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Questo articolo esplora le trasformazioni dell’economia mondiale provocate dalla guerra in Ucraina[1]. Estende l’analisi fatta in un articolo pubblicato all’inizio della pandemia di Covid-19, in cui si notava un inasprimento del rapporto tra economia globale e geopolitica a partire dalla fine degli anni duemila (“il momento 2008”) e l’innalzamento di barriere protezionistiche da parte dei governi dei paesi sviluppati per ragioni di sicurezza nazionale (Serfati, 2020). Dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio 2022, la guerra è diventata la forza dominante nelle relazioni economiche internazionali. Il mondo è passato dalle guerre commerciali alla guerra vera e propria. I conflitti tra i grandi paesi mobilitano ora mezzi militari e strumenti economici. Trasponendo l’aforisma di Carl von Clausewitz[2], possiamo quindi osservare che nell’attuale situazione l’economia è la continuazione della guerra con altri mezzi.

La prima parte dell’articolo evidenzia la frammentazione dell’economia mondiale causata dalle rivalità geopolitiche. I leader dell’Unione Europea (UE) e degli Stati Uniti hanno serrato i ranghi di fronte all’aggressione russa[3] e stanno presentando un’unità che sembrava improbabile fino a pochi anni fa. Propongono la formazione di una “NATO economica” che estenderebbe l’alleanza militare unendo i paesi dell’area transatlantica ed invitano i gruppi economici e produttivi di questi paesi a trasferire le loro catene di approvvigionamento globali verso “paesi amici”. L’obiettivo dichiarato è quello di affrontare la Cina, descritta come un “rivale sistemico” dagli Stati Uniti e dall’UE. La seconda parte esamina la fattibilità di questo progetto. La terza parte valuta gli effetti delle sanzioni economiche adottate dai paesi occidentali contro la Russia. L’ultima parte analizza infine il rapporto tra interdipendenza economica e relazioni geopolitiche.

Consolidare il blocco transatlantico attorno a una “NATO economica”

Poco dopo la grande crisi finanziaria del 2008, la Segretaria di Stato Hillary Clinton propose che il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP[4]) negoziato tra gli Stati Uniti e l’UE, già destinato a contrastare l’ascesa della Cina e più in generale dei Brics (Brasile, Cina, India, Russia e Sudafrica), avrebbe dovuto costituire una vera e propria “NATO economica” (Serfati, 2015). Questo progetto economico e geopolitico, che alla fine sarebbe stato abbandonato (Riquadro 1), avrebbe così completato in termini economici l’alleanza militare creata nel 1948 tra gli Stati Uniti e alcuni paesi europei. Questa formulazione, o quella di una “Nato per il commercio per combattere l’aggressione commerciale cinese” (Atkinson, 2021), è stata ripresa dai think tank vicini alla Casa Bianca a partire dalla metà degli anni 2010, quando i conflitti commerciali tra Cina e Stati Uniti si sono intensificati.

Riquadro 1. Il blocco transatlantico

Il blocco transatlantico, composto principalmente dagli Stati Uniti e i paesi europei, ha le sue origini nella congiuntura storica della Seconda guerra mondiale e i suoi sviluppi nell’antagonismo tra i paesi occidentali e l’URSS durante la Guerra fredda. Il blocco è qualcosa di più di un’alleanza economica; si basa sulla solidarietà militare tra i suoi membri (la Nato in Europa e alleanze simili tra gli Stati Uniti e diversi paesi dell’Asia-Pacifico) e su una comunità di valori che combina economia di mercato, democrazia e pace. Questo blocco è gerarchizzato ed è dominato dagli Stati Uniti.

Il periodo successivo alla scomparsa dell’URSS nel 1991 è stato il momento di massimo splendore del blocco transatlantico e ancor più della supremazia statunitense. Il “consenso di Washington” (Williamson, 1990) ha sancito la vittoria dell’economia di mercato capitalista per due decenni. La solidità del blocco transatlantico è stata rafforzata dal massiccio allargamento della Nato, passata da 16 a 30 membri tra il 1991 e il 2021.

Tuttavia, il blocco non è immune dalla concorrenza economica interna, come dimostra il fallimento dei negoziati TTIP, iniziati formalmente nel 2013 tra Stati Uniti e Unione Europea. Il culmine delle rivalità tra gli Stati Uniti e i principali paesi dell’UE si raggiunge durante il mandato di Donald Trump (2016-2020), che considera la Germania dannosa quanto la Cina per gli interessi dell’economia statunitense. Uno degli obiettivi dell’UE, che vuole diventare una potenza geopolitica, è quello di aiutare i suoi Stati membri a presentare un fronte unito nella difesa dei loro interessi economici contro le altre grandi potenze mondiali, compresi gli Stati Uniti. Le differenze tra gli interessi delle due parti, oggi poste in sordina in nome della solidarietà dell’Occidente contro la Russia, potrebbero rapidamente riemergere con il deterioramento della situazione economica.

“NATO economica” e delocalizzazione della produzione nei Paesi “amici”

Dallo scoppio della guerra in Ucraina, si sono moltiplicate le proposte di formare un blocco di paesi che accettino i valori e le regole dei paesi occidentali. Tutte sottolineano il fatto che il periodo della globalizzazione, iniziato il 9 novembre 1989 (caduta del Muro di Berlino) e basato sulle regole del multilateralismo incarnate dall’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), si è concluso con l’invasione dell’Ucraina da parte delle armate russe. In effetti, la lezione principale della guerra in Ucraina è che il commercio internazionale non solo si deve basare sul libero scambio, ma deve anche essere messo in sicurezza. Queste proposte mirano quindi a rendere i paesi occidentali meno dipendenti -a “disaccoppiarli”, come dicono gli angloamericani- dalle economie di Cina e Russia. Per la nuova Premier britannica, il G7[5] -che lei chiama “Rete della Libertà”- “dovrebbe agire come una NATO economica e difendere collettivamente la nostra prosperità. Se l’economia di uno dei paesi membri fosse attaccata da un regime aggressivo, dovremmo impegnarci (sic) a sostenerlo. Tutti per uno e uno per tutti[6]”. Questa formulazione è molto simile a quella dell’articolo 5 della Carta della NATO, che costituisce la pietra angolare dell’organizzazione e che prevede specificamente la difesa reciproca in caso di aggressione di un paese membro.

