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Salario, tempo, rispetto“. Queste parole riassumono le nostre rivendicazioni sindacali per il nuovo sciopero femminista del 14 giugno 2023. Quando si parla di salari, la strada da percorrere è ancora lunga: nel corso della vita lavorativa, il reddito delle donne è inferiore del 43% rispetto a quello degli uomini.

Si versano miliardi nelle banche, ma mancano i fondi per aumentare i salari e le pensioni delle lavoratrici. A più di 40 anni dall’adozione dell’articolo costituzionale sull’uguaglianza, che afferma il principio della parità di retribuzione per un lavoro di pari valore, la situazione non è ancora soddisfacente: nel 2020, il divario salariale medio per un lavoro a tempo pieno è del 18%, rispetto al 18,1% del 2014.

Colpa delle donne?

Quando Marco Taddei, dell’Associazione svizzera degli imprenditori, afferma che “l’uguaglianza non sta andando indietro, ma in avanti” [1], ci si chiede su quali dati fondi il suo ragionamento. Probabilmente sul nulla, visto che si tratta di portare avanti un’offensiva con un duplice obiettivo: rendere invisibile la disuguaglianza e far ricadere sulle donne stesse il peso delle discriminazioni subite. Le lavoratrici con salari bassi sceglierebbero i lavori sbagliati, non saprebbero come negoziare il loro salario quando vengono assunte e, una volta diventate madri, ridurrebbero il loro tasso di attività per scelta. Quindi, se poi ricevono pensioni miserevoli, è solo colpa loro!

Non c’è niente di più fuorviante di questa narrazione colpevolizzante dei datori di lavoro e della destra. Da decenni ci battiamo per la parità salariale (vedi sotto). Quattro anni dopo la nostra massiccia mobilitazione del 14 giugno 2019, dobbiamo ammettere che la parità non sta ancora progredendo. È necessario un nuovo sciopero femminista!

Salari a tempo pieno: meno 18%

Nel 2020, il divario salariale medio tra donne e uomini si è situato al 18% per l’intera economia. Circa la metà di questa differenza non può essere spiegata da fattori cosiddetti “oggettivi”. Secondo la LPar (Legge federale sulla parità dei sessi), questo divario non spiegato è da considerarsi puramente discriminatorio. È quindi il fulcro della disuguaglianza salariale e dovrebbe essere eliminato per primo, poiché non è legato a nessun altro fattore se non al fatto di essere donna. Tuttavia, invece di diminuire, questo margine è aumentato del 5,5% tra il 2014 e il 2018!

La differenza salariale è maggiore nel settore privato che in quello pubblico, rispettivamente del 19,5% e del 15,1%. Nel settore pubblico, il divario si è ridotto del 3% tra il 2018 e il 2020, ma la parte non spiegata è aumentata del 9,5%. Ora è pari al 46,7%, quasi la metà del divario.

Va inoltre notato che queste cifre includono solo le amministrazioni pubbliche. Escludono quindi il settore parapubblico sovvenzionato, che comprende la maggior parte degli ospedali, delle case anziani, l’assistenza domiciliare, le istituzioni sociali e le strutture di assistenza diurna. Ovviamente, sono esclusi dal settore pubblico anche tutti i servizi in subappalto, come mense, servizi di pulizia e lavanderia. In tutti questi settori le donne sono la maggioranza e i salari sono bassi. Se il settore pubblico includesse tutti i lavori di pubblica utilità, la quota di salari bassi e le disuguaglianze sarebbero, molto probabilmente, assai più elevate. Ad esempio, la disuguaglianza media nel settore dell’assistenza sanitaria e sociale è del 19,5%, paragonabile al divario nel settore privato.

Un’azienda su due non rispetta la legge

Dal 2020, la LPar è stata riveduta. Ora richiede a tutte le aziende con più di 100 dipendenti e alle autorità pubbliche di effettuare un’analisi dei salari per individuare eventuali disuguaglianze inspiegabili. Lo strumento proposto si chiama Logib. Esso mira a evidenziare qualsiasi divario retributivo che non possa essere spiegato dai seguenti criteri: formazione del dipendente, anzianità, esperienza professionale, livello di richiesta o posizione professionale. A questo punto si potrebbe muovere una critica, poiché l’oggettività di questi criteri è oggetto di discussione: il livello dei requisiti richiesti per posti di lavoro occupati principalmente da donne è spesso sottovalutato. Si sa inoltre che le donne sono spesso sovraqualificate, o che la gravidanza e il parto causano interruzioni di carriera che pesano sull’anzianità. Ma l’idea di Logib è quella di evidenziare le discriminazioni che non possono essere spiegate con altri criteri. E se non si cerca di utilizzarla per altri scopi, questa analisi può essere interessante.

