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Dopo aver confermato la creazione di una “gigafactory” per le batterie nei pressi di Dunkerque e aver ricevuto a Versailles 200 padroni arrivati da tutti i continenti, Macron ha osato affermare che la “reindustrializzazione della Francia” è in corso, accogliendo con favore l’annuncio della creazione di 8.000 posti di lavoro totali, di cui 3.000 a Dunkerque. Al suo ospite d’onore Elon Musk, il padrone delle auto elettriche Tesla, che sogna di far lavorare la gente cento ore alla settimana nelle sue fabbriche, Macron ha dichiarato: “Abbiamo molto da fare insieme”. Musk, fervente ammiratore di Trump negli Stati Uniti, ha risposto di essere “molto colpito” dal presidente francese.

L’industria automobilistica avrebbe quindi un posto di primo piano nel programma di reindustrializzazione auspicato da Macron. Ma torniamo ai fatti, che mostrano la realtà di una politica contraria all’occupazione e indifferente all’emergenza climatica.

Decine di migliaia di posti di lavoro eliminati

In Francia, nel giro di quarant’anni, i lavoratori salariati del settore automotive sono diminuiti di un terzo e sono passati dai 330.000 di vent’anni fa ai circa 200.000 di oggi. Il crollo è più accentuato alla Renault, con i 40.000 lavoratori odierni di fronte ai 70.000 di vent’anni fa. Se confrontiamo queste cifre con i 3.000 posti di lavoro che potrebbero essere creati nei pressi di Dunkerque, si può capire quanto irrisorie esse siano. Inoltre, sono cifre che non hanno molto senso per coloro che, espulsi dalle fabbriche durante le ristrutturazioni degli ultimi decenni, sono stati costretti a “riqualificarsi” per lavoretti saltuari o sono stati messi in cassa integrazione. Le loro vite sono state sconvolte e non c’è modo di riottenere un posto in fabbrica. Non ci sono ponti tra i posti di lavoro persi e quelli creati.

Mentre il numero di vetture in circolazione continua ad aumentare, le ragioni del calo dei dipendenti sono ben note e sono principalmente dovute alla riorganizzazione geografica sulla scala di un’Europa allargata al Marocco e alla Turchia e dai mezzi di produzione di Renault e PSA, che è diventata Stellantis. L’arrivo delle auto a motore elettrico, in seguito al divieto di vendita di auto a combustione previsto in Europa entro il 2035, è ovviamente un fattore nuovo all’origine di nuove ristrutturazioni.

Nuove fonti di profitto

La produzione di un’auto elettrica richiede meno lavoro perché ci sono meno parti in movimento rispetto alle auto a combustione. Ciononostante, un’auto elettrica viene venduta al 40% in più rispetto a un’auto a combustione della stessa potenza. Ciò è dovuto ai margini di profitto delle case automobilistiche e al costo di produzione delle batterie, quasi la metà del costo totale di un’auto. Di conseguenza, le aziende automobilistiche, insieme ai loro fornitori di componenti classiche, taglieranno ulteriormente i posti di lavoro, a parità di orari e intensità di lavoro. D’altra parte, la produzione di batterie è già una nuova fonte di profitto. I cambiamenti in corso nella catena del valore della produzione automobilistica fanno gola a molti: la metà del prezzo di ogni auto potrebbe cambiare terreno industriale e “padrino” capitalista. Ce n’è per far spuntare i denti lunghi a un sacco di gente!

Oggi l’80% delle batterie standard per le auto elettriche viene prodotto da aziende cinesi. Ma tutti vogliono una fetta della torta, sia negli Stati Uniti che in Europa. È l’eterna legge della concorrenza.

Si stanno costruendo fabbriche di batterie in tutta Europa. Le capacità produttive annunciate in Francia e lodate da Macron sono quattro volte inferiori a quelle annunciate in Germania. Secondo l’organizzazione europea Transport and Environment, i piani totali annunciati in Europa per il 2030 raggiungono già la capacità di equipaggiare 30 milioni di automobili.