Oltre alla creazione di una NATO economica, si chiede che i grandi gruppi occidentali delocalizzino le loro attività verso paesi alleati (ally-shoring) (Dezenski, Austin, 2020) o amici (friend-shoring), il che equivale a “delocalizzare le catene di approvvigionamento a paesi politicamente sicuri”[7]. Non si tratta di proposte marginali, poiché provengono principalmente da Janet Yellen, l’attuale Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, e sono state formulate in occasione di una conferenza appositamente convocata sul “futuro dell’economia globale e la leadership economica degli Stati Uniti” due mesi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. La ristrutturazione dell’economia globale prevede il trasferimento delle attività delle aziende statunitensi a “paesi amici”[8]. Diversi leader europei, tra cui la presidente della Banca centrale europea (BCE), Christine Lagarde, sostengono questa richiesta di delocalizzazione verso paesi amici[9].

La messa in atto di questa “geopolitica delle catene di approvvigionamento”, secondo l’espressione usata da Thierry Breton[10], Commissario europeo per l’Industria, responsabile anche della difesa e dello spazio, avrebbe un impatto considerevole. Riguarderebbe settori considerati strategici, il cui elenco stilato dai governi è in costante crescita e potenzialmente illimitato. Emblematicamente, un think tank bipartito statunitense sta redigendo il certificato di morte per la “Internet mondiale” (global internet) e vuole che gli Stati Uniti lancino una “nuova politica estera di Internet (…) che consolidi una coalizione di alleati e amici per preservare il più possibile una piattaforma di comunicazione internazionale sicura e affidabile” (Segal, Goldstein, 2022).

La fine del multilateralismo?

Il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti ha anche annunciato che d’ora in poi il suo paese darà priorità alla creazione di una rete di accordi “plurilaterali”. Questa formulazione non è casuale. La firma di accordi commerciali tra “paesi amici” uniti da valori comuni porrebbe senza dubbio fine al multilateralismo, i cui principi sono stati alla base degli scambi economici internazionali negli ultimi decenni. È vero che si erano già sviluppati accordi bilaterali, in modo particolare per l’istituzione di clausole sociali, e soprattutto che detti principi sono stati progressivamente minati; sono stati anche criticati per “la mancanza di controllo democratico sulle decisioni prese nelle organizzazioni e nelle conferenze internazionali” (Parlamento europeo, 2022:5). Le misure di protezione che contribuirebbero a consolidare questo blocco sarebbero quindi probabilmente condannate dall’OMC, di cui violerebbero chiaramente lo spirito e le regole (Wilson, 2021). La questione è già di attualità, poiché nel marzo 2022 gli Stati Uniti e i paesi europei hanno revocato la clausola della nazione più favorita -che costituisce il nucleo del multilateralismo[11]– nelle loro relazioni commerciali con la Russia.

Gli esperti favorevoli alla creazione di una NATO economica sono consapevoli che le misure adottate derogherebbero “alle regole stabilite dalle organizzazioni internazionali esistenti, l’OMC e le istituzioni delle Nazioni Unite. In fondo, è una questione di volontà politica[12]”. Tuttavia, ci sono argomenti più tangibili della difesa dei valori e della volontà politica per sostenere la prospettiva di un blocco transatlantico come garante dell’economia globale. A partire dalla Seconda guerra mondiale, l’area transatlantica è stata infatti profondamente integrata e ancora oggi domina l’economia mondiale. Gli Stati Uniti e l’Europa rappresentano circa un terzo del commercio mondiale, ma realizzano il 65% degli investimenti diretti esteri che sono il principale vettore della globalizzazione delle catene di approvvigionamento (Hamilton, Quinlan, 2022). E soprattutto, gli Stati Uniti e l’UE dispongono di una formidabile leva finanziaria in un mondo in cui la finanza controlla strettamente le attività produttive. Il dollaro e l’euro sono di gran lunga le valute più importanti utilizzate come mezzi di pagamento nel commercio internazionale attraverso il sistema SWIFT (Riquadro 2).

Riquadro 2. SWIFT, uno strumento del potere finanziario statunitense

La Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (SWIFT) è un sistema privato di interconnessione di 11.000 istituzioni finanziarie e gruppi industriali in più di 200 territori. Ha sede a Bruxelles, ma il suo centro dati si trova in Virginia, negli Stati Uniti. Nel giugno del 2022 ha registrato 45,3 milioni di messaggi al giorno, suddivisi principalmente tra compravendita di titoli finanziari (25,9 milioni) e pagamenti di beni e servizi (poco più di 20 milioni); il principale concorrente creato dalla Cina ha registrato un numero di transazioni dieci volte inferiore a SWIFT. I paesi del blocco transatlantico dominano ampiamente: nell’aprile 2022, il dollaro rappresentava il 41,8%, l’euro il 34,7%, la sterlina il 6,3%, lo yen il 3,2% e il renminbi il 2,1% degli strumenti di pagamento (Eichengreen, 2022). Poiché i pagamenti in altre valute vengono effettuati in dollari, tutte le banche utilizzano la piazza finanziaria di New York per le loro transazioni interbancarie. Gli Stati Uniti rappresentano quindi la spina dorsale del sistema e utilizzano l’extraterritorialità delle loro leggi1 per sanzionare banche non statunitensi -tra cui BNP Paribas che, nel 2014, ha dovuto pagare una multa di 9 miliardi di dollari per aver violato l’embargo statunitense contro l’Iran. Lo SWIFT costituirebbe quindi un “panopticon finanziario” che consente agli Stati Uniti di monitorare i flussi di pagamento globali2.

