Il 27 maggio ricorre il centenario della nascita di don Lorenzo Milani, la cui figura appartiene al mondo detto del dissenso cattolico che contribuì a criticare una società ingiusta, alimentando il ‘68 studentesco e quello operaio dell’anno seguente. Dal contatto diretto con le storie di vita dei parrocchiani in due comuni in provincia di Firenze, maturò la sua indignazione e protesta. Dai giovani lavoratori apprende che il boom economico degli anni Sessanta non ha diminuito lo sfruttamento, anzi lo ha accresciuto: permane il lavoro in nero, le retribuzioni sono misere, i pochi diritti esistenti non sono rispettati dai datori di lavoro. Casi simili, in forme e modalità diverse, si ripresentano oggi in una dimensione quantitativamente superiore, tanto che si può affermare esista una numerosa classe sociale di precari nel lavoro e nei diritti.
Più nota e conosciuta l’esperienza della scuola di Barbiana, raccontata nella scrittura collettiva intitolata Lettera a una professoressa del 1967 nella quale, cinque anni dopo l’introduzione della scuola media unica obbligatoria, si denunciava la selezione di classe: solo il 50% degli alunni portava a termine la scuola dell’obbligo. Più che all’Università la lotta alla selezione di classe andava combattuta, nelle elementari, in prima media, al primo anno delle medie superiori, dove l’incontro tra insegnanti e i nuovi studenti medi lasciava sul terreno un incremento di bocciature e di abbandoni. La scuola perpetuava il meccanismo della diseguaglianza, non riduceva il dislivello tra gli alunni dando di più, didatticamente e pedagogicamente, a chi aveva meno.
Quella scuola, dicevano i ragazzi di Barbiana, funzionava come un ospedale rovesciato: si curavano i sani e si trascuravano i malati. Allora come oggi lo scopo della scuola non consiste nel premiare quelli bravi, coltivare le eccellenze, ma aiutare gli ultimi. Non si può applicare la meritocrazia quando le condizioni di partenza sono diseguali. Trattare in modo eguale persone diseguali è ingiustizia. L’ossessione dei meritocratici offusca e nasconde l’eredità del contesto familiare e sociale che, guarda caso, è correlata al “livello di conoscenze”. Chi ha genitori istruiti è privilegiato, chi viene da realtà problematiche fa più fatica. Tutte variabili che pesano su percorsi d’istruzione che sembrano ancora oggi segnati da un cinico destino educativo lungo le tre vie degli studi superiori: il liceo, gli istituti tecnici e, da ultimi, i professionali.
Nel 1965 Don Milani fu processato per aver criticato i cappellani militari che denunciavano l’obiezione di coscienza come “insulto alla Patria, ai suoi Caduti… espressione di viltà”. Raccolse i documenti processuali in un libro, L’obbedienza non è più una virtù (1965), nel quale criticò il concetto di Patria intesa come distinzione fra chi appartiene alla propria nazione e chi invece è straniero. Sostenne di non avere Patria. E a chi divideva il mondo in parti, opponeva il diritto “di dividerlo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. L’ideologia patriottica e nazionalista porta con sé l’assunto che è onorevole combattere e uccidere in guerra. A ciò replicava che le uniche armi compatibili con la democrazia erano quelle pacifiche dello sciopero e del voto, e ricordava l’articolo della Costituzione italiana: “l’Italia ripudia la guerra”. Infine, rivolgendosi direttamente ai cappellani, li esortava a educare i soldati all’obiezione anziché all’obbedienza militare, aiutandoli a capire criticamente in quali occasioni sarebbe stato utile attenersi agli ordini dei superiori e in quali invece era giusto opporsi a commettere atti aggressivi e inumani.