Tra le imprese e tra i paesi che le accolgono con sussidi e vantaggi fiscali, la concorrenza è brutale. Il governo e la regione Hauts de France sono riusciti ad attirare a Dunkerque l’azienda taiwanese ProLogium, che propone di installare una batteria “solida”, con una tecnologia non ancora del tutto testata, destinata a produttori non ancora identificati e a prezzi di vendita sconosciuti. Oltre 5 miliardi di euro di investimenti per 3.000 posti di lavoro è un prezzo piuttosto salato per un risultato così modesto e insicuro!

Giga per miliardi di profitti

Il termine “giga” -per miliardi- non si applica evidentemente al numero di posti di lavoro creati in questo tipo di fabbriche: poche migliaia, in nessun caso più di 5.000 per ogni stabilimento. Per la cronaca, i siti storici di Renault Billancourt, Peugeot Sochaux o Fiat Mirafiori contavano fino a 40.000 lavoratori. Ma il termine “giga” si applica senza dubbio ai profitti generati e all’entità delle risorse minerarie mobilitate. L’estrazione di cobalto, nichel, grafite e altri materiali è alla base dei processi che portano all’assemblaggio delle batterie. Queste risorse naturali diventano sempre più scarse man mano che vengono estratte, il che porta a un ulteriore massacro del pianeta, a una maggiore concorrenza per l’accesso a queste risorse e all’aumento dei prezzi. Ecco perché, contrariamente alle previsioni di pochi anni fa, le auto elettriche restano e resteranno fuori dalla portata della stragrande maggioranza della popolazione.

L’attività delle imprese capitalistiche non si misura tanto in quantità ma in valore delle merci prodotte. Questa caratteristica della produzione capitalista sta venendo di nuovo alla luce: le aziende automobilistiche possono accettare di produrre e vendere meno auto se realizzano altrettanti o maggiori profitti.

La distruzione delle capacità produttive industriali negli ultimi decenni è un fatto accertato, ancora più marcato in Francia che in altri Paesi europei. La cosiddetta “deindustrializzazione” è questa politica a favore delle attività che generano i profitti più immediati, a partire da tutto ciò che ruota intorno alla speculazione finanziaria. In realtà, Macron sta sviluppando -dal suo sostegno a Uber come ministro dell’Economia fino allo sviluppo di queste nuove gigafabbriche– una politica coerente basata sulla promozione delle attività produttive più immediatamente redditizie per il capitale. Tutto sia per l’occupazione e per l’emergenza climatica!

Sì, la faccenda della distruzione dei mezzi di produzione è una cosa seria. Ma la ricostruzione del mondo del passato, quello ancora troppo presente con le fabbriche inquinanti, la minaccia dell’amianto, la permanenza dello sfruttamento del lavoro e di una produzione spesso inutile, rimane un’eredità scomoda e nociva a cui opporsi.

Durante la pandemia è sorto un dibattito sull’utilità o meno delle varie attività produttive. Il movimento operaio e sindacale ne ha approfittato per chiedere la sospensione delle attività non essenziali caso per caso. Il nostro orizzonte non è quello di una buona politica industriale con obiettivi compatibili con gli imperativi del profitto.

Ci sono tanti bisogni insoddisfatti in termini di strutture sanitarie e servizi pubblici, di mobilità o di isolamento termico di decine di milioni di case. Mettere l’economia e la produzione al posto giusto significa soddisfare i bisogni più necessari, condividere il lavoro tra tutti e ridurre massicciamente le ore di lavoro. Spetta ai produttori e alle produttrici decidere cosa e come produrre, con, da e per la maggioranza della popolazione, liberandosi dai vincoli del profitto capitalista e dal fascino di queste “start-up” che conducono solo alla regressione sociale.