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Lo scorso mese di marzo, il Parlamento federale ha approvato una riforma della Legge sulla Previdenza Professionale (LPP). Una riforma caratterizzata soprattutto dalla diminuzione delle future rendite pensionistiche attraverso la decisione di diminuire il tasso di conversione (che passa dal 6,8% al 6%, con una diminuzione delle rendite del 12% circa); una prospettiva di diminuzione che investirà la maggior parte dei salariati e delle salariate, risultando assolutamente inadeguate le forme di compensazione previste.
Un dibattito assai simile a quello che stiamo vivendo da tempo in Ticino, anche grazie alla mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici del settore pubblico e para-pubblico, con le proposte di modifica avanzate dal consiglio di amministrazione della Cassa cantonale (IPCT). Anche qui ci troviamo confrontati con una diminuzione, già in atto,  del tasso di conversione (che dovrebbe portare, a termine, ad una diminuzione del 20% delle future rendite) e una mancanza, almeno per il momento, di adeguate misure di compensazione che impediscano questa diminuzione delle future rendite.
Contro la revisione della LPP l’Unione sindacale ha lanciato un referendum, tuttora in corso  e l’MPS, approfittando di una possibilità offerta dalla Costituzione federale, chiede che il Cantone sostenga questo referendum attraverso una decisione del Gran Consiglio (se ne parlerà nella seduta del 22 maggio:
allegato.php (ti.ch)).
Per richiamare gli aspetti essenziali del dibattito e del ruolo della LPP abbiamo pensato di riprendere (traducendola) un’intervista allo storico e già professore all’Università di Losanna Sébastien Guex, apparsa circa un anno fa (marzo 2022) sul giornale dei compagni romandi di SolidaritéS. Un’
intervista nella quale si evidenzia il ruolo finanziario cruciale svolto da questo sistema in Svizzera. (Red).

Qual è l’importanza finanziaria del 2° pilastro oggi?

Il 2° pilastro funziona secondo un sistema a cosiddetta capitalizzazione. In sostanza, si tratta di un risparmio forzato. Ogni dipendente è obbligato a mettere da parte una parte del suo stipendio. Quando andrà in pensione, riceverà quanto accantonato sotto forma di capitale o di rendita, calcolata in base all’importo accumulato, più il reddito finanziario generato da tale importo. Complessivamente, considerando tutti i lavoratori dipendenti del Paese, si tratta di un patrimonio enorme: circa 1’064 miliardi di franchi nel 2020. Ciò pone la questione dell’importanza finanziaria del sistema di capitalizzazione. Ecco perché i capitalisti lo adorano! Questa enorme patrimonio, accumulato nel corso degli anni, deve essere investito. Infatti, i dipendenti ricevono ciò che hanno risparmiato loro stessi, più – come ho appena detto – il rendimento di questa ricchezza.

Dal punto di vista dei capitalisti, questo sistema è estremamente interessante per molte ragioni, di cui riocorderò qui solo le principali. In primo luogo, questo sistema, a differenza dell’AVS, non provoca quasi nessuna redistribuzione del reddito o della ricchezza dall’alto verso il basso e quindi conserva la piramide sociale nella sua interezza, un vantaggio economico, sociale, politico e culturale molto importante per la classe dominante. In secondo luogo, trasforma ogni lavoratore in un piccolo capitalista, che gli piaccia o meno. Il sistema divide ogni lavoratore, si può arrivare ad affermare che il “suo” capitale in realtà gioca contro lui…

Che cosa intende dire?

Illustriamo la cosa concretamente. Dal punto di vista della sua situazione materiale, il lavoratore ha interesse a ottenere il miglior salario possibile e ad avere un affitto basso. Ma dal punto di vista di quella parte del proprio salario che viene capitalizzata e investita nell’ambito del secondo pilastro, egli ha interesse al massimo rendimento possibile di questo capitale. Ciò significa che le imprese capitalistiche devono generare i maggiori profitti possibili. E come viene raggiunto tale obiettivo? Mantenendo i salari ai livelli più bassi possibili o, nel caso del settore immobiliare, aumentando gli affitti il più possibile.