1 . L’extraterritorialità permette allo Stato americano di applicare una legge americana a delle persone non americane per delle attività che non si svolgono sul territorio americano.

2. A. Mukherjee, «China can bypass SWIFT by putting digital money in play», Washington Post, March 1, 2022, https://wapo.st/3e0wyKt.

L’annunciato abbandono del multilateralismo è preoccupante, soprattutto all’interno del Fondo Monetario Internazionale (FMI), braccio finanziario del commercio internazionale dal 1945, perché, come spiega il suo economista in capo, “le placche tettoniche della geopolitica” si stanno incrinando sempre di più, ricordandoci che questo “mondo frammentato richiede più, non meno, responsabilità per il FMI” (Gourinchas, 2022).

Fattibilità e ostacoli del progetto transatlantico

La riorganizzazione dell’economia mondiale attorno a un asse transatlantico incontra tuttavia serie difficoltà. Da un lato, le sanzioni contro la Russia sono adottate principalmente dai paesi occidentali; dall’altro, la delocalizzazione delle catene di approvvigionamento globali verso paesi amici incontra molti ostacoli.

Le sanzioni contro la Russia sono prevalentemente occidentali

Non è sfuggito agli osservatori che le sanzioni effettuate contro la Russia sono quasi esclusivamente opera dei paesi occidentali, e lo stesso vale per gli aiuti finanziari e militari all’Ucraina, di cui gli Stati Uniti sono il principale fornitore, con il 61% degli aiuti totali e il 76% degli aiuti militari totali (Tabella 1).

Tabella 1. Aiuti finanziari e militari all’Ucraina: un affare occidentale (in miliardi di euro)

Nota: i paesi anglosassoni comprendono Australia, Canada, Stati Uniti, Regno Unito e Nuova Zelanda. Lettura: le istituzioni europee hanno fornito 16 miliardi di euro di aiuti all’Ucraina, di cui 2,5 miliardi di euro sotto forma di aiuti militari. Fonte: Autore, sulla base del database

Questa eterogeneità di reazioni nei diversi paesi alla guerra in Ucraina e alle sanzioni economiche contro la Russia si riscontra anche nella sfera sindacale a livello mondiale (Riquadro 3).

Riquadro 3. Sindacati, guerra in Ucraina e sanzioni contro la Russia

La maggior parte dei sindacati del mondo ha condannato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia come una violazione del diritto internazionale. Ma data la situazione disastrosa in cui versa una parte della popolazione mondiale, l’interesse e l’urgenza della solidarietà con il popolo ucraino sono sentiti in modo diverso. In Africa, la critica di “due pesi e due misure” è rivolta ai governi europei che condannano la guerra in Ucraina, ma sono accusati di permettere il proseguimento delle guerre che dilaniano il continente, e talvolta di prendervi parte direttamente. I sindacati del continente africano hanno anche condannato il comportamento discriminatorio e gli atti di razzismo di alcuni Paesi dell’UE nei confronti degli africani e di altri extraeuropei in fuga dalla guerra in Ucraina.

I sindacati europei chiedono il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina -o no, a seconda del sindacato- dai territori occupati dalla Russia dal 2014. Sostengono le sanzioni economiche contro la Russia e hanno espresso solidarietà concreta al popolo ucraino3. In Francia, come in altri Paesi, un convoglio organizzato dagli otto sindacati nazionali si è recato in Ucraina per fornire aiuti materiali (finanziari e umanitari). Tuttavia, sono divisi sul sostegno militare all’Ucraina. Diversi sindacati italiani hanno indetto uno sciopero generale contro la politica del governo, che è stata criticata per il sostegno militare all’Ucraina e che, a loro dire, porterà a un ulteriore aumento del bilancio della difesa a scapito della spesa sociale. I sindacati europei hanno anche condannato le leggi approvate dal Parlamento ucraino che privano i lavoratori di diritti protettivi essenziali4. Questa legge segna una nuova pietra miliare nella pluriennale offensiva del governo ucraino, che tenta di utilizzare la guerra per i suoi progetti antisociali5.