Grosso modo, la metà del divario medio, cioè circa il 7-9% a seconda del settore, è quindi inspiegabile. Tuttavia, Logib tiene conto di una soglia di tolleranza del 5% su questa percentuale, che non ha alcuna base legale o scientifica. Secondo uno studio dell’Ufficio per l’uguaglianza del Canton Vaud, se questa soglia di tolleranza venisse eliminata, la percentuale di aziende conformi scenderebbe dall’81% al 50%. In altre parole, un’azienda su due non supererebbe il test Logib! Nel settore pubblico, il tasso di successo del test scenderebbe dal 91% al 54%, riducendo così il divario con il settore privato, che passerebbe dal 77% al 48%.

Basta con le disuguaglianze!

L’abolizione di questa soglia di tolleranza, l’obbligo per le aziende di pubblicare i risultati dettagliati dell’analisi, l’introduzione di controlli da parte di un’autorità federale con sanzioni: queste misure sarebbero già un passo nella giusta direzione – senza però risolvere il problema della disuguaglianza salariale, che è più ampio, come ricorda spesso il nostro sindacato, soprattutto per quanto riguarda la svalutazione dei lavori prevalentemente femminili. Ma non c’è nulla di tutto questo all’orizzonte!

Il GEOG segna l’esplosione delle disuguaglianze

Dal settembre 2022 disponiamo di un nuovo strumento molto interessante: il Gender Overall Earnings Gap (GEOG). Questo divario viene calcolato tenendo conto delle differenze nella retribuzione oraria lorda, delle differenze nelle ore di lavoro mensili e delle differenze nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro. Il risultato, calcolato sull’anno 2018, è del 43,2%. Ciò significa che il reddito delle donne per tutte le ore lavorate durante la vita lavorativa è inferiore del 43,2% rispetto a quello degli uomini. Nel confronto internazionale, la Svizzera si colloca al ventottesimo posto su trenta Paesi. Solo l’Austria e i Paesi Bassi fanno peggio! Questo risultato può essere attribuito al lavoro a tempo parziale, che viene imposto più spesso di quanto si pensi [2].

*Segretaria centrale del sindacato VPOD/SSP

[1] Le Temps, 22 febbraio 2022.

[2] Rapporto del Consiglio federale, 7 settembre 2022: Inégalité? salariale entre les femmes et les hommes. Capturing the global labour income gap and other indicators, preparato in risposta al postulato 19.4132 di Samira Marti (25 settembre 2019). Una ripartizione per fasce d’età mostra che il GOEG aumenta con l’età: è già del 7,9% tra i 15-24enni e sale al 27,3% tra i 25-34enni. Successivamente aumenta ulteriormente: dai 35 ai 44 anni: 48,4%; dai 45 ai 54 anni: 50,8%; dai 55 ai 64 anni: 53,5%.

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La lunga lotta (incompiuta) per la parità salariale

Il principio della parità di salario a parità di lavoro è stato sancito già nel 1948 nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite e poi nella Convenzione 100 dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (OIL) nel 1952.
Solo nel 1972, con l’introduzione del diritto di voto per le donne, la Svizzera ha ratificato questa convenzione; ci sono voluti ancora più di dieci anni prima che la Svizzera sancisse finalmente il principio di uguaglianza tra uomini e donne nella sua Costituzione. Era il 14 giugno 1981. Questo articolo costituzionale aveva suscitato molte speranze. Tuttavia, di fronte alla difficoltà di applicarlo, le donne hanno scioperato per la prima volta il 14 giugno 1991. L’obiettivo era quello di chiedere, tra le altre cose, una legge sulla parità (LPar), che sarebbe poi stata approvata nel 1996.
I sindacati e il movimento femminista pensavano di poter così contare su uno strumento giuridico che avrebbe cancellato rapidamente le disuguaglianze salariali. Un’altra delusione: le procedure della LPar sono in realtà lunghe e laboriose. Nei due terzi dei casi, alla fine dei processi, le ricorrenti hanno perso il lavoro, mentre le vittorie restano rare.
Insieme alle donne dell’Unione Sindacale Svizzera (USS) chiediamo da tempo una migliore applicazione della legge, in particolare controlli e sanzioni. Ma senza successo.
La persistenza delle disuguaglianze salariali, nonostante il crescente livello di formazione delle donne e il loro sempre maggiore radicamento nel mondo del lavoro professionale, è stata una delle ragioni per rilanciare l’appello allo sciopero femminista per il 14 giugno 2019.
Quattro anni dopo, è più che mai necessario mobilitarsi per la parità salariale!