Pubblichiamo questo articolo apparso sul numero di Marzo di Solidarietà. Purtroppo, per un errore di impaginazione, quella pubblicata sul giornale è una versione non corretta e con molti refusi che rendono difficile la lettura. Lo ripubblichiamo quindi nella versione corretta, sicuri che le lettrici e i lettori di Solidarietà, oltre che quelli del nostro sito, apprezzeranno. (Red)
Solo chi vive nel mondo delle beate illusioni può pensare che la crisi di Credit Suisse (CS) e la sua acquisizione da parte di UBS non comporterà la soppressione di migliaia e migliaia di posti di lavoro; soppressione che non riguarderà, come si tende a pensare, solo gli “esuberi” di CS che non potranno essere integrati nella nuova UBS.
I padroni, e quelli delle banche sono sicuramente tra i peggiori nel modo in cui trattano i lavoratori e le lavoratrici e i loro diritti, hanno l’abitudine di mettere in concorrenza i salariati, soprattutto quando, di fronte a possibili “esuberi” di personale, devono decidere chi e come licenziare. Ed è abbastanza evidente che per molte funzioni che risulteranno essere dei “doppioni” nel futuro assetto di UBS, questa non esiterà a mettere in concorrenza i propri attuali dipendenti occupati in quelle funzioni con i potenziali nuovi dipendenti provenienti da CS, in particolare se questi ultimi porteranno con sé una parte di clientela.
Nuova situazione, vecchie proposte
Di fronte al pacco di miliardi messi a disposizione per l’operazione da Banca Nazionale e Consiglio Federale e dalla stessa UBS, non si può non notare come nemmeno un centesimo sia stato stanziato per lenire le conseguenze occupazionali dell’operazione. Naturalmente perché le conseguenze sociali delle decisioni in materia occupazionale, UBS le scaricherà totalmente sulle cosiddette assicurazioni sociali (a cominciare dall’assicurazione disoccupazione). La situazione, di fronte a migliaia di licenziamenti prospettati, appare drammaticamente chiara: chi sarà colpito dal licenziamento avrà di fatto scarse possibilità di trovare occasioni di occupazione nel settore bancario e anche in quello finanziario. Questo perché il nuovo mostruoso colosso UBS di fatto occuperà i due terzi del settore bancario nel nostro paese.
E allora, non resta che rivolgersi alle proposte classiche, abbandonate in questi ultimi anni persino dal movimento sindacale, ma che, in contesti come questo e che tendono a riproporsi sempre più spesso (pensiamo alle decine di migliaia di licenziamenti da parte delle aziende legate alle nuove tecnologie come Google, Twitter, etc.) appaino come sempre di grande e concreta attualità: ci riferiamo a radicali diminuzioni del tempo di lavoro. Una proposta che, naturalmente, contempla di fatto una redistribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro: un contributo che la nuova UBS o il vecchi CS sicuramente potrebbero mettere a disposizione.
Povero sindacalismo
È in questa direzione che, prima di discutere di qualsiasi altra opzione, dovrebbe muovere la posizione di un sindacalismo degno di questo nome. Contestare prima di tutto i licenziamenti, rivendicare poi soluzioni alternative quali la diminuzione radicale del tempo di lavoro o, per i lavoratori già avanti con gli anni, il finanziamento di una rendita transitoria che permetta loro, senza decurtazioni, di scivolare tranquillamente verso il pensionamento mantenendo tutti i diritti acquisiti. Invece, abbiamo a che fare con rappresentanti sindacali, o presunti tali, che non solo ammettono che effettivamente bisognerà accettare i licenziamenti, ma che l’unica alternativa è un buon piano sociale, con “un occhio di riguardo” per i lavoratori e le lavoratrici più in là con gli anni.
Ad esprimere fin dall’inizio della vicenda questo orientamento di grande sottomissione agli imperativi delle banche è la codirettrice dell’Associazione svizzera degli impiegati di Banca (ASIB) Natalia Ferrara, per altro esponente, piuttosto connotata a destra dal punto di vista sociale, di quel PLRT che è il vero artefice – e da sempre – degli interessi del padronato bancario.
Ricordiamo che l’ASIB non solo è una federazione dell’Unione Sindacale Svizzera (USS), ma che un personaggio come la Ferrara fa parte del Comitato centrale della stessa USS. Il che la dice lunga su quanto sia caduto in basso il movimento sindacale. E quando vediamo il presidente dell’USS Maillard affermare che bisogna battersi per difendere i lavoratori del settore bancario fianco a fianco a Natalia Ferrara, comprendiamo come le sue non siano altro che vuote parole che non porteranno da nessuna parte.
Nemmeno un tentativo di mobilitare le lavoratrici e i lavoratori, di esprimere pubblicamente la loro rabbia, di tentare di costruire una pressione pubblica. Niente di tutto questo. Nemmeno un piccolo presidio da qualche parte come, ad esempio, è stato fatto per i dipendenti di Google che hanno raccolto alcune centinaia di lavoratori e lavoratrici a Zurigo per protestare con il drastico taglio (5’000 posti) di personale. Diciamolo in modo più chiaro: è difficile praticare un sindacalismo serio senza avere una prospettiva di classe. E qui, non intendiamo evidentemente, una prospettiva rivoluzionaria. Ma, più semplicemente, avere come assunto il fatto che esistono delle classi sociali che hanno interessi materiali, sociale e culturali radicalmente diversi. Persino un personaggio come Camillo Jelmini, presidente per molti anni dell’OCST, cioè di un sindacalismo assai moderato, faceva sistematicamente riferimento, nei suoi interventi e nei suoi discorsi, all’esistenza di una classe lavoratrice. Altri tempi!
Le cose, naturalmente, non cambiano nemmeno a livello cantonale, dove i responsabili delle diverse federazioni, in nome del quieto vivere nei rispettivi settori di competenza vigenti nell’USS, se ne stanno zitti zitti e lasciano fare a Natalia… Povero sindacalismo!