3. ITUC-Africa, «War in Ukraine: the ITUC-Africa calls for the strengthening of worldwide solidarity», 2022, 

4. EU-Ukraine Association council – ETUC Statement, September 5, 2022, .

5. Informazioni sulla situazione dei movimenti sociali ucraini sono disponibili sul sito https://ukraine-solidarity.eu/

La maggior parte dei Paesi emergenti si è rifiutata di essere coinvolta nella campagna di sanzioni contro la Russia -e secondo un esperto, alcuni Paesi del Sud “potrebbero addirittura sostenere segretamente la Russia”[13]. I Brics, il gruppo formatosi all’inizio degli anni 2000 che costituisce la maggior forza organizzata dei principali paesi emergenti, ma anche Turchia, Messico, Argentina e Indonesia, tutti membri del G20, nonché la maggioranza dei paesi del continente africano, sono ostili alle sanzioni. In occasione del vertice del giugno 2022, hanno persino pianificato di rafforzare l’uso delle valute dei paesi membri nei loro scambi commerciali e di creare un’agenzia di rating indipendente. In seguito all’embargo dell’UE, il governo russo ha riorientato le sue esportazioni di petrolio e gas verso l’Asia -quasi la metà di esse sono ora destinate a questa regione- e verso l’Africa. La resistenza all’applicazione delle sanzioni proviene persino da fedeli alleati degli Stati Uniti e dell’UE (Israele e Arabia Saudita in particolare[14]). In Asia, i paesi già altamente industrializzati e tradizionali alleati di Washington, come la Corea del Sud, il Giappone e persino Taiwan, vedono con sospetto la “politicizzazione” delle catene di approvvigionamento globali e il tentativo degli Stati Uniti di trascinarli in un conflitto aperto con la Cina[15]. Questi paesi ricordano infatti le parole di Donald Trump, che definì il Partenariato Trans-Pacifico (TPP) istituito sotto l’amministrazione Obama, come uno “stupro del nostro Paese” e decise di cancellarlo tre giorni dopo la sua elezione nel 2016[16]. Inoltre, le economie dei Paesi asiatici sono fortemente intrecciate con quella cinese. Per questo motivo l’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), istituito nel 2022 dall’amministrazione Biden con una dozzina di paesi nel tentativo di ristabilire la leadership statunitense nella regione contro la Cina, ha in realtà obiettivi limitati[17]. In sintesi, l’uso di misure economiche a fini geopolitici da parte dell’occidente suscita resistenze in molti paesi.

Questa resistenza da parte di molti paesi emergenti alle sanzioni alleate potrebbe indebolire il ruolo centrale del dollaro nel sistema finanziario internazionale[18], e magari condurre a un nuovo sistema, il cosiddetto Bretton Woods 3[19]. Secondo un autorevole esperto di finanza, infatti, “quando la crisi (e la guerra) saranno finite, il dollaro statunitense dovrebbe essere più debole e, dall’altra parte, il renminbi, sostenuto da un paniere di valute, potrebbe essere più forte”[20] per tre motivi. In primo luogo, a livello tecnico, gli economisti osservano che il possesso di dollari si basa sulle garanzie offerte dalla Federal Reserve (la banca centrale statunitense) e quindi sulla fiducia nell’uso illimitato di questa valuta come mezzo di pagamento. Tuttavia, l’amministrazione statunitense conferma, congelando gli asset in dollari della Banca Centrale Russa, che i propri interessi strategici prevalgono sul rispetto del corretto funzionamento della moneta internazionale, che la potenza che emette liquidità internazionale deve garantire[21]. In secondo luogo, sul piano politico, questa misura unilaterale accelererà la ricerca di alternative al dollaro. Nel 2015, la Cina ha istituito un sistema di pagamento internazionale basato sul renminbi, che ha ancora un uso limitato, ma che potrebbe essere utilizzato per aggirare il dollaro. Un sondaggio condotto tra i funzionari delle banche centrali pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina indica che la maggioranza di esse ha aumentato le proprie riserve in valuta cinese [22]. In breve, la “militarizzazione del dollaro”[23] amplificherà gli scontri geopolitici. Infine, gli Stati Uniti non si trovano più nella situazione egemonica del dopoguerra che ha permesso loro di imporre, anche agli alleati europei, un sistema monetario internazionale -concretizzatosi negli accordi di Bretton Woods del 1944- durante il quale è stata imposta, contro ogni realtà, la convinzione che “il dollaro vale quanto l’oro”.

Una delocalizzazione limitata delle catene di fornitura globali

Anche la “delocalizzazione a paesi amici” delle catene di approvvigionamento globali (SCM Supply Chain Management) dei grandi gruppi -che secondo l’OCSE controllano il 70% del commercio mondiale[24]– solleva interrogativi e si scontra con diverse difficoltà. La crisi sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19 aveva già messo in seria crisi le catene di approvvigionamento organizzate dai grandi gruppi globali. Uno studio di una società di consulenza ha rilevato che “51.000 aziende in tutto il mondo hanno uno o più fornitori diretti (di livello 1) e almeno 5 milioni di aziende hanno uno o due fornitori di livello 2 in Cina e nella regione” (Dun & Bradstreet, 2020). In realtà, la fragilità di questo edificio, costruito sull’estrema segmentazione internazionale dei processi produttivi e interpretato come il felice incontro tra innovazioni tecnologiche e strategie audaci (o dinamiche) dei dirigenti dei gruppi economici e produttivi, era già diventata evidente dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Le strategie di abbassamento permanente del costo del lavoro e la gestione basata sulla ricerca ossessiva del “just in time” per evitare di accumulare scorte stanno ora confermando i loro gravi inconvenienti. Queste scelte strategiche si sono rivelate in parte responsabili dei disservizi delle SCM durante la pandemia di Covid-19 e delle loro conseguenze.

Tuttavia, la delocalizzazione delle attività dei principali gruppi americani ed europei, annunciata dopo la pandemia in nome della “resilienza” delle SCM, rimane limitata, se si esclude ovviamente il massiccio disimpegno dei gruppi occidentali dal mercato russo. Il processo di ritiro dal mercato cinese è molto più limitato, anche se potrebbe aumentare. Tre mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, il 7% delle aziende americane ed europee con una presenza in Cina intervistate aveva chiuso i propri stabilimenti o aveva deciso di farlo a causa delle tensioni geopolitiche[25]. Questa situazione, che potrebbe cambiare sotto la pressione dei governi americani ed europei, si spiega con il fatto che le strategie dei grandi gruppi sono soggette a imperativi contraddittori. Da un lato, la delocalizzazione delle attività verso “paesi amici” risponde all’esigenza di sicurezza degli approvvigionamenti richiesta dai governi occidentali in settori ritenuti strategici e dalle direzioni dei gruppi, consapevoli che essa è ormai indispensabile per la continuità dei processi produttivi nel contesto di crisi multidimensionali. È ovviamente la presenza in Cina di gruppi industriali occidentali ad essere presa di mira negli inviti a delocalizzare in paesi amici. Inoltre, queste delocalizzazioni sono stimolate dagli incentivi finanziari offerti dai governi e dai vantaggi in reputazione che i gruppi possono trarne. D’altra parte, le forze che hanno guidato la delocalizzazione delle attività rimangono potenti (Ruta, 2022). Innanzitutto, sono i costi di produzione a guidare le strategie dei grandi gruppi. Non solo i costi salariali rimangono più alti nei paesi occidentali, ma alcuni temono, prendendo esempio dagli Stati Uniti, che la delocalizzazione forzata per motivi geopolitici si traduca in un aumento del potere dei lavoratori e dei sindacati[26].