Per il capitale questa tensione è estremamente positiva: da un punto di vista materiale, ma anche sociale e politico si potrebbe dire, poiché il capitale crea divisioni: introduce una sorta di schizofrenia in ogni lavoratore, contrapponendo il lavoratore, in quanto titolare di un fondo pensione, a sé stesso in quanto dipendente e inquilino…

Lei ci ha fornito le prime due ragioni per cui i capitalisti preferiscono questo sistema. Quali sono le altre?

Ce ne sono almeno altre tre. Per i capitalisti è molto vantaggioso che esista un patrimonio disponibile come quello accumulato nell’ambito del 2° pilastro. Come ho già detto, rappresenta una cifra gigantesca: circa 1’064 miliardi di franchi. Per dare un ordine di grandezza, si tratta di 1,3 volte il PIL della Svizzera. Questa enorme quantità di risparmio forzato ha costituito e costituisce tuttora una riserva a cui le imprese svizzere hanno potuto attingere per effettuare investimenti. Questo è il terzo elemento di interesse del capitalismo svizzero. È anche uno dei motivi per cui i capitalisti e i loro rappresentanti politici si sono sempre battuti affinché il secondo pilastro fosse più importante del primo, l’AVS.

Costringendo i dipendenti a risparmiare, i tassi di interesse in Svizzera vengono spinti verso il basso e i prestiti sono più convenienti per le aziende svizzere rispetto ai loro concorrenti, soprattutto la Germania. Storicamente, questo è uno dei motivi per cui il capitalismo svizzero è stato così competitivo nella seconda metà del XX° secolo.

Questi enormi capitali devono essere gestiti. Si parla molto dei costi di questa gestione. Anche questo deve rappresentare un business considerevole, giusto?

Assolutamente sì, questo è il quarto vantaggio del sistema per gli ambienti capitalistici svizzeri. A metà del secolo scorso, per molte aziende era ancora possibile gestire autonomamente i propri fondi pensione. Ma con l’aumento delle dimensioni di questi fondi, è diventato necessario, anche dal punto di vista dei dipendenti, gestirli in modo professionale. Ciò ha portato allo sviluppo di un'”industria” della gestione dei fondi pensione: questa comprende ovviamente i fondi pensione molto grandi, ma anche una serie di altre società. A cominciare dalle società specializzate a cui molte aziende affidano la gestione dei propri fondi pensione. La più grande di queste, a quanto mi risulta, è Swisslife, una delle maggiori compagnie assicurative private in Svizzera e in Europa. Ma anche gran parte del settore bancario svizzero e la Borsa svizzera – in breve, il cuore della piazza finanziaria elvetica – beneficiano di questo sistema attraverso le commissioni e gli altri oneri applicati agli investimenti: vale a dire, le innumerevoli compravendite di titoli (azioni, obbligazioni, buoni del tesoro, ecc.) e le operazioni più o meno speculative effettuate nell’ambito di questa gestione.

Va ricordato che ogni giorno vengono effettuate migliaia di transazioni che riguardano milioni di titoli. Così, anche se le commissioni e le spese applicate dai vari operatori finanziari possono apparire formalmente minime, la loro moltiplicazione permette di generare profitti enormi per l’intera piazza finanziaria svizzera. Questo enorme bacino di capitali ha anche permesso alle banche svizzere di aumentare il loro “potere di mercato”, cioè la loro posizione, sul mercato internazionale dei capitali, contribuendo così alla loro capacità di competere con i concorrenti francesi, tedeschi, britannici e persino americani.

Naturalmente, per i fondi pensione e i dipendenti questi benefici rappresentano dei costi. Possiamo avere un’idea degli importi coinvolti in questa attività quando vediamo che i costi totali di gestione dei fondi pensione rappresentano oggi qualcosa come 6 miliardi di franchi. Questo importo è proporzionalmente molto più alto dei costi di gestione dell’AVS e deve essere confrontato con il reddito generato dagli investimenti dei fondi pensione, che oggi ammonta a circa 15 miliardi, ossia appena due volte e mezzo la somma dei costi di gestione.

Pertanto, questa attività alimenta una frazione specifica dei circoli capitalistici, pur avendo contribuito – e contribuendo tuttora – allo sviluppo della piazza finanziaria svizzera.

E il settore immobiliare in tutto questo?

