorio importante a partire dal 2009. Il confronto diventa impietoso con il cantone di Zurigo. In ben 3 fasce d’età sulle 5 prese in considerazione, la differenza supera ormai il 35%, con la fascia dai 35 ai 39 anni nella quale la differenza sfiora il 40%! In termini reali, si tratta di una differenza di ben 2’144 franchi.

Negare l’evidenza di questi dati e, quindi, il fatto che la crisi salariale sia alla base della crisi sociale che attanaglia il nostro cantone, significa garantire che questa continui ad approfondirsi. I dati del 2022 mostreranno con tutta probabilità un nuovo peggioramento. Affrontare politicamente questa problematica centrale implica ovviamente un radicale cambiamento del tipo di sviluppo sociale ed economico. I partiti di governo, di tutti i colori, non metteranno in discussione il loro asservimento agli interessi padronali fondamentali. Par cambiare questa dinamica sarà necessario fare della questione salariale una priorità popolare, sostenendo qualsiasi forma di lotta, di auto-organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori di questo cantone in grado di porre con determinazione le basi di un cambiamento sempre più urgente.

*articolo apparso anche sul sito www.naufraghi.ch