La delocalizzazione comporterebbe quindi il rischio per i padroni di invertire il processo di indebolimento dei sindacati causato dalla delocalizzazione. Vi sono inoltre costi associati alla ristrutturazione della catena di fornitura in caso di delocalizzazione. Le SCM dei grandi gruppi comprendono in genere decine o addirittura centinaia di imprese di subappalto, alcune delle quali non sono note ai committenti finali. La loro delocalizzazione rischia quindi di deteriorare le relazioni tra committenti e subappaltatori, la cui qualità è essenziale in alcuni settori ad alta intensità tecnologica. Non è un caso che i dirigenti dei gruppi high-tech siano i più restii a cambiare sede[27]. Inoltre, le delocalizzazioni motivate da ragioni geopolitiche aumenterebbero molto probabilmente i costi degli input prodotti dai fornitori[28] e quindi il prezzo di vendita dei prodotti, almeno se si mantenessero i margini attuali. Ad esempio, il rimpatrio negli Stati Uniti dell’intera produzione di un iPhone venduto da Apple ne triplicherebbe il prezzo per il consumatore finale[29].

Infine, l’argomentazione secondo cui la sicurezza sarebbe migliorata dalla delocalizzazione “fuori dai paesi nemici”, che significa essenzialmente chiudere i siti produttivi occidentali in Cina, è in parte discutibile, poiché la corsa verso nuovi paesi ospitanti ricreerebbe la stessa struttura di dipendenza che ha motivato l’abbandono dalla Cina.

L’efficacia delle sanzioni in discussione

Le sanzioni sono misure unilaterali o collettive adottate contro uno o più Stati accusati di violare le norme internazionali. Il loro scopo è quello di costringerli a rispettarle con mezzi meno gravi dell’intervento militare (Davis, Engerman, 2003), anche se possono essere più letali per le popolazioni[30]. Esse derogano alle regole del multilateralismo nel campo del commercio internazionale, ma l’OMC, che ne è il garante, ritiene, all’articolo 21 della sua carta, che siano legali a condizione che corrispondano a obiettivi di sicurezza nazionale, chiamati anche “interessi essenziali” nei documenti delle organizzazioni internazionali. Ad esempio, un panel dell’OMC ha respinto il ricorso della Russia contro le sanzioni che le erano state imposte dopo l’occupazione militare della Crimea nel 2014. Dalla metà degli anni ’90, l’articolo 21 ha permesso ai governi dei paesi sviluppati ed emergenti di ampliare in modo significativo lo spettro delle attività che desiderano proteggere in nome della loro sicurezza nazionale (Serfati, 2020).

Sanzioni alla Russia: le più gravi dalla Prima Guerra Mondiale

Le sanzioni imposte dai paesi occidentali contro l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio 2022 sono le più ampie dalla Prima guerra mondiale e sono significativamente più dure di quelle imposte nel 2014. All’epoca, l’UE era stata meno aggressiva degli Stati Uniti nell’escludere le importazioni di gas dal pacchetto di sanzioni. Inoltre, il coordinamento transatlantico era scarso, e lo era stato ancor più con la presidenza di Donald Trump.

Queste misure sono oggi caratterizzate da tre dimensioni inedite. In primo luogo, riguardano l’embargo sulle esportazioni di tecnologia, che è stato notevolmente inasprito rispetto a quello deciso nel 2014. In secondo luogo, le sanzioni finanziarie contro lo Stato e il sistema bancario russo sono indiscutibilmente la componente più massiccia, anche se la qualifica di “arma nucleare” data da Bruno Le Maire, allora ministro delle Finanze del governo francese di Castex, era esagerata. Le misure adottate da Stati Uniti e Unione Europea comprendono il divieto per le loro banche di accettare pagamenti dalle banche russe, con tre conseguenze principali: la sospensione del pagamento (o l’inadempienza) del debito russo, il congelamento delle riserve in valuta estera della Banca Centrale Russa (circa la metà dei suoi 670 miliardi di dollari di riserve) e l’esclusione delle banche russe dal sistema SWIFT (Riquadro 2). Questa esclusione sta causando una strozzatura nel flusso degli scambi di merci tra la Russia e i paesi occidentali, sebbene gli Stati membri dell’UE abbiano fatto un’eccezione per il pagamento delle importazioni di gas russo. Un think tank statunitense ha spiegato, un mese prima della guerra, che l’annuncio delle sanzioni finanziarie da parte del presidente Joe Biden dimostrava “la capacità degli Stati Uniti di mettere in difficoltà la Russia senza sparare un colpo, [confermando] la sovranità degli Stati Uniti e del dollaro nell’economia globale” (Pearkes, 2022). Infine, le sanzioni prendono di mira i beni finanziari e immobiliari di alcune personalità russe.