Da un punto di vista capitalistico, lo stimolo del settore immobiliare è un quinto vantaggio di un sistema pensionistico come quello svizzero. Infatti, parte del patrimonio dei fondi pensione è investito nel mercato immobiliare, molto sicuro, perché tutti hanno bisogno di trovare un posto dove vivere. Questa dinamica fa salire il prezzo dei terreni e degli affitti, mentre le società che li possiedono (molto spesso assicurazioni private), ma anche i singoli proprietari, i gestori di immobili, gli avvocati d’affari specializzati, i notai, le camere immobiliari e, indirettamente, i datori di lavoro del settore edile, si ritrovano ampiamente sostenuti.

È comprensibile che, di fronte a questa fortuna, l’AVS abbia un fascino a dir poco limitato per i capitalisti…

Dal loro punto di vista, un sistema pensionistico basato sulla redistribuzione è molto meno interessante. Poiché la generazione dei lavoratori finanzia direttamente la generazione dei pensionati, per far funzionare il sistema è necessaria solo una piccola riserva di garanzia. Si tratta del cosiddetto “fondo AVS“. Con i suoi 47 miliardi, tale fondo non ha molto peso rispetto ai 1’064 miliardi del 2° pilastro, collocati in un ambiente che tende a crescere e la cui gestione alimenta un’intera “industria” impegnata a gestire questo risparmio forzato dei lavoratori, come ho appena spiegato.

Ci può parlare ora dei rendimenti di questa ricchezza del 2° pilastro?

I rendimenti sono in calo da ben vent’anni. Si tratta di una tendenza storica, le cui cause sono in parte una scatola nera. Per fare l’esempio dei fondi pensione: nel 2000 il loro patrimonio era di 475 miliardi, con cui hanno generato 16,6 miliardi di reddito. Nel 2018, il loro patrimonio totale è salito a 865 miliardi, ma con un reddito di soli 14,1 miliardi!

Il tasso di rendimento è sceso dal 3,5% del 2000 all’1,6% del 2018, cioè di oltre la metà. È un problema che, ad esempio, la nostra organizzazione d’origine (La Lega Marxista Rivoluzionaria – LMR) aveva messo in rilievo già all’inizio degli anni Settanta. Pubblicò un opuscolo sulle casse pensione in cui sosteneva che il sistema era straordinariamente pericoloso, poiché intrinsecamente legato al tasso medio di profitto generato – e quindi anche alle crisi generate e subite dal capitalismo svizzero e, più in generale, dal capitalismo mondiale.

Oggi questa previsione è pienamente confermata: la produttività media e il rendimento generato dal capitalismo su scala globale sono bassi e le crisi sono sempre più profonde e regolari. Lo dimostra il livello dei tassi di interesse, che per molti anni sono stati molto bassi, se non negativi! Inoltre, non c’è alcun segno di “motori” che possano sostenere una ripresa (per fortuna, dal punto di vista ecologico). Di conseguenza, un sistema pensionistico basato sulla capitalizzazione, come è il 2° pilastro in Svizzera, si rivelerà ancora più dannoso per i lavoratori.

Come reagiscono gli ambienti capitalistici a questa tendenza?

Dal loro punto di vista, la logica conclusione del calo dei rendimenti è una massiccia riduzione delle prestazioni delle casse pensione, che dovrebbe riflettersi in una drastica riduzione del tasso di conversione. Il progetto LPP 21 prevede un tasso del 6%, ma il presidente di UBS, Axel Weber, difende già l’idea di un tasso di conversione del 4%.

È importante capire che le due battaglie, sull’AVS 21 e sulla LPP 21, sono strategiche, decisive, sia per i salariati che per i capitalisti. Questi ultimi vogliono far saltare un grimaldello! Dopo di che, sarà una catastrofe. Non solo sul tasso di conversione, ma anche sull’età pensionabile, come tutti cominciano a capire.

I datori di lavoro non puntano a un’età pensionabile di 65 anni per le donne, ma a un pensionamento “flessibile” per tutti, almeno a 70 anni. Non vogliono una riduzione del 5% o del 10% delle prestazioni dei fondi pensione, ma almeno del 30%. Questo è l’obiettivo per il 2030. Stiamo entrando in una cruciale resa dei conti tra le forze che vogliono regressione sociale e quelle che vi si oppongono.