Le sanzioni economiche non sono un’arma nuova. Sono misure unilaterali o collettive adottate contro uno o più Stati accusati di violare le regole internazionali. Sono diventate più comuni nel XIX secolo, a partire dal blocco organizzato nel 1827 da Francia, Gran Bretagna e Russia per impedire agli eserciti ottomano ed egiziano di combattere contro la Grecia, che lottava per la propria indipendenza. Sono state utilizzate più di un centinaio di volte fino alla Seconda guerra mondiale, quasi sempre da grandi potenze contro paesi di dimensioni molto più piccole (Davis, Engerman, 2003). Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti sono stati il paese che ha fatto un uso più esteso delle sanzioni economiche. Le amministrazioni Obama (2008-2016) e Trump (2016-2020) vi hanno fatto ricorso più volte (contro Corea del Nord, Cuba, Iran, Siria e Venezuela) dopo i fallimenti delle guerre in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003).

L’effetto delle sanzioni mitigato dalle esportazioni di petrolio e gas… nel breve periodo

In generale, l’efficacia delle sanzioni economiche è oggetto di dibattito tra gli storici. Anche le sanzioni attualmente imposte alla Russia sollevano interrogativi. Da un lato, hanno un effetto negativo sull’industria russa, che dipende fortemente da componenti esteri per alcuni settori strategici. È innegabile che l’embargo sui componenti e sui sottosistemi importati dalla Russia stia danneggiando i settori aeronautico[31] e automobilistico, la cui produzione è crollata dopo le sanzioni, passando dalle 108.000 auto prodotte a febbraio alle 3.700 del maggio 2022[32]. È persino probabile che la produzione di sistemi d’arma venga ostacolata, il che la dice lunga sul grado di dipendenza dell’industria russa dai prodotti occidentali. Il governo russo ha dovuto ordinare droni alla Turchia -che li fornisce anche all’Ucraina- e missili alla Corea del Nord. Le sanzioni imposte dai paesi occidentali si stanno quindi aggiungendo alle spese per la guerra nel provocare una grave recessione. Il PIL russo potrebbe diminuire del 7,5% nel 2022 (COFACE, 2022) e molto di più negli anni successivi. È su questa base che l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza ha dichiarato che “le sanzioni sono efficaci” (Borrell, 2022).

Tuttavia, il governo russo è riuscito finora a mitigare gli effetti delle sanzioni finanziarie. Le riserve della Banca centrale russa sono ai massimi storici grazie alle entrate derivanti dalle esportazioni di petrolio e gas, i cui prezzi sono aumentati in seguito all’embargo occidentale. Lo shock per l’economia russa è stato attutito dai paesi europei che hanno permesso di continuare a utilizzare il sistema SWIFT per il regolamento degli acquisti di gas. Inoltre, diversi paesi hanno stipulato importanti contratti per il gas che hanno più che compensato la graduale perdita del mercato europeo per i gruppi energetici russi. Il risultato è un surplus nella bilancia commerciale russa di 95,8 miliardi di dollari per i primi quattro mesi del 2022, un livello che non si vedeva dal 1994. Tuttavia, questo avanzo non riflette la forza economica del paese, poiché da un lato il prezzo molto alto del petrolio e del gas potrebbe non durare, dall’altro è in parte il risultato del forte calo delle importazioni dovuto alle sanzioni (Darvas, Martins, 2022). Nel medio termine, il futuro dell’economia russa è quindi piuttosto cupo. In effetti, gli esperti russi hanno informato i leader del paese che le sanzioni potrebbero portare a una recessione di diversi anni[33].

Ci si interroga anche sulla reale portata delle sanzioni che riguardano i dirigenti e gli uomini d’affari russi. Questi ultimi hanno assaporato le delizie dei paradisi fiscali, che si sono moltiplicati con la deregolamentazione dei mercati finanziari e le misure governative adottate nei paesi occidentali per attrarre capitali finanziari. Si stima che metà della loro ricchezza sia ospitata lì (Novokmet et al., 2018). Per colpire realmente la ricchezza degli oligarchi sarebbe quindi necessario sferrare colpi decisivi all’architettura finanziaria internazionale di cui beneficiano in larga misura le banche e le famiglie ricche dei paesi occidentali. Ciò è improbabile, poiché le opportunità di investimento di capitali esenti da imposte si sono invece moltiplicate dopo la crisi finanziaria del 2008 (Damgaard, Elkjaer, 2018).

Una crisi senza precedenti in un contesto di profonda integrazione economica e di inasprimento delle rivalità geopolitiche

La guerra in Ucraina e le richieste di creazione di una “Nato economica”, con i suoi effetti sulla ristrutturazione delle SCM, stanno aprendo una nuova configurazione dello spazio mondiale che alcuni paragonano a quella della Guerra Fredda, con la guerra in Ucraina che riecheggia la Guerra di Corea del 1950-1953[34]. Questo riferimento sottolinea giustamente la gravità delle tensioni attuali, poiché la guerra di Corea ha quasi portato a un nuovo uso delle armi nucleari. Tuttavia, ai fini del presente articolo, una differenza importante rispetto all’era della globalizzazione che ha preso piede negli ultimi tre decenni è che i sistemi socio-politici occidentali e sovietici avevano all’epoca relazioni economiche limitate.

Dei settori industriali prigionieri della produzione di materiali importati da Russia e Ucraina

Un confronto della situazione attuale con i decenni che precedettero la Prima guerra mondiale è in realtà più proficuo (Dent, 2020), e non solo perché quest’ultima fase è stata definita la “prima globalizzazione” in seguito al lavoro dello storico Paul Bairoch. Allora come oggi, l’integrazione economica globale coinvolge paesi come la Germania e la Francia, legati da ampi scambi economici e allo stesso tempo impegnati in micidiali rivalità geopolitiche. Naturalmente, per definizione, un’analogia non cancella l’esistenza di realtà diverse che sono oggetto di confronto. Per esempio, l’interdipendenza dei territori nazionali oggi è di dimensioni sproporzionate rispetto a quella che esisteva prima del 1914, anche se Keynes notava, un secolo prima dell’arrivo di Deliveroo, che un membro della classe alta o media di Londra “poteva, mentre si godeva il suo tè mattutino, ordinare per telefono i vari prodotti di tutta la terra nelle quantità che gli convenivano, e aspettarsi di vederli presto consegnati alla sua porta” (Keynes, 1919).

La guerra in Ucraina conferma quanto la formazione delle SCM abbia approfondito la divisione internazionale del lavoro e quindi aumentato l’interdipendenza economica tra i paesi. Molti settori industriali dipendono quasi totalmente dalla produzione di materiali importati dalla Russia e dall’Ucraina. L’Ucraina controlla il 70% della produzione di gas neon, essenziale per i laser utilizzati nella produzione di semiconduttori. Questo gas è un sottoprodotto dell’industria metallurgica russa e viene purificato in Ucraina (Organizzazione Mondiale del Commercio, 2022). L’industria statunitense dei semiconduttori dipende per oltre il 90% dal neon importato dall’Ucraina. La Russia controlla il 26% della produzione mondiale di molti metalli rari come il palladio, essenziale per la produzione di marmitte catalitiche. Le industrie automobilistiche dei paesi occidentali dipendono da queste importazioni: 56% per il Canada, 45% per il Giappone e l’Italia, 43% per gli Stati Uniti e 38% per la Corea del Sud (ibid.). Questi sono solo alcuni esempi tra i tanti.

Negli ultimi tre decenni, i grandi gruppi russi e cinesi si sono pienamente integrati nell’economia mondiale, anche se con modalità diverse. I gruppi russi si trovano principalmente a monte delle catene del valore dei gruppi occidentali, ai quali forniscono risorse naturali (petrolio, gas), materiali critici (metalli utilizzati nella produzione di semiconduttori) e prodotti chimici (Winkler, Wuester, 2022). I gruppi cinesi sono maggiormente presenti nelle SCM, poiché sono al centro dei processi di trasformazione degli input in prodotti finiti.

Forti rivalità geopolitiche

Tuttavia, questa integrazione economica globale coinvolge paesi che sono forti rivali geopolitici i cui gruppi industriali competono sui mercati mondiali. Le tensioni politiche tra i paesi occidentali e la Cina non hanno impedito a quest’ultima di aderire all’OMC nel 2001 e la candidatura della Russia è stata accettata nel 2011, anche se dalla fine degli anni duemila Vladimir Putin ha inasprito il suo discorso nei confronti dell’Occidente e ha scatenato guerre in Cecenia e in Georgia.

Alcuni economisti, preoccupati per la continua frammentazione dell’economia globale, raccomandano di separare le rivalità geopolitiche dall’integrazione economica globale perché “l’interdipendenza economica, (…) anche se a volte è complicata, aiuta a mantenere la pace”[35].

La prospettiva adottata in questo articolo è diversa. La storia degli ultimi due secoli dimostra che le interazioni tra l’economia globale e il sistema internazionale degli Stati, alla base delle rivalità geopolitiche, sono permanenti. La competizione economica e le rivalità geopolitiche rimangono strettamente intrecciate, anche se il loro rapporto cambia e dà luogo a diverse congiunture storiche. L’estensione globale dell’economia di mercato capitalista non ha eliminato l’esistenza delle relazioni sociali su cui si basa e queste rimangono territorialmente circoscritte e politicamente organizzate intorno agli Stati. Stiamo riscoprendo, ad esempio, che i grandi gruppi mondiali, nonostante la natura “globale” delle loro strategie, mantengono legami privilegiati con i loro territori d’origine e i loro governi attraverso numerosi canali. L’aggravarsi della crisi consoliderà questi canali, ma accentuerà anche la competizione sui mercati mondiali, rafforzandone la colorazione geopolitica.

Conclusioni

Questo articolo riassume gli effetti della guerra in Ucraina sull’economia globale, compresa l’accelerazione della frammentazione della produzione globale, un processo che era già ben avviato negli anni 2010. L’obiettivo della NATO economica si basa principalmente sulla delocalizzazione delle attività verso “paesi amici” e prende di mira la Cina come “rivale sistemico”. Questo progetto, così come le sanzioni occidentali contro la Russia, sono contestati da molti altri paesi, soprattutto da quelli emergenti. 

L’entità dei pericoli derivanti dall’aumento delle tensioni geopolitiche in un contesto di integrazione economica sempre più profonda non deve essere sottovalutata. Il dramma sociale va ovviamente menzionato per primo. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, 1,2 miliardi di persone in 94 Paesi che si trovano in “piena tempesta ” (perfect storm) sono esposti alle tre dimensioni della crisi attuale: cibo, energia e finanza (UN Global Crisis Response Group on Food, Energy and Finance, 2022). Purtroppo questo elenco è incompleto: ad esso vanno aggiunti almeno la crisi sanitaria e quella climatica, che completano il quadro preoccupante del disordine globale che sta prendendo piede.

* Claude Serfati è un economista specializzato in industria e innovazione, ricercatore associato presso l’Institut de Recherche Économique et Sociale, docente senior presso l’Università di Versailles-Saint-Quentin e membro del comitato consultivo scientifico di ATTAC. Tra le sue pubblicazioni figurano L’Industrie française de défense (2014) e La Mondialisation armée (2001). Questo articolo è stato pubblicato originariamente su La chronique internationale de l’IRES, 2022/3, n° 179.

[1] Ringrazio Jacques Freyssinet, Kevin Guillas-Kevan, Frédéric Lerais, Antoine Math e Catherine Sauviat per le loro osservazioni. Il contento di questo articolo è unicamente responsabilità mia.

[2] «la guerra è una semplice continuazione della politica con altri mezzi», Carl von Clausewitz, Della guerra, Torino, Einaudi, 2007.

[3] Per un’analisi delle singolarità dell’imperialismo russo, vedi Serfati (2022).

[4] In inglese, TTIP per Transatlantic Trade and Investment Partnership

[5] Il G7 è un gruppo informale composto dai seguenti paesi: Germania, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone e Gran Bretagna

[6] L. Truss, «The return of geopolitics: Foreign Secretary’s Mansion House speech at the Lord Mayor’s 2022 Easter Banquet», April 27, 2022, .

[7] M. A. Witt, «Prepare for the U.S. and China to Decouple», Harvard Business Review, June 26, 2020, https://hbr.org/2020/06/prepare-for-the-u-s-and-china-to-decouple

[8] «Remarks by Secretary of the Treasury Janet L. Yellen on Way Forward for the Global Economy», April 13, 2022, https://home.treasury.gov/news/press-releases/jy0714.

[9] C. Lagarde, «A new global map: European resilience in a changing world», presentation au Peterson Institute for International Economics, Washington DC., April 22, 2022,.

[10] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/SPEECH_22_5350.

[11] Questa si basa sul principio della non-discriminazione fra i partner commerciali e tende ad evitare che i paesi accordino un trattamento diverso fra un partner e l’altro..

[12] G. Merritt, «The case for an “economic NATO” to clip provocative China’s wings», Friends of Europe, April 20, 2021,.

[13] D. W. Drezner, «How robust is the global opposition to Russia’s invasion of Ukraine?», Washington Post, March 29, 2022, https://wapo.st/3CtMD4I.

[14] Poco dopo l’invasione russa, questo paese ha investito lo stesso in Russia circa 4 miliardi di dollari in un programma triennale di sviluppo energetico.

[15] Per una visione contraria, che analizza l’ascesa degli Stati Uniti in Asia e il declino della Cina, vedi Rozman (2022).

[16] A. Glass, «Trump scuttles Trans-Pacific Trade Pact, Jan. 23 2017», January 23, 2019, https://politi.co/3SBj9aJ

[17] M. Forough, «America’s Pivot to Asia 2.0: The Indo-Pacific Economic Framework», The Diplomat, May 26, 2022,

[18] R. Wigglesworth, P. Ivanova, C. Smith, «Financial warfare: will there be a backlash against the dollar?», Financial Times, April 7, 2022, https://www.ft.com/content/220db8f2-2980-410f-aab8-f471369ac3cf.

[19] Il sistema monetario internazionale implementato a Bretton-Woods nel 1944 consacrava l’egemonia del dollaro e la possibilità in qualsiasi momento di conversione in oro delle riserve in dollari possedute dalle Banche centrali. La non-convertibilità in oro venne annunciata dal Presidente Nixon il 15 agosto 1971 (sistema detto di Bretton-Wood 2).

[20] Crédit Suisse, «Zoltan Pozsar: “We are witnessing the birth of a new world monetary order”», March 21, 2022,

[21] Pisani-Ferry, «Will Russia or the West win the economic and financial battle?», Project Syndicate, September 1, 2022,

[22] Duguid, N. Asgari, «Central banks look to China’s renminbi to diversify foreign currency reserves», Financial Times, July 1, 2022, https://www.ft.com/content/ce09687f-f7e5-499a-9521-d98cbd4c5ac1.

[23] Voir Arslanalp et al. (2022) ; V. Pop, S. Fleming, J. Politi, «Weaponisation of finance: how the west unleashed “shock and awe” on Russia», Financial Times, April 6, 2022, https://www.ft.com/content/5b397d6b-bde4-4a8c-b9a4-080485d6c64a.

[24] https://www.oecd.org/trade/topics/global-value-chains-and-trade/.

[25] Huld, «China Business Sentiment Surveys: Foreign Companies Remain Committed Despite Headwinds» (« I gruppi stranieri restano in Cina malgrado i venti contrari»), China Briefing, May 20, 2022,.

[26] R. Forhoohar, «Who will pay for the shift from efficiency to resilience?», Financial Times, September 12, 2020, https://www.ft.com/content/7dd4c3f0-0a8e-49ce-8022-9c8d75af3e3d.https://mck.co/3rzp1oO.

[27] https://mck.co/3rzp1oO

[28] https://bit.ly/3ygZhkS

[29] S. V. Smith, «How much would an all-American iPhone cost?», Marketplace, May 20, 2014, https://bit.ly/3UZir8F.

[30] Secondo le stime, fra 200.000 e 300.000 bambini sono morti a causa delle sanzioni imposte all’Iraq nel decennio 1990.

[31] B. Trévidic, «Le fleuron de l’aviation russe se cherche un avenir sans ses moteurs français», Les Échos, 12 septembre 2022.

[32] https://bit.ly/3rsqe1h.

[33] Bloomberg, « West’s sanctions could damage the Russian economy for the next decade », Fortune, September 6, 2022, https://bit.ly/3SZFIWt.

[34] J. Lee, « What Ukraine is teaching us about geoeconomics », tavola rotonda organizzata dalla IGCC, 15 giugno 2022, https://bit.ly/3C5pHra

[35] R.G. Rajan, « Just Say No to “Friend-Shoring” », Project Syndicate, June 3, 2022, https://bit.ly/3EevIEs.

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